Padma può sentirlo: non c’è niente come un conteggio alla rovescia per creare suspense. Oggi guardavo il mio fiore-sterco al lavoro, rimestava mastelli come un turbine, come se questo potesse costringere il tempo ad andar più in fretta. (E forse era proprio così; il tempo, secondo la mia esperienza, è sempre stato variabile e incostante come la fornitura d’energia elettrica a Bombay. Se non mi credete, provate a telefonare al servizio ora esatta – collegato all’elettricità, sbaglia di solito di qualche ora. A meno che non siamo noi a sbagliare – un popolo che usa la stessa parola per dire “ieri” e “domani”, non si può dire che abbia un solido controllo sul tempo.)

Oggi però Padma sentiva il tic, tac di Mountbatten... Made in England, batte con implacabile precisione. E ora la fabbrica è vuota; ci sono ancora i vapori, ma i mastelli sono immobili; e io ho mantenuto la parola. Tutto in ghingheri, saluto Padma che si precipita alla scrivania, si lascia cadere sul pavimento accanto a me, mi ordina: «Comincia». Faccio un piccolo sorriso soddisfatto; sento i bambini di mezzanotte che fanno la coda nella mia testa, a spinte e a gomitate come le mogli dei pescatori koli; li invito ad aver pazienza, non ci vorrà molto ormai, mi schiarisco la gola, do una piccola scossa alla mia penna; comincio.

Trentadue anni prima del trapasso dei poteri, mio nonno sbatté il naso contro la terra del Kashmir. Ci furono rubini e diamanti. Ci fu il ghiaccio del futuro, in attesa sotto la pelle dell’acqua. Ci fu un giuramento: non inchinarsi mai né davanti a un dio né davanti a un uomo. Il giuramento creò un vuoto, che sarebbe stato temporaneamente riempito da una donna nascosta da un lenzuolo perforato. Un barcaiolo che aveva un tempo profetizzato dinastie annidate nel naso di mio nonno, lo traghettò rabbioso attraverso il lago. Ci furono proprietari terrieri ciechi e lottatrici. E ci fu un lenzuolo in una stanza buia. Quel giorno cominciò a formarsi la mia eredità: l’azzurro del cielo del Kashmir che gocciolò negli occhi di mio nonno; la lunga sofferenza della mia bisnonna, che sarebbe diventata la pazienza di mia madre e l’inflessibilità di Naseem Aziz; la capacità del mio bisnonno di conversare con gli uccelli che, attraverso tortuosi passaggi genealogici, si sarebbe trasmessa nelle vene di mia sorella, la Scimmia d’ottone; il conflitto tra lo scetticismo del nonno e la credulità della nonna; e soprattutto l’essenza spettrale di quel lenzuolo perforato, che condannò mia madre a imparare l’amore per un uomo a segmenti, e condannò me a vedere a frammenti anche la mia vita – i suoi significati, le sue strutture; e così, quando arrivai a capirla, era decisamente troppo tardi.

Gli anni passano – e la mia eredità cresce, perché ora ho i mitici denti d’oro del barcaiolo Tai e la sua bottiglia d’acquavite che preannunciava i ginn alcolici di mio padre; ho Ilse Lubin come suicidio e serpenti in salamoia come virilità; ho Tai come immutabilità contrapposto ad Aadam come progresso e ho anche gli odori del barcaiolo che non si lavava e che spinse i miei nonni al Sud, rendendo possibile Bombay.

... E ora, stimolato da Padma e dal tic, tac, vado avanti, acquisendo il Mahatma Gandhi e il suo hartal, ingerendo pollice e indice, inghiottendo il momento in cui Aadam Aziz non sapeva più se era kashmiri o indiano; ora sto bevendo mercurocromo e le macchie hanno la forma delle mani che ritornerà nel succo di betel; e sto trangugiando Dyer, con i baffi e tutto quanto; mio nonno viene salvato dal suo naso e sul suo petto compare un’ammaccatura che non sparirà più, per permettere a lui e a me di trovare nel suo incessante pulsare la risposta alla domanda: indiano o kashmiri? Macchiati dall’ammaccatura di un fermaglio di borsa Heidelberg, identifichiamo la nostra sorte con quella dell’India; ma l’estraneità degli occhi azzurri rimane. Tai muore, ma le sue mani magiche sono ancora su di noi e ci rendono diversi.

... Correndo in avanti, mi fermo per raccattare il gioco del centrar-la-sputacchiera. Cinque anni prima della nascita di una nazione, la mia eredità cresce, assorbendo un’epidemia d’ottimismo che tornerà a esplodere nel mio tempo e crepe nella terra che rinasceranno nella mia pelle e l’ex mago Colibrì da cui partì la lunga serie degli intrattenitori di strada che scorre parallela alla mia vita, e i nei di mia nonna simili a capezzoli di strega e l’odio per le fotografie, e comesichiama, e le guerre della fame e del silenzio, e la saggezza di mia zia Alia che la portò allo zitellaggio e all’amarezza per esplodere infine in una vendetta mortale, e l’amore tra Emerald e Zulfikar che mi avrebbe permesso di dare inizio a una rivoluzione, e i coltelli a mezzaluna, lune fatali echeggiate dal vezzeggiativo di mia madre per me, il suo innocente chand-ka-tukra, il suo affettuoso Quarto di... e ora estendendomi sempre più, fluttuando nel liquido amniotico del passato, mi nutro di un ronzio che continuò a salire finché non arrivarono in soccorso i cani, di una fuga in un campo di grano e di un salvataggio a opera di Rashid, il wallah del ricsciò con i suoi gesti grotteschi da Gai-Wallah che corse – DI GRAN CARRIERA! – gridando silenziosamente e rivelò i segreti delle serrature fabbricate in India e portò Nadir Khan in una toilette contenente un cassone per il bucato; sì, mi sto appesantendo di secondo in secondo, sto ingrassando con i cassoni per il bucato e l’amore sotto il tappeto tra Mumtaz e il bardo senza rime, mi sto gonfiando con l’assorbire il sogno di Zulfikar di un bagno accanto al suo capezzale e un Taj Mahal sotterraneo e una sputacchiera incrostata di lapislazzuli; un matrimonio si disgrega e questo mi nutre; una zia attraversa proditoriamente di corsa la città di Agra, senza il suo onore, e anche questo mi nutre; e ora le false partenze sono finite, e Amina ha smesso di essere Mumtaz, e Ahmed Sinai è diventato, in un certo senso, suo padre oltre che suo marito... la mia eredità comprende anche questa dote, la dote di inventarmi genitori nuovi ogni volta che occorre. Il potere di mettere al mondo padri e madri; che Ahmed avrebbe voluto e non ebbe mai.

