È possibile essere gelosi di parole scritte? Detestare annotazioni notturne come se fossero carne e sangue di una rivale in amore? Non so trovare altra ragione per il curioso comportamento di Padma; e questa spiegazione ha se non altro il merito di essere bizzarra quanto la collera che la prese quando, stanotte, commisi l’errore di scrivere (e di leggere ad alta voce) una parola che non avrei mai dovuto pronunciare... Sin dall’episodio della visita del medicone, ho sentito in Padma una strana scontentezza che esalava enigmatici odori dalle sue ghiandole eccrine (o apocrine). Angustiata, forse, dalla futilità dei suoi tentativi di mezzanotte di risuscitare “l’altra mia matita”, l’inutile cetriolo nascosto nei miei calzoni, è diventata una musona. (E c’è stata anche, ieri sera, l’incontrollata reazione alla rivelazione del segreto della mia nascita e l’irritazione per la mia bassa opinione della somma di cento rupie.) È colpa mia: immerso nella mia impresa autobiografica, non ho saputo tener conto dei suoi sentimenti, e ho cominciato stasera toccando la più sciagurata delle note false.
«Condannato da un lenzuolo perforato a una vita di frammenti,» scrissi e lessi ad alta voce «me la sono tuttavia cavata meglio di mio nonno; perché Aadam Aziz rimase vittima del lenzuolo, io ne sono diventato il padrone – ed è Padma che ora è soggetta al suo incantesimo. A lei, seduta nella mia magica ombra, mi degno di offrire quotidianamente immagini fugaci di me stesso – mentre la mia accovacciata osservatrice resta lì affascinata, indifesa come una mangusta costretta all’immobilità dagli occhi fissi, imperiosi di un serpente, paralizzata – ma sì! – dall’amore.»
Era questa la parola: amore. Scritta e pronunciata, fece salire la sua voce a un livello insolitamente acuto, fece sgorgare dalle sue labbra una violenza che mi avrebbe certamente ferito se fossi ancora vulnerabile alle parole. «Amare te?» strillò sdegnata la nostra Padma. «E per quale motivo, Dio mio? A che cosa servi principino,» – e ora il tentativo di infliggermi il colpo di grazia – «come amante?» Braccio teso, capelli scintillanti alla luce della lampada, puntò un indice sprezzante verso i miei lombi effettivamente non funzionanti, un dito lungo e spesso, irrigidito dalla gelosia, che purtroppo servì solo a ricordarmi un altro dito da tempo perduto... dopo di che, vedendo che la sua freccia non aveva colpito il bersaglio, strillò: «Tu sei un pazzo furioso! Aveva ragione il dottore!» e si precipitò sconvolta fuori della stanza. Udii passi che ticchettavano giù per la scala metallica verso il pianterreno della fabbrica; piedi che correvano tra i mastelli di pickle avvolti nei loro scuri sudari; e una porta, prima aperta, poi sbattuta.
Così abbandonato, sono tornato, non avendo scelta, al mio lavoro.
Il dito puntato del pescatore: indimenticabile punto focale del quadro appeso a una parete azzurro-cielo di Villa Buckingham, esattamente sopra la culla azzurro-cielo dove io, come piccolo Saleem, bambino della mezzanotte, trascorsi i miei primissimi giorni. Il giovane Raleigh – e chi altro? – sedeva in una cornice di tek, ai piedi di un vecchio e ruvido pescatore che stava rattoppando reti – aveva anche baffi da tricheco? – il cui braccio destro, teso in tutta la sua lunghezza, indicava un acquatico orizzonte, mentre i suoi liquidi racconti gorgogliavano intorno alle orecchie affascinate di Raleigh – e di chi altro? Perché nel quadro c’era chiaramente anche un altro ragazzo, che sedeva a gambe incrociate col suo colletto a gale e una casacca abbottonata... e ora riaffiora in me un ricordo, una festa di compleanno in cui una madre orgogliosa e un’ayah altrettanto fiera fecero indossare a un bimbo dal naso gargantuesco un colletto proprio come quello e una casacca proprio come quella. Un sarto, seduto in una stanza azzurro-cielo, sotto il dito puntato, copiava l’abbigliamento dei milord inglesi... «Ma come è carino!» esclamò Lila Sabarmati, con mia eterna mortificazione. «Sembra appena uscito dal quadro!»
In un quadro appeso alla parete di una camera da letto, io sedevo accanto a Walter Raleigh e seguivo con gli occhi il dito puntato di un pescatore; e gli occhi si sforzavano di raggiungere l’orizzonte, oltre il quale c’era – che cosa? – il mio futuro, forse; il mio speciale destino, di cui fui consapevole sin dall’inizio, come di una grigia baluginante presenza, in quella camera azzurro-cielo, all’inizio confusa ma impossibile da ignorare... perché il dito puntava ancora oltre quel baluginante orizzonte, oltre la cornice di tek, trascinando i miei occhi, di là da una breve distesa di parete azzurro-cielo, verso un’altra cornice, nella quale era appeso il mio inevitabile destino, fissato per sempre sotto vetro; c’erano infatti un’istantanea infantile di dimensioni gigantesche con la sua profetica didascalia, e, accanto, una lettera su pergamena d’alta qualità, con il sigillo dello Stato impresso in rilievo – i leoni di Sarnath sopra il dharma-chakra – sul messaggio del Primo ministro, che arrivò, tramite il postino Vishwanath, una settimana dopo la pubblicazione della mia fotografia nella prima pagina del «Times of India».
Giornali mi celebrarono; politici ratificarono la mia posizione. Jawaharlal Nehru scrisse: “Caro piccolo Saleem, le mie tardive congratulazioni per il caso felice del momento della tua nascita! Sei il più nuovo portatore di quell’antica faccia dell’India che è anche eternamente giovane. Noi tutti seguiremo la tua vita con la massima attenzione; sarà in un certo senso uno specchio della nostra”.
E Mary Pereira, impressionata: «Il governo, signora? Terrà d’occhio il ragazzo? Ma perché, signora? Cos’ha fatto di male?». E Amina? senza accorgersi della nota di panico nella voce dell’ayah: «È solo un modo di dire, Mary; non parla sul serio». Ma Mary non si calma; e sempre, ogni volta che entra nella camera del bimbo, i suoi occhi guizzano spaventati verso la lettera incorniciata; si guardano attorno cercando di scoprire se il governo sta sorvegliando; sono occhi che si domandano: che cosa possono sapere? Che qualcuno abbia visto?... In quanto a me, cresciuto, non ero del tutto convinto della spiegazione di mia madre; che comunque cullò in me un senso di falsa sicurezza; al punto che, benché i sospetti di Mary fossero in parte filtrati dentro di me, rimasi egualmente sbalordito quando...
