Dall’ayah alla Vedova, sono sempre stato una di quelle persone cui le cose vengono fatte; ma Saleem Sinai, vittima perenne, persiste a credersi un protagonista. Nonostante il delitto di Mary; prescindendo dal tifo e dal veleno del serpente; trascurando i due incidenti, nel cassone del bucato e nella pista da circo (dove Sonny Ibrahim, scassinatore sommo, permise ai corni in erba delle mie tempie di invadere le sue tacche da forcipe, e con questa combinazione spalancò la porta ai bambini della mezzanotte); trascurando gli effetti della spinta di Evie e dell’infedeltà di mia madre; a dispetto dell’aver perso i capelli per l’amareggiata violenza di Emil Zagallo e un dito per gli incitamenti con leccar di labbra di Masha Miovic; contrapponendo il mio viso a tutte le indicazioni in senso contrario, spiegherò ora, nello stile e con l’appropriata solennità dell’uomo di scienza, la mia pretesa a prender posto al centro delle cose.
«... La tua vita sarà in un certo senso lo specchio della nostra» scrisse il Primo ministro obbligandomi scientificamente ad affrontare la domanda: in quale senso? Come, in quali termini, si può dire che la vicenda di un singolo individuo si ripercuota sul destino di una nazione? Devo rispondere con avverbi e trattini: ero legato alla storia sia letteralmente sia metaforicamente; sia attivamente sia passivamente, in quelli che i nostri scienziati (mirabilmente moderni) potrebbero definire “modi di connessione” composti di “configurazioni dualisticamente combinate” delle due coppie di avverbi contrapposti citate in precedenza. È per questo che sono necessari i trattini: attivamente-letteralmente, passivamente-metaforicamente, attivamente-metaforicamente e passivamente-letteralmente, ero inestricabilmente intrecciato col mio mondo.
Accorgendomi del poco scientifico sbalordimento di Padma, torno alle imprecisioni del linguaggio comune: con la combinazione tra “attivo” e “letterale” alludo, ovviamente, a tutte le mie azioni che influirono direttamente – letteralmente – su eventi storici fondamentali, o ne alterarono il corso, per esempio la maniera in cui fornii ai marciatori per la lingua il loro grido di battaglia. L’unione tra “passivo” e “metaforico” include tutte le tendenze sociopolitiche e gli eventi che, per il solo fatto di esistere, agirono metaforicamente su di me – per esempio, leggendo tra le righe dell’episodio Il dito puntato del pescatore, noterete l’inevitabile collegamento tra i tentativi dello Stato neonato di slanciarsi verso l’età adulta e i miei primi esplosivi sforzi per crescere... I successivi “passivo” e “letterale”, uniti da un trattino, coprono tutti i momenti in cui gli eventi nazionali ebbero un rapporto diretto con la mia vita e con quella della mia famiglia – sotto questa voce dovreste schedare il congelamento dei beni di mio padre e anche l’esplosione al serbatoio Walkeshwar che scatenò la grande invasione dei gatti. E c’è infine il “modo attivo-metaforico”, che raggruppa quei casi in cui cose fatte da me o a me si rispecchiarono nel macrocosmo degli affari pubblici e la mia esistenza personale si rivelò simbolicamente tutt’uno con la storia. Un caso pertinente fu la mutilazione del mio dito medio, perché quando si staccò la falange e sgorgò sangue (né Alfa né Omega) a fontane, qualcosa di simile accadde anche nella storia; e ogni sorta di cose cominciò a riversarsi su tutti noi; ma poiché la storia opera su scala più vasta dei singoli individui, ci volle molto più tempo per suturarla e far repulisti.
“Passiva-metaforica”, “passiva-letterale”, “attiva-metaforica”: la Conferenza dei bambini della mezzanotte era tutte tre queste cose; ma non divenne mai ciò che io avrei realmente voluto; non agimmo mai secondo il primo e il più rilevante dei “modi di connessione”. Lo “attivo-letterale” ci passò oltre.