Attraverso il cordone ombelicale, mi sto annettendo viaggiatori senza biglietto e i pericoli del comprare ventagli di penne di pavone; filtra in me l’assiduità di Amina e con essa cose più sinistre – passi ticchettanti, il bisogno di mia madre di continuare a chieder soldi finché il tovagliolo sulle ginocchia di mio padre non cominciava a vibrare e a formare una piccola tenda – e le ceneri cremate della Arjuna Indiabikes e un peepshow nel quale Lifafa Das cercava di immettere tutto il mondo, e i furfanti che perpetravano soperchierie; si gonfiano in me mostri a più teste – Ravana mascherati, bambine di otto anni che parlano bleso e hanno un unico sopracciglio ininterrotto, folle che gridano Stupratore. Annunci pubblici nutrono la mia crescita mentre mi avvicino al momento della nascita, cui mancano soltanto sette mesi.

Quante cose persone idee portiamo con noi nel mondo, quante possibilità e anche limitazioni delle possibilità! – Perché tutti questi furono i genitori del bambino nato a mezzanotte, e per ogni bambino di mezzanotte ce ne furono molti altri. Tra i genitori di mezzanotte: il fiasco del progetto della Missione del gabinetto; la ferma decisione di M.A. Jinnah, che stava morendo e prima di morire voleva veder nascere il Pakistan e avrebbe fatto qualsiasi cosa per questo – quello stesso Jinnah che mio padre, lasciandosi come al solito sfuggire una svolta importante, si rifiutò d’incontrare; e Mountbatten con la sua fretta straordinaria e la moglie che mangiava petti di pollo; e ancora e ancora – Il Forte Rosso e il Forte Vecchio, le scimmie e gli avvoltoi che lasciavano cadere mani, e i travestiti bianchi, e gli aggiustaossi, e gli ammaestratori di manguste e Shri Ramram Seth che fece troppa profezia. E hanno un loro posto il sogno di mio padre di riordinare il Corano; e l’incendio di un godown che fece di lui un commerciante di beni immobili e non di pelli; e quel pezzo di Ahmed che Amina non riusciva ad amare. Per capire una sola vita, dovete inghiottire il mondo. Vi avevo avvertiti.

E i pescatori, e Caterina di Braganza, e Mumbadevi noci di cocco riso; la statua di Sivaji e la Proprietà di Methwold; una piscina con la forma dell’India britannica e una collinetta a due piani; una scriminatura centrale e un naso venuto da Bergerac; una torre dell’orologio non funzionante e una piccola pista da circo; la passione di un inglese per un’allegoria indiana e la seduzione della moglie di un fisarmonicista. Pappagallini, ventilatori sul soffitto e il «Times of India» sono altri elementi del bagaglio che ho portato nel mondo... vi stupisce, allora, che io fossi un bambino pesante? Filtrarono in me il Gesù azzurro, e la disperazione di Mary; e l’impetuosità rivoluzionaria di Joseph, e la volubilità di Alice Pereira... anche queste cose mi hanno formato.

Se vi sembro un po’ strano, ricordate la profusione caotica della mia eredità... forse, se si vuol rimanere un individuo nel mezzo delle moltitudini brulicanti, bisogna rendersi stravaganti.

«Finalmente,» dice Padma con soddisfazione «hai imparato a raccontare in fretta.»

13 agosto 1947: malcontento nei cieli: Giove, Saturno e Venere sono d’umore litigioso; per di più le tre stelle arrabbiate stanno arrivando alla più negativa delle case. Gli astrologi di Benares ne pronunciano il nome con spavento: «Karamstan! Stanno entrando in Karamstan!».

Mentre gli astrologi presentano frenetiche rimostranze ai capi del Partito del Congresso, mia madre si mette a letto per il suo pisolino pomeridiano. Mentre il conte Mountbatten deplora l’assenza di occultisti preparati nel suo stato maggiore, le ombre di un ventilatore che ruota lentamente sul soffitto accarezzano Amina conciliandone il sonno. Mentre M.A. Jinnah, ormai sicuro che il suo Pakistan nascerà tra undici ore, un intero giorno prima dell’India indipendente, alla quale di ore ne mancano ancora trentacinque, si fa beffe delle proteste dei suoi fabbricatori d’oroscopi, scuotendo la testa divertito, anche il capo di Amina si muove da una parte all’altra.