Ma forse il dito del pescatore non indicava la lettera incorniciata; perché se continuavi a seguirlo, ti conduceva oltre la finestra, giù per la collinetta a due piani, di là da Warden Road, dopo Breach Candy Pools, a un altro mare, che non era quello del quadro; un mare sul quale le vele dei sambuchi koli splendevano scarlatte nel sole al tramonto... un dito accusatore, dunque, che ti obbligava a guardare i diseredati della città.
O forse – e l’idea, nonostante il caldo, mi fa un po’ rabbrividire – era un dito ammonitore, e il suo scopo era attirare l’attenzione su se stesso; ma sì, poteva essere, perché no, la profezia di un altro dito, un dito non dissimile da sé, il cui intervento nella mia storia avrebbe scatenato la terribile logica di Alfa e Omega... Dio mio, che idea! Quanta parte del mio futuro era appesa sopra la mia culla, solo aspettando che io la capissi? Quanti avvertimenti mi furono dati – quanti ne ignorai?... Ma no, non diventerò un “pazzo furioso”, per usare l’eloquente espressione di Padma. Non soccomberò alle digressioni folli; almeno finché avrò la forza di resistere alla follia.
Quando Amina Sinai e il piccolo Saleem tornarono a casa sulla Studebaker ottenuta in prestito, Ahmed Sinai aveva con sé una busta di manila. All’interno: un vasetto di pickle, svuotato del suo kasaundy alla limetta, lavato, bollito, sterilizzato – e poi riempito di nuovo. Un vasetto perfettamente chiuso, con un diaframma di gomma steso sul coperchio di latta e tenuto fermo da un elastico attorcigliato. Ma che cosa era racchiuso sotto la gomma, conservato nel vetro, nascosto nella manila? Questo: nel viaggio di ritorno a casa con padre, madre e neonato c’era una certa quantità d’acqua salmastra nella quale, dondolando dolcemente, penzolava un cordone ombelicale. (Il mio o quello dell’Altro? È una domanda a cui non so rispondere.) Mentre la nuova ayah, Mary Pereira, raggiungeva la Proprietà Methwold in autobus, un cordone ombelicale viaggiava invece in grande stile nel cassetto portaoggetti della Studey di un magnate cinematografico. Mentre il piccolo Saleem continuava a crescere, il tessuto ombelicale rimaneva immutato nell’acqua salmastra imbottigliata, in fondo a un almirah di tek. E quando, anni dopo, la nostra famiglia andò in esilio nella Terra dei Puri, quando io mi sforzai di pervenire alla purezza, i cordoni ombelicali avrebbero avuto per un attimo la loro giornata.
Niente venne buttato via; si conservarono sia il bambino sia la placenta; arrivarono entrambi alla Proprietà Methwold; aspettavano entrambi il loro momento.
Non ero un bel bambino. Le istantanee infantili rivelano che la mia faccia di luna piena era troppo grande; troppo rotonda. Mancava qualcosa dalle parti del mento. Una pelle chiara s’arrotondava sui miei lineamenti – ma la deturpavano le voglie; macchie nere si propagavano dall’attaccatura occidentale dei capelli, una chiazza scura colorava il mio orecchio orientale. E le tempie: troppo prominenti: bulbose cupole bizantine. (Sonny Ibrahim e io eravamo nati per essere amici – quando cozzavano le nostre fronti, le tacche di Sonny, prodotte dal forcipe, permettevano alle mie tempie bulbose di rannicchiarvisi confortevolmente, come i giunti d’un falegname.) Amina Sinai, incommensurabilmente sollevata dalla mia unica testa, le guardava con raddoppiato affetto materno, vedendole attraverso una nebbiolina che le abbelliva, ignorando la gelida eccentricità dei miei occhi azzurro-cielo, le tempie simili a corna rachitiche e persino quel rigoglioso cetriolo del mio naso.
Il naso del piccolo Saleem era mostruoso; e gocciolava.
Aspetti interessanti degli inizi della mia vita: grosso e tutt’altro che bello, non ero soddisfatto. Sin dai primissimi giorni intrapresi un eroico programma di ingrossamento. (Quasi sapessi che, per reggere il peso della mia vita futura, avevo bisogno di diventare piuttosto voluminoso.) A metà settembre avevo già prosciugato di latte il seno, non certo trascurabile, di mia madre. Venne assunta una balia, che batté in ritirata, ormai arida come un deserto, dopo quindici giorni, accusando il piccolo Saleem di voler strapparle a morsi i capezzoli con le sue sdentate gengive. Passai al biberon e scolai quantità enormi di miscela; e anche le tettarelle soffrirono, avvalorando così le lamentele della balia. Venne tenuta una meticolosa documentazione dei progressi del bimbo; ne risulta che io m’allargavo quasi a vista d’occhio, giorno dopo giorno; ma purtroppo non furono prese le misure del naso e quindi non so se il mio apparato respiratorio crebbe proporzionalmente al resto, o più in fretta. Devo comunque dire che avevo un sano metabolismo. I rifiuti venivano abbondantemente evacuati dagli appositi orifizi; e dal mio naso fluiva una luccicante cascata di moccio. Armate di fazzoletti, reggimenti di pannolini andavano a finire nel cassone del bucato nel bagno di mia madre... cosparsi degli scarti provenienti dalle più diverse aperture. Gli occhi invece li tenevo piuttosto asciutti. «È tanto un bravo bambino, signora» diceva Mary Pereira. «Mai una lacrima.»
Il bravo piccolo Saleem era un bambino silenzioso; ridevo spesso, ma senza rumore. (Come mio figlio, valutavo anzitutto la situazione, ascoltando bene prima di passare ai farfugliamenti e, in un secondo tempo, alle parole.) Per un certo periodo Amina e Mary temettero che il ragazzo fosse muto; ma proprio quando stavano per informarne il padre (al quale non avevano ancora comunicato le proprie ansie – non c’è padre che voglia un figlio minorato), lui cominciò a emettere suoni e divenne, almeno sotto quell’aspetto, assolutamente normale. «Sembra quasi,» sussurrò Amina a Mary «che abbia voluto rassicurarci.»