Trasformazioni senza fine: Saleem dalle nove dita era stato accompagnato sulla porta dell’ospedale Breach Candy da una bionda e tozza infermiera il cui viso era bloccato in un sorriso di terrificante insincerità. Lui batté le palpebre nel riverbero abbagliante del mondo esterno, cercando di mettere a fuoco due ondeggianti sagome in ombra che avanzavano verso di lui dal sole. «Vedi?» tuba l’infermiera «lo vedi chi è venuto a prenderti?» E Saleem s’accorge che qualcosa di terribile dev’essere successo nel mondo, perché sua madre e suo padre, che avrebbero dovuto venire a prenderlo, si sono evidentemente trasformati en route nella sua ayah Mary e in suo zio Hanif.
Hanif Aziz tuonava come le sirene delle navi in porto e puzzava come una vecchia fabbrica di tabacco. Lo amavo teneramente, per la sua risata, per il suo mento malrasato, per quell’aria di essere stato messo assieme in maniera un po’ approssimativa, per quella mancanza di coordinazione che rendeva irto di pericoli ogni suo movimento. (Quando veniva a trovarci a Villa Buckingham, mia madre nascondeva i vasi di vetro tagliato.) Gli adulti non sapevano mai con certezza se si sarebbe comportato in maniera corretta («Attenti ai comunisti!» sbraitava, e loro arrossivano), e questo costituiva un legame tra lui e tutti i bambini – bambini altrui, perché lui e Pia non ne avevano. Lo zio Hanif che avrebbe fatto un giorno, senza preavviso, una passeggiata dal tetto di casa sua.
... Mi dà una gran pacca sulla schiena, facendomi traballare in avanti tra le braccia di Mary. «Ehi, piccolo lottatore! Sembri in gran forma!» Ma Mary, subito: «Ma talmente magro, Gesù! Non ti davano abbastanza da mangiare? Vuoi un budino di farina gialla? Una banana passata nel latte? Ti davano le patatine fritte?»... mentre Saleem si guarda attorno osservando questo nuovo mondo in cui tutto sembra andare troppo in fretta; la sua voce, quando vien fuori, sembra particolarmente acuta, come se qualcuno l’avesse accelerata; «Amma-abba?» domanda. «La Scimmia?» E Hanif tuona: «Sì, tickety-boo! Il ragazzo è proprio in forma splendida! Vieni, phaelwan, adesso facciamo un giro sulla mia Packard, okay?». E contemporaneamente parla anche Mary Pereira. «Torta di cioccolato,» promette «laddoo, pista-ki-lauz, samosa di carne, kulfi. Sei talmente magro, baba, che il vento finirà per soffiarti via.» La Packard si mette in moto; in Warden Road evita di voltare su per la collinetta a due piani; e Saleem: «Mamu Hanif, dove stiamo...». Non è il momento di saperlo; Hanif ruggisce: «Tua zia Pia ci sta aspettando! Dio, vedrai quanto ci divertiremo!». Abbassa la voce, come un cospiratore: «Un grande,» dice in tono misterioso «spasso». E Mary: «Arré baba sì! Che bistecche! E chutney verde!».
«Non quello scuro» dico io, finalmente conquistato; sollievo compare sulle guance dei miei rapitori. «No no no,» cinguetta Mary «verde chiaro, baba. Proprio come piace a te.» E: «Verde chiaro!» sta barrendo Hanif. «Verde come una cavalletta, buon Dio!»
Tutto troppo in fretta... siamo al Kemp’s Corner ora, e le macchine ci sfrecciano intorno come proiettili... ma una cosa è rimasta intatta. Sul suo tabellone, il Kolynos Kid sta ancora sogghignando, l’eterno sogghigno da folletto del ragazzo col berretto verde clorofilla, il folle sogghigno del Kid di sempre, che spreme all’infinito un inesauribile tubetto di dentifricio su uno spazzolino di un verde brillante: Tieni i denti puliti e tieni i denti splendenti, tieni i denti superbianchi Kolynos!... e a voi può venir voglia di considerare anche me un Kolynos Kid involontario, che spreme crisi e trasformazioni da un tubetto senza fondo, strizzando tempo sul mio metaforico spazzolino; tempo bianco, pulito con del verde clorofilla nelle strisce.