Lei però dorme. E in questi giorni della sua gravidanza da macigno, un sogno enigmatico di carta moschicida tormenta il suo sonno... sta ora entrando, come già altre volte, in una sfera di cristallo piena di strisce penzolanti di quella bruna materia appiccicosa, che aderiscono ai suoi indumenti e li strappano, mentre lei avanza incespicando in quell’impenetrabile foresta cartacea; e adesso lotta, cerca di liberarsi dalla carta; che però l’afferra, sino a lasciarla nuda, con il bambino che le scalcia dentro, e lunghi viticci di carta moschicida escono a fiotti per agguantarla al ventre, la carta s’incolla a capelli naso denti seno cosce, e quando apre la bocca per gridare un bruno bavaglio adesivo cade sulle sue labbra socchiuse...

«Amina begum!» sta dicendo Musa. «Si svegli! Un brutto sogno, begum sahiba!»

Incidenti di queste ultime ore – le ultime gocce della mia eredità: quando mancavano trentacinque ore, mia madre sognò di essere rimasta incollata alla carta moschicida come una mosca. E all’ora del cocktail (ancora trenta ore), William Methwold venne a trovare mio padre nel giardino di Villa Buckingham. Scriminatura centrale passeggiava accanto e sopra ad alluce, e il signor Methwold s’abbandonava ai propri ricordi. Racconti sul primo Methwold, che con i suoi sogni aveva fatto nascere la città, riempivano l’aria della sera in quel penultimo tramonto. E mio padre – scimmiottando l’accento di Oxford, ansioso di far colpo sull’inglese in partenza – rispondeva: «In verità, vecchio mio, anche la nostra è una famiglia piuttosto illustre». Methwold ascoltava: testa tirata indietro, rosa rossa nell’occhiello crema, cappello a tesa larga che nascondeva la riga in mezzo, un velo di divertimento negli occhi... Ahmed Sinai, lubrificato dal whisky, spinto dalla presunzione, si eccita sempre di più. «Sangue moghul, per essere preciso.» E Methwold: «Ma no? Veramente? Lei mi sta prendendo in giro». E Ahmed, spintosi oltre il punto da cui si può ancora tornare indietro, è obbligato a insistere. «Illegittimo, naturalmente; ma moghul senza alcun dubbio.»

Fu così che, trenta ore prima della mia nascita, mio padre rivelò che avrebbe voluto anche lui antenati fittizi... e arrivò a inventare un pedigree di famiglia che, in anni successivi, quando il whisky aveva ormai offuscato i bordi della sua memoria e i ginn-bottiglie erano riusciti a confonderlo completamente, avrebbe cancellato ogni traccia di realtà... e, per dar maggiore forza alla propria tesi, introdusse nelle nostre vite l’idea di una maledizione di famiglia.

«Oh sì,» disse mio padre mentre Methwold inclinava la sua testa seria senza sorridere «molte famiglie antiche possedevano maledizioni del genere. Nella nostra, essa viene tramandata da primogenito a primogenito – solo per iscritto, perché il solo pronunciarla ne scatenerebbe tutta la potenza, capisce?» E ora Methwold: «Incredibile! E lei conosce le parole?». Mio padre annuisce, col labbro sporgente e l’alluce immobile, dandosi colpetti sulla fronte per sottolineare ciò che sta per dire. «È tutto qua dentro, tutto memorizzato. Non è più stata usata da quando un antenato litigò con l’imperatore Babar e gettò la maledizione su suo figlio Humayun... una storia terribile – tutti gli scolaretti la conoscono.»

E sarebbe venuto il giorno in cui mio padre, ormai totalmente staccato dalla realtà, si sarebbe rinchiuso in una stanza azzurra, cercando di ricordare una maledizione che aveva immaginato una sera nei giardini di casa sua mentre si dava colpetti sulla tempia accanto al discendente di William Methwold.

Con il peso suppletivo di sogni di carta moschicida e di antenati immaginari, sono ancora a un giorno dalla mia nascita... ma ora lo spietato tic, tac riafferma i propri diritti: mancano ventinove ore, ventotto, ventisette...

Quali altri sogni furono sognati in quell’ultima notte? Fu allora – sì, perché no – che il dottor Narlikar, ignaro del dramma che stava per svolgersi nella sua clinica, sognò per la prima volta i tetrapodi? Fu in quell’ultima notte – mentre a nord e a ovest di Bombay stava nascendo il Pakistan – che mio zio Hanif che si era trasferito (come la sorella) a Bombay e si era innamorato di un’attrice, la divina Pia («Il suo viso è la sua fortuna!» scrisse una volta lo «Illustrated Weekly»), ideò per la prima volta il trucco cinematografico che lo avrebbe presto portato al primo dei suoi tre film di successo?... Sembra probabile: miti, incubi, fantasie erano nell’aria. Ma almeno una cosa è sicura: in quell’ultima notte, mio nonno Aadam Aziz, ormai solo nella grande e vecchia casa di Cornwallis Road – a parte una moglie la cui forza di volontà pareva crescere quanto più Aziz veniva oppresso dalla vecchiaia, e una figlia, Alia, la cui esacerbata verginità sarebbe durata sin quando una bomba non l’avrebbe spaccata in due, diciotto anni dopo – si trovò improvvisamente imprigionato in grandi cerchi metallici di nostalgia e rimase sveglio a sentirseli premere sul petto, finché, alle cinque del mattino del 14 agosto – ancora diciannove ore – venne spinto fuori del letto da una forza invisibile e trascinato verso una vecchia cassa di zinco. Aprendola, vi trovò: vecchie copie di riviste tedesche; il Che fare? di Lenin; un tappeto da preghiera piegato; e infine la cosa che aveva sentito l’irresistibile impulso di rivedere – bianca e ripiegata e debolmente luccicante nel chiarore dell’alba. Mio padre estrasse, dalla cassa di zinco del suo passato, un lenzuolo macchiato e perforato, e scoprì che il buco si era allargato; che intorno ce n’erano altri, più piccoli, e, preso da furiosa rabbia nostalgica, scosse la moglie sino a svegliarla, e la sbalordì urlando, mentre le agitava sotto il naso la sua stessa storia:

«Divorato dalle tarme! Guarda, begum, divorato dalle tarme! Hai dimenticato di metterci le palline di naftalina!»