C’era anche un altro problema, più grave. Amina e Mary ci misero qualche giorno per accorgersene. Affaccendate nei poderosi e complicati processi per trasformarsi in una madre a due teste, con la visione ottenebrata da una nebbia di pannolini puzzolenti non si resero conto dell’immobilità delle mie palpebre. Amina, ricordando che, durante la sua gravidanza, il peso del nascituro aveva immobilizzato il tempo come un verde stagno morto, cominciò a temere che ora stesse accadendo il contrario – come se il piccolo avesse qualche potere magico su tutto il tempo nelle sue vicinanze immediate, e lo stesse ora accelerando al punto che la madre-e-ayah non avevano mai tempo a sufficienza per fare tutto ciò che doveva esser fatto e che il piccolo cresceva a un ritmo apparentemente fantastico; smarrita in queste fantasie cronologiche, non si accorse del mio problema. Solo quando riuscì ad accantonare l’idea e si convinse che ero semplicemente un bambinone robusto con un grande appetito e uno sviluppo precoce, i veli dell’amor materno si scostarono quanto bastava per permettere a lei e a Mary di gridare all’unisono: «Guarda, haap-re-baap! Guardi, signora! Guarda Mary! Il bambino non batte mai le palpebre!».
Gli occhi erano troppo azzurri: azzurri-Kashmir, azzurri-scambiato-nella-culla, azzurri con il peso di lacrime non versate, troppo azzurri per battere. Quando mi nutrivano, i miei occhi restavano immobili; quando la verginale Mary mi prendeva in spalla strillando: «Oh, come sei pesante, Gesù caro!» ruttavo senza sbattere le palpebre. Quando Ahmed Sinai s’avvicinava, zoppicando col suo alluce steccato, alla mia culla, rispondevo alle labbra sporgenti con uno sguardo attento e senza batter ciglio... «Forse ci sbagliamo, signora» suggeriva Mary. «Forse il piccolo sahib ci copia – batte le palpebre quando le battiamo noi.» E Amina: «Le batteremo a turno e lo terremo d’occhio». E con le palpebre che s’aprivano e si chiudevano in alternanza, osservarono il mio gelido azzurro; ma non vi scorsero il minimo tremito; fin quando Amina non prese le redini della situazione e non allungò una mano nella culla per accarezzarmi le palpebre dall’alto in basso. Allora si chiusero: e il mio respiro immediatamente si modificò, adeguandosi ai ritmi soddisfatti del sonno. E per parecchi mesi, madre e ayah stabilirono turni per aprirmi e chiudermi le palpebre. «Imparerà, signora» diceva Mary per confortare Amina. «È un bravo bambino obbediente e scoprirà di certo come si fa.» Imparai: la prima lezione della mia vita: nessuno può affrontare il mondo tenendo continuamente gli occhi aperti.
Ora, guardandomi indietro con i miei occhi da bambino, riesco a vedere tutto alla perfezione – è incredibile quante cose si ricordino quando ci si prova. Ed ecco che cosa vedo: la città che si crogiola come una sanguisuga nel calore estivo. La nostra Bombay: assomiglia a una mano, ma è in realtà una bocca, sempre aperta, sempre affamata, che inghiotte cibo e talenti da ogni altro luogo dell’India. Un’affascinante mignatta, che non produce nulla se non film, sahariane, pesci... immediatamente dopo la Spartizione, vedo il postino Vishwanath procedere in bicicletta verso la nostra collinetta a due piani, con una busta di pergamena nella sacca, e la sua vecchia Arjuna Indiabike sta passando davanti a un autobus lasciato a marcire – e non perché sia la stagione dei monsoni, ma perché l’autista, avendo improvvisamente deciso di trasferirsi nel Pakistan, ha spento il motore e se n’è andato, piantando in asso un carico di passeggeri nei guai, affacciati ai finestrini, appesi alle maniglie, ammassati nei pressi della porta... Sento le loro imprecazioni, figlio d’un porco, fratello d’un ciuco; ma resteranno aggrappati ai loro posti, conquistati con tanta fatica, per altre due ore, prima di abbandonare l’autobus al suo destino. E poi, e poi: ecco il primo indiano che abbia mai attraversato a nuoto la Manica, il signor Pushpa Roy, arrivare all’ingresso delle Breach Candy Pools. Cuffia da bagno color zafferano in testa, calzoncini verdi avvolti in un asciugamano che ha il colore della bandiera, questo Pushpa muove guerra alla politica di segregazione razziale dei bagni. Ha in mano una saponetta Mysore all’olio di sandalo; s’avvicina; supera il cancello... ma a questo punto dei patani lo afferrano, sono come sempre gli indiani a salvare gli europei da un ammutinamento d’indiani, e lui esce, dibattendosi valorosamente, trascinato per gambe e braccia in Warden Road e scaraventato nella polvere. L’uomo che ha attraversato la Manica si tuffa nella strada, evitando a stento cammelli taxi biciclette (Vishwanath devia per non investire la sua saponetta)... ma non demorde; si risolleva; si spolvera; promette di tornare domani. Per tutta la mia fanciullezza, le giornate furono punteggiate dallo spettacolo di Pushpa il nuotatore, con la sua cuffia zafferano e il suo asciugamano dal colore della bandiera, che si tuffava suo malgrado in Warden Road. E alla fine la sua indomabile lotta risultò vittoriosa, perché oggi i Bagni permettono a certi indiani – “di una certa classe” – di immergersi nelle acque a forma di mappa. Pushpa però non appartiene a questa classe; e ora, vecchio e dimenticato, contempla i bagni da lontano... ed ecco che irrompe in me una moltitudine di altri personaggi – come Bano Devi, la più famosa lottatrice di quei tempi, che si batteva solo con uomini e minacciava di sposare chiunque l’avesse sconfitta, e grazie a questa promessa non perse mai un incontro; e (più vicino a casa) il sadhu sotto il rubinetto del nostro giardino, che si chiamava Purushottam ma che noi (Sonny, Fettadocchio, Brillantina, Cyrus e io) chiamavamo Puru-il-Guru – convinto che io fossi il Mubarak, il Benedetto, dedicava la vita a tenermi d’occhio, trascorrendo le giornate a insegnare a mio padre la chiromanzia e a far sparire con i suoi incantesimi le verruche di mia madre; e poi c’è la rivalità tra il vecchio servo Musa e la nuova ayah Mary, che crescerà sino all’esplosione; insomma, alla fine del 1947 la vita a Bombay era brulicante, molteplice e multiforme come sempre... con la differenza che ero arrivato io; cominciavo già a occupare il mio posto al centro dell’universo; e alla fine diedi un significato a tutto quanto. Non mi credete? Ascoltate: accanto alla mia culla, Mary Pereira sta cantando una canzoncina:
Quel che vuoi essere, tu puoi esserlo:
Puoi proprio essere tutto ciò che vuoi.
