62.

Settembre 1947

Sono ferma davanti alla porta con le nocche sospese in aria e il braccio improvvisamente debole, dopo aver fatto per tre volte il giro dell’isolato cercando di prepararmi. Ci sono talmente tante cose in gioco. Busso.

È Erika, lo capisco immediatamente. Il viso è più vecchio di quanto mi aspettassi, più segnato, ma dentro c’è quello di lui. Per una frazione di secondo, l’ombra della paura le attraversa gli occhi, ed è la stessa paura che sento anch’io ogni volta che qualcuno bussa inaspettatamente alla mia porta. Poi le passa: No, è finita. Mi fissa. Dietro di lei sbuca di corsa una bimba che poi, vedendo la porta aperta ed estranei sulla soglia, va a nascondersi dietro le gonne della mamma.

«Cyrla?» domanda la donna. Non ci siamo mai incontrate, ma lo sa.

Le mani volano sulle bocche come una coppia di uccellini, gli occhi si riempiono di lacrime, ed entrambe restiamo lì impalate, sopraffatte dall’emozione. Sono le piccole a spezzare la nostra immobilità. Lina fa capolino dietro al fianco della madre e sorride timida, civettando con Anneke, identica alla neonata che ho visto in fotografia cinque anni fa. Anneke tende le braccine, offrendole il coniglietto imbottito che porta sempre con sé e che non ha mai porto a nessuno prima d’ora.

Io ed Erika riprendiamo fiato all’unisono e lei fa un passo avanti per abbracciarmi. Non riusciamo ad aprire bocca e per un istante non ne sentiamo il bisogno, ma solo per un istante.

«Lui c’è?»

Lei arretra e scuote il capo. «No».

Cerco di indovinare il significato di quella parola prima ancora che lei finisca di dirla.

«Entra, Cyrla» soggiunge. «Vieni dentro». Sorride e il mio cuore riprende a battere.

In anticamera ci abbracciamo di nuovo, poi ci diciamo le solite cose… parole che tentano di esprimere quel che non si può esprimere a parole. Mi conduce in un salottino e mi dice di sedermi mentre prepara il tè. Mi guardo intorno e rimpiango la decisione di vestirmi di tutto punto: il cappello con le piume e il grande fiocco giallo di Anneke rendono l’appartamento ancora più scialbo. Qui da loro le cose sono andate peggio. Mi alzo di nuovo e vado a guardare le foto incorniciate su una parete. Eccolo là, bambino, poi ragazzino con la bicicletta nuova, e poi giovanotto accanto allo scheletro di una barca. In ciascuna foto, anche quella da neonato, la sorella gemella è accanto a lui e lo guarda con adorazione. Nessuna immagine di lui in uniforme.

Per tutto il tempo in cui mi bevo la sua faccia, riesco a concentrarmi solo su una cosa. Lui non c’è… Ma lei ha sorriso.

Quando torna in soggiorno, si scusa di non avere nulla da offrirmi con il tè.

Non posso più aspettare, la cortesia formale si è dissolta anni fa. «Dov’è?»

Posa il vassoio sul tavolino, prende una lettera lì accanto e me la porge. Guardo l’indirizzo del mittente e a questo punto mi sento così malferma sulle ginocchia che vorrei tanto essermi seduta.

Poi sorrido anch’io. «Allora sta bene?»

«Sì, sta bene». L’espressione di Erika cambia e diventa illeggibile. «No, ovviamente non sta bene. Ha passato tre anni a Dachau».

Mi porge il tè e ci sediamo insieme sull’unico divano. «Nessuno sta bene, al momento» aggiunge. «Come potremmo?»

Per un istante rimaniamo sedute con quella domanda senza risposta. Io aspetto e lei me lo legge in faccia: devo sapere tutto.

«Gli hanno spezzato le mani, così non ha più potuto costruire niente. Poi lo hanno quasi ammazzato di lavoro. Quando è sceso dal treno non l’ho riconosciuto, da quanto era magro. L’ho proprio superato, cercando lungo il binario, mi ha dovuta chiamare lui. Dopo, per un sacco di tempo, non parlava quasi mai. Poi è morta nostra madre, di crepacuore, credo».

Nel frattempo le bimbe giocano ai nostri piedi. Sento Lina che racconta di un cane che aveva, un cane valorosissimo; ma si vede bene che non ha mai avuto né quel cane né altri cuccioli. Tira fuori una scatola di bamboline di carta e spiega a mia figlia le regole severe secondo cui ciascuna deve essere abbigliata. Chissà come, Anneke capisce, benché non parli tedesco, e si lascia comandare a bacchetta, cosa che a casa non consentirebbe mai. Ogni tanto Lina tende una mano a sfiorare il ginocchio della madre, e una volta si arrampica sul divano e si siede per un attimo con la testa sul suo grembo. È stato molto peggio, per loro, qui.

«Dà la colpa a me?»

«A te? Ma no, lui non la vede così. Karl pensa che tu lo abbia salvato. Senza di te, la sua vita non sarebbe valsa a nulla. Dice così».

«E adesso? Com’è la sua vita, ora?»

Me lo dice e io chiudo gli occhi, cerco di raffigurarmela. «È…»

Lei dà un’occhiata alla mia mano sinistra. «Sposato? No».

Il sollievo mi incendia le guance.

Erika tende una mano e accarezza i riccioli biondi di Anneke. «Karl si preoccupava sempre per lei. Sarà contentissimo, quando verrà a saperlo. Dove hai partorito?»