Ma ora non si può più sfuggire al conteggio alla rovescia – diciotto ore; diciassette; sedici... e già, nella Casa di cura del dottor Narlikar, è possibile udire le grida di una donna in travaglio. C’è qui Wee Willie Winkie; e sua moglie Vanita, le cui doglie prolungate e improduttive durano ormai da otto ore. Le prime fitte l’hanno colpita proprio mentre, a centinaia di chilometri di distanza, M.A. Jinnah stava annunciando la nascita a mezzanotte di una nazione musulmana... ma si sta ancora contorcendo su un letto della “corsia gratuita” della Casa di cura del dottor Narlikar (riservata ai bambini dei poveri)... e gli occhi quasi le escono dalla testa; e il corpo luccica di sudore, ma il bambino non dà segno di voler uscire, e suo padre non è presente; sono le otto del mattino, ma, date le circostanze, è ancora possibile che il piccolo stia aspettando la mezzanotte.

Voci in città: «Stanotte la statua ha galoppato!»... «E le stelle sono sfavorevoli!»... Ma nonostante questi segni di malaugurio, la città era calma, con un nuovo mito che scintillava in un angolo dei suoi occhi. Agosto a Bombay: un mese di feste, il mese della nascita di Krisna e del Coconut Day; e quest’anno – ancora quattordici ore, tredici, dodici – una festa in più sul calendario, un nuovo mito da celebrare, perché una nazione che prima non era mai esistita stava per ottenere la libertà, catapultandoci in un mondo che, pur avendo cinquemila anni di storia, pur avendo inventato il gioco degli scacchi e commerciato con l’Egitto del Medio Regno, era tuttavia del tutto immaginario; in una terra mitica, in un paese che non sarebbe mai esistito senza gli sforzi di una fenomenale volontà collettiva – se non in un sogno che tutti accettavamo di sognare; era una fantasia di massa condivisa in varia misura da bengalesi e da punjabi, da madrasi e da jat, e che avrebbe avuto periodicamente bisogno di quella santificazione e di quel rinnovamento che possono dare soltanto i rituali del sangue. India, il nuovo mito – una finzione collettiva in cui tutto era possibile, una favola emulata soltanto dalle altre due fantasie più potenti: il denaro e Dio.

Io sono stato, nel mio tempo, la prova vivente del carattere favoloso di questo sogno collettivo; ma per il momento mi allontanerò da queste idee generali, macrocosmiche, per concentrarmi su un rituale più privato; non descriverò quindi i massacri in corso sulle frontiere del diviso Punjab (dove le nazioni separate si stanno lavando l’una nel sangue dell’altra, e un certo maggiore Zulfikar, che ha una faccia da Pulcinella, sta comprando le proprietà immobiliari dei profughi a prezzi ridicolmente bassi, gettando così le basi di una fortuna che emulerà quella del nizam di Hyderabad); distoglierò gli occhi dalla violenza nel Bengala e dalla lunga marcia di pacificazione del Mahatma Gandhi. Egoista? Meschino? Può darsi; ma giustificabile, penso. Dopo tutto, non si nasce tutti i giorni.

Ancora dodici ore. Amina Sinai, destatasi dall’incubo della carta moschicida, non s’addormenterà più se non dopo... Ramram Seth occupa tutta la sua testa e lei è alla deriva in un mare turbolento dove le ondate d’eccitazione s’alternano alle depressioni profonde, frastornanti, buie e acquose della paura. Ma c’è anche qualcos’altro in azione. Guardate le sue mani – che, senza un ordine cosciente, premono con forza sul suo ventre; guardate le sue labbra che mormorano, senza che lei lo sappia: «Su, pigrone, non vorrai arrivare troppo tardi per i giornali!».

Ancora otto ore... alle quattro di quel pomeriggio, William Methwold sale la collinetta a due piani sulla sua Rover nera del 1946. Parcheggia nella pista da circo tra le quattro nobili ville, ma oggi non va né allo stagno dei pesci rossi né al giardino dei cactus; non rivolge a Lila Sabarmati il suo solito: «Come va la pianola? Tutto tickety-boo?» – e non saluta il vecchio Ibrahim, che siede all’ombra su una veranda a pianterreno, cullandosi su una poltrona a dondolo e meditando sul sisal; senza guardare né verso i Catrack né verso i Sinai si pone esattamente al centro della pista da circo. Rosa all’occhiello, cappello crema rigidamente accostato al petto, scriminatura centrale che brilla nella luce pomeridiana, William Methwold guarda fisso davanti a sé, oltre la torre dell’orologio e Warden Road, oltre la piscina a forma di mappa del Breach Candy, oltre le onde dorate delle quattro, e saluta, mentre laggiù, all’orizzonte, il sole inizia il suo lungo tuffo verso il mare.