Già all’epoca della mia circoncisione, eseguita da un barbiere col palato leporino della Royal Barber House di Gowalia Tank Road (avevo appena compiuto i due mesi), ero richiestissimo nella Proprietà Methwold. (Per inciso, a proposito della circoncisione: giuro di ricordare benissimo ancora oggi quel sogghignante barbiere, che mi teneva il prepuzio mentre il mio membro si dimenava frenetico come un viscido serpentello; e il rasoio che cala e il dolore; ma mi dicono che allora non battei ciglio.)
Sì, ero un bimbetto popolare; le mie due madri, Amina e Mary, non ne avevano mai abbastanza di me. In tutte le faccende pratiche erano le più intime delle alleate. Dopo la mia circoncisione, mi facevano il bagno insieme; e insieme ridacchiavano alla vista del mio organo mutilato che si dimenava rabbiosamente nell’acqua. «Ci converrà tenerlo d’occhio questo ragazzo, signora» disse maliziosamente Mary. «Il suo coso ha una tale vitalità!» E Amina: «Ssst, sst, Mary, sei terribile...». E poi, tra i singulti di un’irrefrenabile risata: «Ma guardi, signora, il suo povero piccolo coso!». Perché si stava di nuovo dimenando, si dibatteva come un pollo con la gola tagliata... E insieme si prendevano meravigliosamente cura di me; solo nei sentimenti, erano rivali acerrime. Una volta che mi portarono a spasso in carrozzina nei Giardini pensili di Malabar Hill, Amina udì Mary dire alle altre ayah: «Guardatelo il mio figliolone!» – e si sentì stranamente minacciata. Il piccolo Saleem divenne da allora il campo di battaglia dei loro amori; si sforzavano di superarsi a vicenda nel dimostrargli affetto; mentre lui, che ora batteva le palpebre, farfugliava a gran voce, si nutriva dei loro sentimenti, se ne serviva per accelerare la propria crescita, s’allargava e inghiottiva innumerevoli abbracci baci buffetti-sotto-il-mento, procedeva a passo di carica verso il momento in cui avrebbe acquisito le caratteristiche essenziali degli esseri umani: ogni giorno, ma solo nei rari momenti in cui venivo lasciato solo col dito puntato del pescatore, cercavo di sollevarmi eretto sulla mia culla.
(E mentre io compivo questi sforzi inutili per alzarmi in piedi, anche Amina era alle prese con una futile risoluzione – stava infatti cercando di scacciare dalla propria mente il sogno del suo innominabile marito, che aveva rimpiazzato quello della carta moschicida la notte dopo la mia nascita; un sogno così travolgentemente reale da rimanere in lei anche nelle ore di veglia. In questo sogno, Nadir Khan veniva nel suo letto e la ingravidava; e tale era la maliziosa perversità del sogno da confondere Amina sulla paternità del proprio figlio, e da fornire a me, il bambino della mezzanotte, un quarto padre da mettere accanto a Winkie e a Methwold e a Ahmed Sinai. Agitata ma impotente, tra le grinfie del suo sogno, mia madre Amina cominciò allora a formare quella nebbia di colpevolezza che negli anni successivi avrebbe cinto la sua testa come una nera buia ghirlanda.)
Non ho mai udito Wee Willie Winkie nei suoi anni migliori. Dopo il lutto che lo aveva accecato, recuperò a poco a poco la vista, ma nella sua voce s’insinuò qualcosa di duro e di amaro. Ci spiegò che era l’asma, e continuò a venire una volta la settimana alla Proprietà per cantare canzoni che erano, come lui, relitti dell’era di Methwold. Buona notte, signore cantava; e, per aggiornarsi, aggiunse al suo repertorio Presto le nubi si dilegueranno e, un po’ di tempo dopo, Quanto costa quel cane in vetrina? Posando un infante di notevoli dimensioni e con ginocchia minacciosamente rientranti su una piccola stuoia che si teneva accanto nella pista del circo, cantava canzoni piene di nostalgia e nessuno aveva il coraggio di scacciarlo. Winkie e il dito del pescatore erano tra i pochissimi superstiti dell’epoca di William Methwold, perché, partito l’inglese, i suoi successori svuotarono i suoi palazzi di tutto ciò che lui vi aveva lasciato. Lila Sabarmati conservò la pianola; Ahmed Sinai tenne il mobiletto del whisky; il vecchio Ibrahim venne a patti coi ventilatori sui soffitti, ma i pesci rossi morirono, alcuni di fame, altri per essere stati così smodatamente ipernutriti da esplodere in nuvolette di squame e di cibo non digerito; i cani inselvatichirono e smisero col tempo di vagare per la Proprietà; e gli abiti sbiaditi nei vecchi almirah furono distribuiti tra le pulitrici di latrine e gli altri domestici, col risultato che per anni gli eredi di William Methwold furono serviti da uomini e donne che indossavano le camicie sempre più sbrindellate e gli abiti di cotone stampato dei padroni d’un tempo. Ma Winkie e il quadro sulla mia parete sopravvissero; cantore e pescatore divennero istituzioni della nostra vita, come l’ora del cocktail, abitudine troppo radicata perché fosse possibile romperla. «Ogni piccola lacrima è dolore,» cantava Winkie «non fa che avvicinarti a me...» E la sua voce continuava a peggiorare, sino ad assomigliare a un sitar la cui cassa di risonanza, fatta di zucca laccata, fosse stata divorata dai topi. «È l’asma» insisteva caparbiamente. Prima di morire la perse completamente; i medici corressero la sua diagnosi e parlarono di cancro alla gola; ma sbagliavano anche loro perché Winkie non morì di malattia, ma per l’amarezza d’aver perso una moglie sulla cui infedeltà non aveva mai avuto sospetti. Suo figlio, chiamato Shiva come il dio della procreazione e della distruzione, sedeva in quei primi giorni ai suoi piedi, reggendo silenziosamente il peso di essere stato la causa (o almeno così credeva) del lento declino paterno; e a poco a poco, col passare degli anni, vedemmo i suoi occhi riempirsi di una rabbia che non riusciva a esprimersi; vedemmo i suoi pugni stringersi intorno ai sassi e scagliarli, all’inizio senza risultati, quando crebbe con esiti più pericolosi, nel vuoto circostante. Quando il figlio maggiore di Lila Sabarmati compì gli otto anni, decise di prendere in giro il giovane Shiva per la sua scontrosità, i suoi calzoncini non inamidati e le sue ginocchia bitorzolute; al che il ragazzo, che il delitto di Mary aveva condannato alla miseria e alle fisarmoniche, scagliò la pietra piatta e aguzza, con un bordo tagliente come un rasoio, e accecò l’occhio destro del suo tormentatore. Dopo l’incidente a Fettadocchio, Wee Willie Winkie venne alla Proprietà Methwold da solo, lasciando che il figlio s’inoltrasse nei bui labirinti da cui soltanto una guerra lo avrebbe salvato.