«Mi sono venute le doglie il giorno dopo. La fattoria in cui cercai rifugio quella notte… Fu una buona scelta, grazie a Dio. Mi accolsero senza fare domande, e restai con loro sei mesi».

«Karl ti ha cercata. Ha fatto di tutto per trovarti».

Quasi cedo, sentendo queste parole. «Anch’io ho cercato tanto».

«Come ci hai trovati?»

«Prima ho cercato a Monaco, ma non c’era nessun Karl Getz. No, anzi, ce n’erano… ma non erano lui». M’interrompo, travolta dall’inadeguatezza di queste parole. Tutti quegli angoli di strada. Tutti quegli impiegati, quei registri. Guardi meglio, la prego. Guardi meglio.

«Ja» dice lei. «È ancora molto difficile trovare le persone».

«Poi sono venuta ad Amburgo. Sapevo solo che era cresciuto fuori Amburgo, da qualche parte nei pressi dell’Elba. Ho perlustrato tutti i paesi sul fiume, sono qui da quasi un mese. Ho chiesto di Karl, ho chiesto di te. E poi ho chiesto di Lina».

La ragazzina si volta sentendo il proprio nome. Scruta la mamma e poi me, decide che non c’è nulla da temere e torna alle sue bambole.

«Sono andata in tutte le scuole di tutte le cittadine lungo il fiume. Non sapevo il tuo cognome, ma chiedevo di una bimba di nome Lina, con la mamma di nome Erika. E uno zio. Niente da fare… fino a oggi. All’inizio la maestra di Lina non voleva darmi il tuo indirizzo, ma l’ho convinta. Le ho detto che le bambine erano imparentate».

«Be’, è quasi vero. Anzi no, è vero» dice Erika. «Karl ti ha cercata per mesi. Ha scritto a tutte le anagrafi d’Olanda. Non ha mai pensato all’Inghilterra».

Alzo lo sguardo, sorpresa, poi mi ricordo che mia figlia ha detto qualche parola. «Già, l’Inghilterra. Ho lavorato in un orfanotrofio, lassù».

«Come ci sei arrivata?» chiede.

«Appena ho potuto sono andata alla sinagoga di Isaak. Dovevo sapere».

Erika si sporge e mi copre la mano con la sua. «Isaak, il padre? Anche lui è…»

Scuoto il capo e mi volto, in attesa che le lacrime mi riempiano gli occhi e poi si ritirino. «Buchenwald».

«Mi dispiace».

Aspetto che il nodo alla gola si sciolga un po’. Non sono andata al capanno, e questo pensiero mi tormenterà per sempre. «Aveva preparato tutto per me, prima di… documenti nuovi, l’identità completa di una donna con dei parenti in Inghilterra. E con quelli sono riuscita a comprare un passaggio. Isaak non aveva pensato alla bambina, pensava che sarei partita mesi prima che nascesse, quindi con lei ho avuto qualche difficoltà, ma l’ho superata. Be’, adesso non importa più».

Una sola cosa importa, ora. In questa stanza, finalmente, sono vicinissima a lui. Ma non abbastanza.

Riprendo in mano la lettera. «Posso?» Tiro fuori dalla borsa una penna e un taccuino e copio l’indirizzo del mittente.

«Sarà felicissimo. Gli scrivi subito?»

«No, non gli scrivo».

Lei mi guarda perplessa. «Ma lui deve sapere. Merita di sapere».

«Ho bisogno di guardarlo in faccia. Ho bisogno di vedere cos’avrà negli occhi in quel primo istante». Perché mi sono ricordata l’ultima cosa che mi disse Anneke: che cosa avrei visto negli occhi dell’uomo giusto. Erika è una donna, e mi capisce. Io e Anneke porgiamo i nostri saluti e riprendiamo il tram per Amburgo. È ancora abbastanza presto: chiediamo indicazioni per la più vicina agenzia di viaggi.

«Posso prenotarvi due cuccette sul piroscafo per il giorno diciannove».

«No» decido all’improvviso. «Dobbiamo partire domani».

La donna controlla orari e registri. «Costerà molto di più, con un preavviso così breve».

I biglietti si mangiano quasi tutti i soldi che mi sono rimasti.

La mia prima visione di lui, dopo tutto questo tempo: sulla chiglia di una barca a vela, la carnagione del medesimo colore del legno lucido che scintilla al sole. Si china per intingere un pennello in un barattolo di vernice. Me lo ricordo chino esattamente nello stesso modo, nel salottino di Steinhöring. Ora riconosco il suo dorso. E, perfino da questa distanza, riesco a vedere che cosa gli hanno fatto alle mani. Mi avvicino sulla sabbia che attutisce i miei passi. Respiro a malapena, ma tengo stretta Anneke e aspetto, sussurrandole di fare silenzio.

Ma lei non ce la fa. Dove io vedo una cosa sola, lei vede acqua di un colore che non conosceva, uccelli bianchi e neri che razzolano in file lungo la riva, palme – che forse le sembrano giganteschi ombrelli verdi che la salutano – che si rovesciano giù dalle colline.

La lascio andare sulla sabbia e lei si mette a correre.

Lui si raddrizza, la guarda. Immagino che sorrida appena, come si fa di solito. Immagino che veda Lina là, intenta a raccogliere conchiglie sulla riva. Poi, come si fa di solito quando si vede un bambino solo, perlustra la spiaggia in cerca di un adulto. I bambini non si possono lasciare soli.

Si gira.

Un istante di panico: siamo stati lontani così a lungo! La gente si perde a vicenda in così tanti modi…

Il pennello gli cade di mano.

E nei suoi occhi vedo la mia casa.