Ancora sei ore. L’ora del cocktail. I successori di William Methwold sono nei loro giardini – tranne Amina che siede nella sua stanza sulla torretta, evitando le occhiate moderatamente competitive della vicina Nussie, la quale intanto sta forse incitando il suo Sonny a scendere e a uscire tra le sue gambe; guardano incuriositi l’inglese, che se ne sta rigido e immobile come il palo cui abbiamo recentemente paragonato la sua scriminatura centrale; finché non li distrae un nuovo arrivato. Un uomo alto e muscoloso, con tre fili di perline intorno al collo e una cintura d’ossi di pollo intorno alla vita; la sua pelle scura è cosparsa di ceneri, i suoi capelli sono lunghi e sciolti – nudo, a parte le perline e le ceneri, il sadhu avanza tra le ville con le tegole rosse. Musa, il vecchio servo piomba su di lui per scacciarlo, ma esita, non sapendo come ordinare qualcosa a un santone. Aprendosi un varco tra i veli dell’indecisione di Musa, il sadhu entra nel giardino di Villa Buckingham; avanza deciso oltre il mio sbalordito padre, si siede a gambe incrociate, sotto il gocciolante rubinetto del giardino.

«Cosa vuole, sadhuji?» – Musa che non riesce a evitare la deferenza; al che il sadhu, calmo come un lago: «Sono venuto ad attendere l’avvento dell’Uno. Il Mubarak – Colui che è benedetto. Arriverà tra pochissimo».

Mi si creda o no: sono stato profetizzato due volte! E quel giorno in cui tutto era così singolarmente sincronizzato, neanche la tempestività di mia madre venne meno, appena le ultime parole del sadhu uscirono dalle sue labbra, da una stanza nella torretta al primo piano, con i tulipani di vetro che danzavano sulle finestre, si levò un grido acutissimo, un cocktail composto in proporzioni uguali di panico, eccitazione e trionfo... «Arré, Ahmed!» urlò Amina Sinai. «Janum, il bambino! Sta arrivando – puntualissimo!»

Fremiti d’elettricità in tutta la Proprietà Methwold... ed ecco che arriva Homi Catrack, trotterellando rapido, emaciato e con gli occhi infossati, a fare la sua offerta: «La mia Studebaker è a sua disposizione, Sinai sahib; la prenda – vada subito!»... e quando mancano ancora cinque ore e trenta minuti, i Sinai, marito e moglie, s’allontanano giù per la collinetta a due piani sulla macchina avuta in prestito; ecco che l’alluce di mio padre preme sull’acceleratore; ecco che le mani di mia madre premono sul suo ventreluna; e ora sono spariti, oltre la curva, oltre la lavanderia Band Box e il Paradiso dei lettori, oltre i gioielli Fathboy e i giocattoli Chimalker, oltre “Una iarda di cioccolatini” e i cancelli del Breach Candy, diretti alla Casa di cura del dottor Narlikar dove, in una corsia gratuita, la Vanita di Wee Willie ancora ansima e spinge, con la spina dorsale inarcata e gli occhi che le escono dalle orbite, e anche un’ostetrica di nome Mary Pereira sta aspettando il suo momento... e così né Ahmed dal labbro prominente e dal ventre flaccido e dagli antenati fittizi, né Amina dalla pelle scura e dalle profezie che l’affliggono erano presenti quando tramontò finalmente il sole sulla Proprietà Methwold, e nel preciso istante della sua sparizione – ancora cinque ore e due minuti – William Methwold alzò sopra la testa un lungo braccio bianco. Una mano bianca penzolò sopra i neri capelli imbrillantinati; lunghe dita bianche affusolate si contrassero verso la scriminatura centrale, e fu così rivelato il suo secondo e ultimo segreto, perché le dita si arricciarono e afferrarono i capelli; per staccarsi poi dal suo capo senza abbandonare la loro preda; e un attimo dopo la sparizione del sole il signor Methwold si ergeva nel riverbero della sua Proprietà con un parrucchino in mano.

«Un calvo!» esclama Padma. «Quei suoi capelli impomatati... Lo sapevo, troppo belli per essere veri!»

Calvo, calvo; zucca pelata! Rivelato l’inganno che aveva imbrogliato la moglie di un fisarmonicista. Come quello di Sansone, il potere di William Methwold era tutto nei suoi capelli; ma ora, con quella chiazza calva che brilla nel crepuscolo, getta la sua chioma dal finestrino della macchina; distribuisce, con apparente noncuranza, i documenti firmati di proprietà dei suoi palazzi; e se ne va. Nessuno alla Proprietà Methwold lo rivide più; ma per me, che non lo vidi mai neanche una volta, è impossibile dimenticarlo.

Improvvisamente tutto è verde e zafferano. Amina Sinai in una camera con pareti zafferano e infissi verdi. In una camera vicina, la Vanita di Wee Willie Winkie, pelle verde, il bianco degli occhi iniettato di zafferano, il bimbo inizia finalmente la sua discesa attraverso corridoi interni che hanno, senza dubbio, gli stessi colori. Minuti zafferano e secondi verdi trascorrono sugli orologi delle pareti. Fuori della Casa di cura del dottor Narlikar, ci sono fuochi d’artificio e folle, e s’adeguano anch’essi ai colori della notte – razzi zafferano, piogge di scintille verdi; gli uomini in camicie zafferano, le donne in sari verdi. Su un tappeto verde e zafferano, il dottor Narlikar sta parlando con Ahmed Sinai. «Mi occuperò personalmente della tua begum» dice nei toni gentili che sono il colore della sera. «Non c’è motivo di preoccuparsi. Tu aspetta qui; hai una quantità di spazio per camminare avanti e indietro.» Il dottor Narlikar, benché non gli piacciano i bambini, è un abile ginecologo. Nel tempo libero parla scrive polemizza redarguisce il paese sul tema della contraccezione. «Il controllo delle nascite,» dice «è la priorità pubblica numero uno. Verrà il giorno in cui riuscirò a ficcarlo nelle teste ottuse della gente, e poi resterò senza lavoro.» Ahmed Sinai sorride, imbarazzato, nervoso. «Ma per stanotte,» dice mio padre «non pensare alle tue conferenze – aiuta a nascere mio figlio.»