Ma ecco perché la Proprietà Methwold continuò a tollerare Wee Willie Winkie malgrado lo sfacelo della sua voce e la violenza di suo figlio: egli aveva dato loro una volta un’indicazione importante sulle loro vite. «La prima nascita,» aveva detto «vi renderà reali.»
Come conseguenza diretta dell’indicazione di Winkie, io, nei miei primi giorni, ero molto richiesto. Amina e Mary si contendevano le mie attenzioni; ma in ogni casa della Proprietà c’erano persone che volevano conoscermi; e col tempo Amina, lasciando che l’orgoglio per la mia popolarità la vincesse sulla riluttanza a perdermi di vista, acconsentì a prestarmi, con un sistema di turni, alle varie famiglie della collina. Spinto da Mary Pereira su una carrozzina azzurro-cielo, iniziai così un viaggio trionfale attraverso i palazzi dalle tegole rosse, onorandoli a turno con la mia presenza e facendoli sembrare più reali ai rispettivi proprietari. È per questo che, voltandomi indietro a guardare con gli occhi del piccolo Saleem, posso ora rivelare quasi tutti i segreti del mio vicinato, perché gli adulti continuavano me presente a vivere la loro vita, non immaginando che, anni dopo, qualcuno avrebbe potuto guardarsi indietro coi suoi occhi di bambino e scoprire così tutti gli altarini.
Ecco dunque il vecchio Ibrahim, mortalmente preoccupato perché in Africa i governi stanno nazionalizzando le sue piantagioni di sisal; ecco il suo figlio maggiore Ishaq, afflitto perché i suoi alberghi sono in passivo e lo costringono a chieder soldi in prestito a gangster locali; ecco gli occhi di Ishaq che guardano con concupiscenza la moglie di suo fratello, anche se il fatto che Nussie-l’anatroccola potesse destare un interesse sessuale in qualcuno resta per me un mistero; ed ecco il marito di Nussie, Ismail l’avvocato, che dalla nascita col forcipe del figlio ha imparato una lezione importante: «Niente nella vita vien fuori bene,» dice a quell’anatroccola di sua moglie «a meno che non sia stato estratto con la forza». Applicando questa filosofia alla sua carriera legale, si mette sistematicamente a corrompere giudici e a comprar giurie; tutti i bambini hanno il potere di modificare i loro genitori, e Sonny fece di suo padre un imbroglione di grande successo. E, spostandoci ora a Villa Versailles, ecco la signora Dubash, con il suo altare al dio Ganesh, nell’angolo di un appartamento di un disordine così sovrannaturale che a casa nostra la parola “dubash” divenne un sinonimo di “mettere nel caos” ... «Oh, Saleem, hai di nuovo dubasciato la tua camera, cattivo!» strillava Mary. E ora la causa di quel disordine: Adi Dubash, il fisico, genio dell’atomo e della confusione, si china sul mantice della mia carrozzina e mi dà un buffetto sotto il mento. Sua moglie, già incinta di Ciro-il-Grande, rimane in disparte a far crescere il suo bambino, con qualcosa di fanatico che luccica negli angoli interni dei suoi occhi, e aspetta il suo momento: affiorerà solo quando il signor Dubash, che trascorreva le sue giornate lavorando con le più pericolose sostanze del mondo, morirà soffocato da un’arancia cui la moglie aveva dimenticato di togliere i semi. Non fui mai invitato a casa del dottor Narlikar, il ginecologo che odiava i bambini; ma nelle abitazioni di Lila Sabarmati e di Homi Catrack divenni un guardone, un minuscolo complice delle mille e una infedeltà di Lila e poi un testimone degli inizi della relazione tra la moglie dell’ufficiale di marina e il magnate-cinematografico-e-proprietario-di-cavalli-da-corsa; cosa che, al momento opportuno, si sarebbe rivelata utile quando architettai una certa vendetta.
Persino un bambino ha il problema di definire se stesso; e devo dire che la mia precoce popolarità aveva anche i suoi aspetti problematici, perché ero bombardato da una disorientante molteplicità d’opinioni in proposito, essendo contemporaneamente un Benedetto per un guru sotto un rubinetto e un guardone per Lila Sabarmati; mentre agli occhi di Nussie-l’anatroccola, ero un rivale, e un rivale fortunato, del suo Sonny (anche se le va riconosciuto il merito di non aver mai palesato il proprio risentimento e di avermi anzi chiesto in prestito esattamente come tutti gli altri); per la mia madre a due teste ero tutto ciò che d’infantile si possa immaginare: mi chiamava joonoo-moonoo e putch-putch e piccolo-quarto-di-luna.
Ma cosa può fare, dopo tutto, un bambino, se non inghiottire tutto quanto e sperare un giorno di cavarne un senso? Con pazienza, e a occhi asciutti, assimilavo la lettera di Nehru e la profezia di Winkie; ma l’impressione più profonda la ebbi il giorno in cui la figlia idiota di Homi Catrack trasmise i suoi pensieri, oltre la pista da circo, alla mia testa infantile.
Toxy Catrack dal testone sproporzionato e dalla bocca sbavante; Toxy, che se ne stava dietro una finestra sbarrata all’ultimo piano, completamente nuda, a masturbarsi con gesti di assoluto disgusto per se stessa; che lanciava densi e vigorosi sputi oltre le sbarre, colpendoci a volte sul capo... aveva ventun anni, questa farfugliante imbecille, prodotto di generazioni di matrimoni tra consanguinei; ma nella mia testa era bella, perché non aveva perso le doti con cui nasce ogni bambino e che la vita finisce poi per corrodere. Non ricordo nulla di ciò che Toxy diceva quando trasmetteva i suoi pensieri sussurrandomi cose; probabilmente solo farfugliamenti e sputi; ma diede una piccola spinta a una porta che era nella mia mente, e quindi, quando avvenne un certo incidente in un cassone del bucato, era stata probabilmente Toxy a renderlo possibile.