Mancano ventinove minuti a mezzanotte. La Casa di cura del dottor Narlikar sta lavorando con un personale ridotto all’osso, ci sono molti assenti, molti impiegati che hanno preferito festeggiare la nascita imminente della nazione e non assisteranno stanotte alle nascite dei bambini. In camicie zafferano e in gonne verdi affollano le strade illuminate, sotto gli infiniti balconi della città sui quali piccole lampade-dia di terracotta sono state riempite di oli misteriosi; stoppini galleggiano nelle lampade che s’allineano su ogni balcone e su ogni tetto, e anche questi stoppini rispettano lo schema cromatico dei due colori: metà delle lampade brucia zafferano, le altre fiammeggiano verdi.

Si fa largo, attraverso il mostro a più teste della folla, un’auto della polizia e il giallo e l’azzurro delle divise degli agenti sono stati trasformati in zafferano e in verde dalla luce magica delle lampade. (Siamo ora in Colaba Causeway, ma ci fermiamo solo un momento, per comunicare che, a mezzanotte meno ventisette minuti, la polizia sta dando la caccia a un pericoloso criminale. Il suo nome: Joseph D’Costa. L’infermiere è assente da parecchi giorni, dal suo lavoro alla clinica, dalla sua camera vicino al mattatoio e dalla vita di una sconvolta verginale Mary.)

Passano venti minuti, con gli aaah di Amina Sinai che si susseguono più ravvicinati e più rapidi di secondo in secondo e con i deboli faticosi aaah di Vanita nella camera accanto. Per le strade il mostro ha già cominciato a festeggiare; il nuovo mito scorre nelle sue vene, sostituendo al sangue corpuscoli verdi e zafferano. E a Delhi un uomo serio e asciutto siede nel Palazzo del Parlamento e si accinge a fare un discorso. Nella Proprietà Methwold i pesci rossi se ne stanno immobili negli stagni e i residenti vanno di casa in casa portando dolci di pistacchio, abbracciandosi e baciandosi a vicenda – pistacchio verde, si mangia, e palline di laddoo color zafferano. Due bambini scendono attraverso passaggi segreti mentre ad Agra un anziano dottore siede accanto alla moglie che ha sul viso due nei simili a capezzoli di strega, e tra le oche addormentate e i ricordi mangiati dalle tarme sono per qualche ragione ammutoliti e non trovano nulla da dirsi. E in tutte le città grandi e piccole in tutti i villaggi le minuscole lampade-dia bruciano su davanzali portici verande, mentre nel Punjab bruciano treni, con le verdi fiamme della vernice rovente e l’abbagliante zafferano del combustibile incendiato, come le più grandi dia del mondo.

Anche la città di Lahore sta bruciando.

L’uomo serio e asciutto si alza in piedi. Unto con la sacra acqua del fiume Tanjore, s’accosta alla tribuna; con la fronte spalmata di ceneri santificate, si schiarisce la gola. Senza aver in mano un discorso scritto, senza aver imparato a memoria parole preparate, Jawaharlal Nehru comincia: «... Molti anni fa noi prendemmo un appuntamento col destino, e ora è venuto il momento di mantenere il nostro impegno – non del tutto, e neanche in buona misura, ma in maniera molto sostanziale».

Mancano due minuti alla mezzanotte. Nella Casa di cura del dottor Narlikar, lo scuro illuminato ginecologo, accompagnato da un’ostetrica di nome Flory, una donnetta gentile senza importanza, sta incoraggiando Amina Sinai: «Spinga! Più forte!... Vedo già la testa!...» mentre nella camera vicina un certo dottor Bose – che ha accanto la signorina Mary Pereira – presiede alle fasi conclusive delle ventiquattr’ore di doglie di Vanita... «Sì, ora; su, ancora un ultimo sforzo, e poi sarà tutto finito!...» Le donne gemono e gridano mentre in un’altra stanza gli uomini tacciono. Wee Willie Winkie – incapace di cantare – se ne sta accovacciato in un angolo e dondola avanti e indietro, avanti e indietro... e Ahmed Sinai sta cercando una sedia. Ma non ci sono sedie in questa stanza; è una stanza fatta per passeggiare su e giù; e allora Ahmed Sinai apre una porta, trova una sedia davanti al tavolo abbandonato di una receptionist, la solleva, la porta nella stanza per passeggiare, dove Wee Willie Winkie dondola, dondola, con gli occhi vuoti come quelli d’un cieco... vivrà? non vivrà?... e ora, finalmente, è mezzanotte.

Per le strade il mostro ha cominciato a ruggire, mentre a Delhi un uomo asciutto sta dicendo: «... Allo scoccare della mezzanotte, mentre il mondo dorme, l’India si sveglia alla vita e alla libertà...». E sotto il ruggito del mostro, ci sono altri due urli, vagiti, strilli, ululati di bambini che vengono al mondo, e le loro inutili proteste si mescolano al frastuono dell’indipendenza che incombe verde e zafferano nel cielo notturno – «Viene un momento, che nella storia arriva solo raramente, in cui si passa dal vecchio al nuovo; in cui un’epoca finisce; e in cui l’anima di una nazione a lungo repressa trova la sua voce...» e in una stanza dal tappeto zafferano e verde Ahmed Sinai sta ancora stringendo forte una sedia quando entra il dottor Narlikar a informarlo: «Allo scoccare della mezzanotte, fratello Sinai, la tua begum sahiba ha dato alla luce un figlio grosso e sano: un maschio!». A questo punto mio padre cominciò a pensare a me (non sapendo...); e con l’immagine del mio viso che riempiva i suoi pensieri, si scordò della sedia; posseduto dall’amore per me (anche se...), che tutto lo riempiva dalla testa alle punte delle dita, lasciò cadere la sedia.

Sì, fu colpa mia (nonostante tutto)... fu la potenza del mio viso, mio e di nessun altro, che portò le mani di Ahmed Sinai ad abbandonare la sedia; che portò la sedia a cadere, con un’accelerazione di nove metri e sessanta centimetri al secondo, e, mentre Jawaharlal Nehru nel Palazzo del Parlamento stava dicendo: «Noi oggi poniamo fine a un periodo di sventure» mentre gusci di conchiglie strombazzavano l’annuncio della libertà, fu per causa mia che anche mio padre lanciò un grido, perché la sedia cadendo gli fracassò l’alluce.

E adesso arriviamo al punto; il rumore fece accorrere tutti quanti; mio padre e la sua ferita distolsero per un attimo l’attenzione generale dalle due madri doloranti, dalle due sincrone nascite di mezzanotte – perché anche Vanita aveva finalmente partorito un bimbo di notevoli dimensioni. «Roba da non crederci» disse il dottor Bose. «Continuava a venir fuori, una parte sempre maggiore del piccolo si apriva un varco per uscire, un’autentica meraviglia da dieci cocuzze!» E Narlikar, lavandosi: «Anche il mio». Ma questo avvenne un po’ più tardi – adesso Narlikar e Bose si stavano occupando dell’alluce di Ahmed Sinai; e alle ostetriche era stato impartito l’ordine di lavare e fasciare i due neonati; e a questo punto la signorina Mary Pereira diede il suo contributo.

«Va’ pure, va’ pure,» disse alla povera Flory «vedi se puoi dare una mano. Io qui posso cavarmela da sola.»

E quando rimase sola – con due bambini in mano – due vite in suo potere – lo fece per Joseph, il suo atto rivoluzionario personale, e, pensando: Lui sicuramente m’amerà per questo, scambiò i cartellini con i nomi dei due grossi neonati, donando al bambino povero una vita di privilegi e condannando il bambino ricco alle fisarmoniche e alla miseria... «Amami, Joseph!» si disse Mary, e così la cosa fu fatta. Alla caviglia di una meraviglia da dieci cocuzze con gli occhi azzurri come il cielo del kashmir – ma anche azzurri come quelli di Methwold – e un naso sensazionale come quello di un nonno kashmiri – ma era anche il naso di una nonna francese – legò questo nome: Sinai.

Lo zafferano mi fasciò mentre, grazie al delitto di Mary Pereira, io diventavo il figlio eletto della mezzanotte, i cui genitori non erano i suoi genitori, il cui figlio non sarebbe stato suo figlio... Mary prese il figlio del ventre di mia madre, che non sarebbe stato suo figlio, un’altra lampuga da dieci cocuzze, ma con occhi che già stavano diventando castani e ginocchia bitorzolute come quelle di Ahmed Sinai, lo avvolse nel verde e lo portò a Wee Willie Winkie – che stava guardando con occhi spenti, che vide appena il suo nuovo figlio, che non seppe mai delle scriminature centrali... Wee Willie Winkie, il quale aveva appena appreso che Vanita non era sopravvissuta al parto. Tre minuti dopo la mezzanotte, mentre i medici s’affannavano su un alluce rotto, Vanita aveva avuto un’emorragia ed era morta.

Venni allora portato a mia madre; che non dubitò mai della mia autenticità, nemmeno per un attimo. Ahmed Sinai, con l’alluce steccato, si sedette sul letto mentre lei diceva: «Guarda, janum, il poverino, ha il naso di suo nonno». Lui la guardò senza capire, mentre Amina s’accertava che la testa fosse soltanto una, e si rilassò completamente solo quando comprese che anche le capacità profetiche degli indovini hanno, dopo tutto, dei limiti.

«Janum,» disse mia madre eccitata «devi telefonare ai giornali. Telefona al “Times of India”. Cosa ti avevo detto? Ho vinto.»

«... Non è tempo di critiche meschine o distruttive» disse Jawaharlal Nehru al Parlamento. «Non è tempo di malevolenza. Dobbiamo costruire il nobile palazzo della libera India, dove potranno alloggiare tutti i suoi figli.» Si spiega una bandiera: è zafferano, bianca e verde.

«Un anglo?» esclama Padma inorridita. «Cosa mi stai raccontando? Sei un anglo-indiano? Il tuo nome non è il tuo?»

«Io sono Saleem Sinai» le dissi. «Nasochecola, Facciamacchiata, Tirasucolnaso, Testapelata, Quartodiluna. In che senso dici che non è il mio?»

«Non hai fatto altro che imbrogliarmi» geme rabbiosamente Padma. «Tua madre, la chiamavi; tuo padre, tuo nonno, le tue zie. Ma che razza d’uomo sei se non dici la verità neanche su chi erano i tuoi genitori? Non t’importa che tua madre sia morta mettendoti al mondo? Che tuo padre sia forse ancora vivo da qualche parte, povero e senza un soldo? Cosa sei? Un mostro?»