Ma basta ora, almeno per il momento, sui primi giorni del piccolo Saleem – già la mia presenza sta avendo il suo effetto sulla storia; già il piccolo Saleem sta operando cambiamenti nelle persone che gli stanno attorno; e, per quanto riguarda mio padre, sono convinto di essere stato io a spingerlo a quegli eccessi che portarono, forse inevitabilmente, al momento terribile del congelamento.
Ahmed Sinai non perdonò mai al figlio di avergli rotto l’alluce. Anche quando gli tolsero la stecca, rimase leggermente zoppo. Mio padre si sporse sulla mia culla e disse: «Insomma, figlio mio, tu parti come se volessi fare chissà quanta strada. Per prima cosa hai già fracassato il tuo povero vecchio padre». Secondo me, era soltanto in parte una battuta scherzosa. Perché, con la mia nascita, per Ahmed Sinai cambiò tutto. La sua posizione in famiglia fu indebolita dal mio arrivo. L’assiduità di Amina si era improvvisamente posta obiettivi differenti; aveva cessato di procurarsi soldi a forza di moine, il tovagliolo che lui portava in grembo quando faceva colazione sentiva dolorose fitte di nostalgia per i bei tempi. Adesso lei si limitava a dire: «Tuo figlio ha bisogno di questo e questo» oppure: «Janum, devi darmi dei soldi per questo e questo». Brutto affare, pensava Ahmed Sinai. Mio padre era un uomo presuntuoso.
Fu quindi per opera mia che Ahmed Sinai s’abbandonò nei giorni successivi alla mia nascita alle due fantasie che sarebbero state la sua rovina, ai mondi irreali dei ginn e della terra sotto il mare.
Un ricordo di mio padre, seduto sul mio letto una sera della stagione fresca (avevo sette anni) a raccontarmi, con voce leggermente impastata, la storia del pescatore che trovò un ginn in una bottiglia trascinata dal mare su una spiaggia... «Non credere mai alle promesse di un ginn, figliolo! Fallo uscire dalla sua bottiglia e lui ti divorerà!» E io, timidamente – sentivo infatti odor di pericolo nell’alito di mio padre: «Ma, abba, un ginn può davvero vivere in una bottiglia?». Al che mio padre, in un repentino cambiamento d’umore, scoppiò a ridere e uscì dalla camera, per poi tornare con una bottiglia verde scura munita di etichetta bianca. «Vuoi vedere il ginn che c’è qui dentro?» «No!» strillai spaventato; ma «Sì!» gridò mia sorella, la Scimmia d’ottone, dal letto vicino... e facendoci piccoli piccoli per l’eccitazione e lo spavento, lo vedemmo svitare il tappo e coprire teatralmente il collo della bottiglia col palmo della mano, dopo di che nell’altra mano si materializzò un accendisigari. «Così periscano tutti i ginn maligni!» gridò mio padre; e, allontanando la mano, accostò la fiamma al collo della bottiglia. Atterriti, la Scimmia e io vedemmo una misteriosa fiamma, azzurro-verde-gialla, avanzare lentamente in cerchio giù per le pareti interne della bottiglia; finché, arrivata in fondo, divampò per un attimo prima di spegnersi. L’indomani provocai grandi risate quando dissi a Sonny, Fettadocchio e Brillantina: «Mio padre si batte con i ginn; e li sconfigge; veramente!»... Veramente. Ahmed Sinai, privato di moine e d’attenzioni, iniziò, subito dopo la mia nascita, una battaglia con i ginn-bottiglie destinata a durare tutta la sua vita. Ma su una cosa sbagliavo: non la vinse.
I mobili-bar gli avevano stuzzicato l’appetito; ma fu il mio arrivo a dargli la spinta decisiva... In quell’epoca Bombay divenne ufficialmente uno Stato proibizionista. Il solo modo per bere alcolici era farsi dichiarare alcolizzati; e fu così che spuntò una nuova razza di medici, medici-ginn, uno dei quali, il dottor Sharabi, venne presentato a mio padre dal nostro vicino Homi Catrack. Da allora, il primo giorno di ogni mese, il signor Catrack, mio padre e molti dei più rispettabili personaggi della città si mettevano in coda davanti alla porta di vetro variegato dell’ambulatorio del dottor Sharabi, entravano e ne uscivano con i loro piccoli certificati rosa di alcolizzati. Ma la razione permessa era troppo scarsa per i bisogni di mio padre; e così cominciò a mandarci anche i suoi servi, e giardinieri, sguatteri, autisti (a questo punto possedevamo infatti un’auto, una Rover del 1946 con pedane, proprio come quella di William Methwold), persino il vecchio Musa e Mary Pereira, tornavano portando a mio padre quantità sempre maggiori di certificati rosa, che lui presentava poi al Vijay Stores, di fronte alla barberia di Gowalia Tank Road specializzata in circoncisioni, scambiandoli con sacchetti d’alcolismo in carta da pacchi, all’interno dei quali tintinnavano bottiglie verdi piene di ginn. E anche di whisky; Ahmed Sinai s’ottenebrava il cervello bevendo le bottiglie verdi e le etichette rosse dei suoi servi. I poveri, non avendo quasi altro da commerciare, vendevano la propria identità su foglietti rosa, che mio padre tramutava in liquido e si scolava.
Ogni sera alle sei, Ahmed Sinai entrava nel mondo dei ginn; e ogni mattina, con gli occhi rossi, la testa che gli pulsava per le fatiche di una notte di battaglia, arrivava a tavola per la colazione con la barba lunga; e col passare degli anni il suo tradizionale buonumore precedente la rasatura lasciò il posto alla nervosa spossatezza della sua guerra con gli spiriti imbottigliati.