No, non sono un mostro. E non sono colpevole di imbrogli. Indicazioni ne ho date... ma c’è qualcosa di ancor più importante. Ed è questo: quando finalmente scoprimmo il delitto di Mary Pereira, ci accorgemmo tutti che non faceva differenza! Io ero ancora il loro figlio; e loro rimanevano i miei genitori. In una sorta di impotenza collettiva della nostra immaginazione, scoprimmo che ci era assolutamente impossibile pensare a una via d’uscita dai nostri passati... se tu avessi chiesto a mio padre (persino a lui, nonostante tutto quello che è successo!) chi era suo figlio, niente al mondo lo avrebbe indotto a puntare il dito verso lo sporco figlio del fisarmonicista e le sue ginocchia rientranti. Anche se questo Shiva era destinato a diventare una specie d’eroe.

Insomma: c’erano ginocchia e un naso, un naso e ginocchia. In effetti in tutta la nuova India, il sogno che avevamo tutti in comune, nascevano bambini che erano solo in parte figli dei loro genitori – i bambini della mezzanotte erano anche figli del tempo; generati, capisci, dalla storia. Può succedere. Specialmente in un paese che è in sé una sorta di sogno.

«Basta» s’immusonisce Padma. «Non voglio più ascoltarti.» S’aspettava un tipo di bambino con due teste ed è seccata perché gliene è stato offerto un altro. Comunque, che lei mi ascolti o no, ho ancora qualcosa da annotare.

Tre giorni dopo la mia nascita, Mary Pereira si struggeva dal rimorso. Joseph D’Costa, in fuga con le macchine della polizia che lo stavano cercando, aveva chiaramente abbandonato sia lei sia sua sorella Alice; e la paffuta donnetta – incapace, nel suo spavento, di confessare il delitto commesso – si rese conto di essere stata una stupida. «Sei proprio un’asina» imprecò contro se stessa; ma mantenne il segreto. Decise però di fare ammenda in qualche modo. Rinunciò al suo posto nella Casa di cura e avvicinò Amina Sinai dicendole: «Signora, ho visto il suo bambino soltanto una volta e me ne sono innamorata. Non ha bisogno di una ayah?». E Amina, con gli occhi splendenti per la maternità: «Sì». Mary Pereira («Potresti anche chiamare lei tua madre» interviene Padma, dimostrando così di essere ancora interessata. «È stata lei a far di te quello che sei, no?») dedicò da quel momento la sua vita all’allevarmi, legando così il resto dei suoi giorni al ricordo del suo delitto.

Il 20 agosto, Nussie Ibrahim seguì mia madre nella clinica di Yedder Road, e il piccolo Sonny seguì me nel mondo – ma era restio a venir fuori; ci volle il forcipe per prenderlo ed estrarlo; e nella foga del momento il dottor Bose strinse un po’ troppo forte e Sonny arrivò con delle piccole tacche vicino alle tempie, delle cavità poco profonde che lo avrebbero reso irresistibilmente attraente come il parrucchino di William Methwold aveva reso attraente l’inglese. Le ragazze (Evie, la Scimmia d’ottone, altre) allungavano la mano per accarezzare queste sue vallette... e ciò avrebbe creato problemi tra noi.

Ho tenuto per ultima la notiziola più interessante. Mi si permetta ora di rivelare che, il giorno dopo la mia nascita, mia madre e io, in una camera zafferano e verde, ricevemmo la visita di due rappresentanti del «Times of India» (edizione di Bombay). Io, che giacevo in una culla verde, avvolto in fasce color zafferano, alzai gli occhi verso di loro. C’era un cronista, che passò il tempo intervistando mia madre, e un fotografo, alto e aquilino, che dedicò la sua attenzione a me. L’indomani parole e foto comparvero sul giornale...

Qualche tempo fa ho visitato un giardino di cactus dove, tanti anni prima, avevo seppellito un minuscolo mappamondo molto ammaccato e tenuto insieme con dello scotch; e ho estratto dal suo interno le cose che vi avevo messo allora. Avendole ora in mano mentre scrivo, riesco ancora a vedere – nonostante l’ingiallimento e la muffa – che una è una lettera personale indirizzata a me e firmata dal Primo ministro dell’India; e l’altro è un ritaglio di giornale.

C’è un titolo: IL BAMBINO DI MEZZANOTTE.

E un testo: «Una deliziosa posa del piccolo Saleem Sinai, nato stanotte nel momento esatto dell’indipendenza della nostra nazione – il figlio felice di quell’ora gloriosa!».

E una grande fotografia: un’istantanea infantile in prima pagina di dimensioni gigantesche e di alta qualità, nella quale è ancora possibile distinguere un bambino con delle voglie che gli macchiano le guance e con un naso lucido e gocciolante. (La didascalia dell’immagine dice: Foto di Kalidas Gupta.)

Nonostante il titolo, il testo e la fotografia, devo accusare i nostri visitatori del delitto di banalizzazione; meri giornalisti, incapaci di vedere oltre il giornale dell’indomani, non avevano idea dell’importanza dell’evento di cui si stavano occupando. Per loro era soltanto un piccolo dramma d’interesse umano.

Come faccio a saperlo? Per il fatto che, al termine dell’intervista, il fotografo offrì a mia madre un assegno – di cento rupie.

Cento rupie! Possibile immaginare una somma più insignificante, più ridicola? È una somma da cui uno, se fosse un po’ suscettibile, potrebbe anche sentirsi insultato. Tuttavia mi limiterò a ringraziarli per aver celebrato il mio arrivo, e perdonerò loro la mancanza di un reale senso storico.

«Non fare il pavone» dice Padma irritata. «Cento rupie non sono tanto poche; e in fin dei conti capita a tutti di nascere, non è poi ’sta gran cosa.»