Dopo colazione, scendeva. Aveva destinato a ufficio due stanze del pianterreno, perché il suo senso dell’orientamento era come sempre disastroso, e non gli garbava l’idea di perdersi a Bombay mentre andava al lavoro; giù per una rampa di scale, persino lui riusciva a trovare la strada giusta. Con la mente annebbiata, mio padre trafficava beni immobili; e la sua crescente rabbia per l’assorbimento di mia madre nel suo figlioletto trovò oltre la porta del suo ufficio un nuovo sfogo – Ahmed Sinai cominciò a flirtare con le sue segretarie. Dopo notti durante le quali il suo scontro con le bottiglie sfociava a volte nel turpiloquio – «Ma che razza di moglie mi son trovato! Avrei fatto meglio a comprarmi un figlio e ad assumere una bambinaia – cosa ci sarebbe stato di diverso?» E poi lacrime, e Amina: «Oh, janum, non torturarmi!» che a sua volta provocava un: «Torturarti un accidente! Credi che sia una tortura il fatto che un uomo esiga un po’ d’attenzione da sua moglie? Dio mi salvi dalle donne stupide!» – mio padre scendeva zoppicando da basso a far gli occhi di triglia alle ragazze colaba. E dopo un po’ Amina cominciò ad accorgersi che le segretarie non duravano mai molto, che se ne andavano all’improvviso, precipitandosi senza preavviso giù per il nostro vialetto d’accesso; e decidete voi se preferì chiudere gli occhi o se considerò questa una punizione, sta di fatto che non ebbe alcuna reazione, e continuò a dedicare il suo tempo a me; e la sua sola ammissione della loro esistenza consistette nel dare a queste ragazze un nome collettivo. «Quelle anglo,» disse a Mary, rivelando così una componente snobistica «con i loro nomi assurdi, Fernanda e Alonso e il resto, i cognomi poi, mio Dio! Sulaca e Colaco e Dio sa cos’altro. Cosa vuoi che m’importi di loro? Femminucce da quattro soldi. Io le definisco le sue ragazze Coca-Cola – è questo che sembrano.»
Mentre Ahmed pizzicava sederi, Amina diventava sempre più paziente; ma forse gli avrebbe fatto piacere se lei avesse mostrato di prendersela.
Mary Pereira disse: «Non sono nomi assurdi, signora; le domando scusa, ma sono belle parole cristiane». E Amina si ricordò della cugina Zohra di Ahmed che ironizzava sulle pelli scure – e, nel tentativo di scusarsi, incappò nello stesso errore di Zohra: «Oh, non alludevo a te, Mary, come hai potuto pensare che io volessi beffarmi di te?».
Con le mie tempie a corno e il mio naso-cetriolo, giacevo nella mia culla e aspettavo, e tutto ciò che accadeva, accadeva per causa mia. Un giorno del gennaio 1948, alle cinque del pomeriggio, mio padre ricevette la visita del dottor Narlikar. Ci furono, come al solito, grandi abbracci e pacche sulla schiena. «Una partitina a scacchi?» domandò mio padre, perché queste visite stavano diventando un’abitudine. Giocavano, all’antica maniera indiana, il gioco dello shatranj, e liberato grazie alla semplicità della scacchiera dalle complicazioni della sua vita, Ahmed fantasticava per un’oretta sul riordinamento del Corano; e così arrivavano le sei, l’ora del cocktail, il momento dei ginn... ma quella sera Narlikar disse: «No». E Ahmed: «No? Che significa, no? Su, siediti, giochiamo, spettegoliamo...». Narlikar, interrompendolo: «Stasera, fratello Sinai, devo mostrarti una cosa». Adesso sono su una Rover del 1946, con Narlikar che fa girare la manovella e salta a bordo; stanno dirigendosi a nord per Warden Road, superando il tempio di Mahalaxmi sulla sinistra e il campo da golf del Willingdon Club sulla destra, lasciandosi alle spalle l’ippodromo, percorrendo Hornby Vellard lungo la diga marittima; è in vista lo stadio Vallabhbhai Padel con le sue gigantesche sagome in cartone dei lottatori, Bano Devi, la Donna invincibile, e Dara Singh, il più potente di tutti... ci sono venditori di channa e persone che portano a spasso il cane in riva al mare. «Alt» ordina Narlikar, e scendono. Sono davanti al mare; la brezza rinfresca i loro visi; e laggiù, in fondo a uno stretto viottolo di cemento tra le onde, c’è l’isola sulla quale è la tomba di Haji Ali, il mistico. Pellegrini passeggiano tra Vellard e la tomba.
«Là,» Narlikar punta un dito «che cosa vedi?» E Ahmed, disorientato: «Niente. La tomba. Gente. Ma cos’hai in mente, vecchio mio?». E Narlikar: «No, non si tratta di questo. Là!». E ora Ahmed vede che il dito di Narlikar è puntato verso il cemento... «La passeggiata?» domanda. «Cosa te ne importa? Tra qualche minuto la coprirà la marea, lo sanno tutti...» Narlikar, con la pelle che s’illumina come un faro, si mette a filosofare. «Proprio così, fratello Ahmed, proprio così. Terra e mare; mare e terra; l’eterna lotta, no?» Ahmed, perplesso, rimane in silenzio: «Una volta c’erano sette isole» gli ricorda Narlikar. «Worli, Mahim, Salsette, Matunga, Colaba, Mawagoon e Bombay. Gli inglesi le unirono. Il mare, fratello Ahmed, divenne terra. La terra si levò anziché sprofondare sotto le onde.» Ahmed è impaziente di raggiungere il suo whisky; il suo labbro comincia a sporgere, mentre i pellegrini s’affrettano a lasciare il viottolo sempre più stretto. «Il senso?» domanda. E Narlikar, abbagliante di splendore: «Il senso, Ahmed bhai, è questo!».
Esce dalla sua tasca: un modellino in gesso alto cinque centimetri: il tetrapode! Assomiglia a uno stemma in tre dimensioni della Mercedes-Benz: tre gambe che poggiano sul suo palmo, una quarta che si rizza come un linga nell’aria della sera; mio padre si blocca. «Cos’è?» domanda, e ora Narlikar gli dice: «È il bambino che ci farà più ricchi di Hyderabad, bhai! Il trucchetto che ci renderà, tu e io, padroni di questo!» Punta il dito là dove il mare sta ora rapidamente coprendo l’abbandonato viottolo di cemento... «La terra sotto il mare, amico mio! Dobbiamo fabbricarne migliaia – decine di migliaia! Dobbiamo partecipare alle gare per i contratti di bonifica; ci aspetta una fortuna; non lasciartela sfuggire, fratello, è la grande occasione della tua vita!»
Perché mio padre accettò di sognare il sogno imprenditoriale di un ginecologo? Perché, a poco a poco, la visione dei tetrapodi di cemento in grandezza naturale che marciavano oltre le dighe del mare, di quei conquistatori a quattro zampe che trionfavano sulle onde, lo sedusse come già aveva sedotto il luccicante medico? Perché, negli anni successivi, Ahmed si abbandonò alla fantasia di tutti gli isolani – il mito della vittoria sul mare? Forse perché aveva paura di lasciarsi scappare un’altra svolta; forse per il cameratismo delle partite a shatranj; o forse fu la credibilità di Narlikar – «Con i tuoi capitali e i miei contatti, che problemi vuoi che ci siano, Ahmed bhai? Non c’è grand’uomo in città che non abbia un figlio messo al mondo da me; non c’è porta che mi sarà chiusa. Tu fabbrichi e io procuro i contratti. Cinquanta e cinquanta; quel che è giusto è giusto!» Ma, a mio avviso, c’è una spiegazione più semplice. Mio padre, privato di attenzioni coniugali, soppiantato dal figlio, ottenebrato dal whisky e dal ginn, cercava di ristabilire la propria posizione nel mondo; e il sogno dei tetrapodi gliene offriva la possibilità. Si gettò con tutta l’anima in questa grande pazzia; si scrissero lettere, si bussò a porte, e denaro nero passò di mano; e tutto questo servì a fare di Ahmed Sinai un nome noto nei corridoi del Sachivalaja – negli anditi della Segreteria di Stato si sentiva parlare sempre più spesso di un musulmano che buttava rupie come se fossero acqua. E Ahmed Sinai, che continuava a bere finché non s’addormentava, non aveva idea del pericolo in cui s’era cacciato.
Le nostre vite, in quel periodo, erano regolate dalla corrispondenza. Il Primo ministro mi scrisse quando avevo solo sette giorni – ancor prima che imparassi ad asciugarmi il naso, ricevevo lettere d’ammirazione da lettori del «Times of India»; e una mattina di gennaio anche ad Ahmed Sinai arrivò una lettera che non avrebbe mai dimenticato.
Gli occhi rossi della colazione furono seguiti dal mento rasato della giornata lavorativa; passi giù per le scale; risolini allarmati della ragazza Coca-Cola. Lo scricchiolio di una sedia accostata a una scrivania con un ripiano di pelle verde. Il rumore metallico di un tagliacarte di metallo preso in mano che si scontrava fuggevolmente col telefono, il breve stridore del metallo che apriva una busta, e un attimo dopo Ahmed risaliva di corsa la scala, chiamando a gran voce mia madre, sbraitando:
«Amina! Vieni subito qui, moglie! Quei bastardi hanno cacciato le mie palle in un secchiello del ghiaccio!»
Nei giorni seguiti all’arrivo della lettera ufficiale in cui si comunicava ad Ahmed che tutti i suoi beni erano stati congelati, parlavano tutti contemporaneamente... «Ti prego, janum, che razza di linguaggio!» sta dicendo Amina – ed è la mia immaginazione o davvero un bambino sta arrossendo nella sua culla azzurro-cielo?
E Narlikar, che arriva schiumante di sudore: «È tutta colpa mia; abbiamo dato troppo nell’occhio. Sono brutti tempi, Sinai bhai – congela i beni di un musulmano, dicono, e lo costringerai a fuggire nel Pakistan, lasciando qui tutte le sue ricchezze. Agguanta la coda della lucertola e ti resterà in mano! A questo Stato cosiddetto laico vengono delle idee molto astute!».
«Tutto quanto,» sta dicendo Ahmed Sinai «il conto in banca; i buoni del tesoro; gli affitti delle proprietà Kurla – tutto bloccato, congelato. Per decreto, dice la lettera. Per decreto, moglie, non mi lasciano neanche quattro anna – neanche un chavanni per vedere il peepshow!»
«Sono quelle foto sui giornali» decide Amina. «Se no quegli spudorati furbacchioni come avrebbero saputo con chi prendersela? Dio mio, Janum, è colpa mia.»
«Neanche dieci pice per un cartoccio di channa» aggiunge Ahmed Sinai. «Neanche un anna da dare a un mendicante. Congelato – come in frigorifero!»
«È colpa mia,» sta dicendo Ibrahim Ibrahim «avrei dovuto avvertirla, Sinai bhai. Ho sentito parlare di questi congelamenti e naturalmente se la prendono sempre con i musulmani benestanti. Ma lei deve battersi.. »
«... Coi denti e con le unghie!» incalza Homi Catrack. «Come un leone! Come Aurangzeb – un suo antenato vero? – come la rani di Jansi! Sapremo così in che razza di paese siamo capitati!»
«Ci sono tribunali in questo Stato!» aggiunge Ismail Ibrahim; Nussie-l’anatroccola sorride col suo sorriso bovino mentre sta allattando Sonny; le sue dita si muovono, accarezzandogli distrattamente le tacche, avanti e indietro, su e giù, a un ritmo costante, immutabile... «Tu devi accettare la mia assistenza legale» dice Ismail ad Ahmed. «Assolutamente gratis, mio caro amico. No, non voglio neanche sentirne parlare. Come è possibile? Siamo vicini.»
«Senza un quattrino» sta dicendo Ahmed. «Congelato come l’acqua.»
«Su, su» lo interrompe Amina; e la sua dedizione si leva a nuove vette, mentre lo conduce in camera propria... «Janum, hai bisogno di stare un po’ sdraiato.» E Ahmed: «Che ti prende, moglie? In un momento simile – ripulito, liquidato, stritolato come ghiaccio – tu pensi a...». Ma lei ha chiuso la porta; pantofole vengono allontanate con un calcio; braccia si tendono verso di lui; e qualche attimo dopo le sue mani cominciano a scendere scendere scendere; e poi: «Oh, santo cielo, Janum, io poco fa credevo che tu parlassi sporco e basta, ma è proprio vero! Così fredde, Allah, così fredde, come due tondi cubetti di ghiaccio!».
Sono cose che accadono: non appena lo Stato congelò i beni di mio padre, mia madre cominciò a sentirle sempre più fredde. Il primo giorno fu concepita la Scimmia d’ottone – appena in tempo perché dopo, sebbene si sdraiasse ogni sera accanto al marito per scaldarlo, sebbene gli si rannicchiasse contro stretta stretta quando lo sentiva rabbrividire sotto le dita gelide della rabbia e dell’impotenza che dai suoi lombi si propagavano verso l’alto, Amina non sopportò più di allungare la mano e toccare perché i suoi cubetti di ghiaccio erano diventati troppo freddi.
Loro avrebbero dovuto – noi avremmo dovuto – capire che stava per succedere qualcosa di brutto. Quel gennaio, le spiagge di Chowpatty, di Juhu e di Trombay erano cosparse di sinistri cadaveri di lampughe, che galleggiavano, senza un’ombra di spiegazione, a pancia in su, come dita squamose puntate verso la riva.