Cominciò dunque così il mio primo esilio. (Ce ne saranno un secondo e un terzo.) Lo sopportai senza un lamento. Avevo naturalmente intuito che c’era una domanda che non dovevo mai fare; che ero stato dato in prestito per un periodo indeterminato come un fumetto della biblioteca di seconda mano Scandal Point; e che quando i miei genitori mi avessero rivoluto con sé, mi avrebbero mandato a prendere. Quando, o anche se; perché di fatto incolpavo soprattutto me stesso della mia messa al bando. Non mi ero forse inflitto un’ulteriore deformità da aggiungere a gambestorte nasocetriolo tempieconcorna guancemacchiate? Non era possibile che il mio dito mutilato fosse stato (come quasi lo era stato l’annuncio delle mie voci) la goccia che aveva fatto traboccare il vaso dei miei fin troppo pazienti genitori? Che io non fossi più un affare degno di qualche rischio, che non valessi l’investimento del loro amore e della loro protezione?... Decisi di compensare i miei zii per la loro gentilezza costringendo quella sciagurata creatura che io ero a recitar la parte del nipote modello, aspettando gli eventi. C’erano momenti in cui avrei voluto che la Scimmia venisse a trovarmi, o anche soltanto mi telefonasse; ma soffermarmi su queste cose serviva solo a sgonfiare il pallone della mia equanimità, e facevo quindi del mio meglio per togliermele di mente. Inoltre, vivere con Hanif e Pia Aziz risultò essere esattamente ciò che mio zio aveva promesso: un grande spasso.
Mi colmavano di tutte le attenzioni che i bambini si aspettano, e accettano benevolmente, dagli adulti senza figli. L’appartamento che si affacciava su Marine Drive non era granché, ma c’era un balcone dal quale potevo lasciar cadere gusci di noccioline americane sulla testa dei passanti; mancava una camera per gli ospiti, ma mi avevano offerto un sofà deliziosamente morbido, bianco con strisce verdi (prima prova della mia trasformazione in Kolynos Kid); l’ayah Mary, che evidentemente mi aveva seguito nell’esilio, dormiva al mio fianco sul pavimento. Di giorno mi riempiva lo stomaco con le torte e i canditi promessi (e pagati, sono ora convinto, da mia madre); sarei diventato immensamente grasso, se non avessi ricominciato a crescere in altre direzioni, e alla fine di quell’anno di storia accelerata (quando ne avevo solo undici e mezzo) avevo già raggiunto la mia piena statura di adulto, come se qualcuno avesse afferrato le pieghe della mia pinguedine infantile e le avesse spremute con ancor più forza che un tubetto di dentifricio, facendone schizzar fuori centimetri e centimetri. Salvato dall’obesità, mediante l’effetto Kolynos, godevo della gioia dei miei zii d’avere un bambino per casa. Quando versavo il Seven-Up sul tappeto o starnutivo sul piatto della cena, il peggio che mio zio mi diceva era: «Ehi-oh! Disgraziato!» con quella sua voce tonante da piroscafo, rovinando però l’effetto con una grande risata. E intanto mia zia Pia si stava aggiungendo alla lista delle donne che mi hanno prima ammaliato e poi distrutto.
(Dovrei anche accennare al fatto che, durante il mio soggiorno nell’appartamento di Marine Drive, i miei testicoli, rinunciando alla protezione dell’osso pelvico, decisero, prematuramente e senza preavviso, di calare nelle loro piccole borse. E anche questo evento ebbe la sua importanza in ciò che sarebbe seguito.)
La mia mumani – mia zia – la divina Pia Aziz: vivere con lei significava vivere nel cuore caldo appiccicoso di un film di Bombay. A quei tempi, la carriera cinematografica di mio zio era entrata in una fase di vertiginoso declino e, poiché così va il mondo, era declinata insieme alla sua anche la stella di Pia. Lei presente, però, era impossibile pensare all’insuccesso. Privata di parti cinematografiche, Pia aveva fatto della sua vita un film, nel quale mi veniva assegnato un numero sempre maggiore di personaggi secondari. Ero il suo Fedele cameriere personale: Pia in sottoveste, i morbidi fianchi che s’arrotondavano verso i miei occhi disperatamente rivolti altrove, che ridacchiava mentre i suoi occhi, resi lucenti dall’antimonio, lampeggiavano imperiosi – «Su, ragazzo, perché sei così timido, tieni steso questo sari mentre io lo ripiego.» Ero anche il suo Fidato confidente. Mentre mio zio sedeva sul sofà a strisce clorofilla lavorando su soggetti che nessuno avrebbe mai filmato, io ascoltavo i nostalgici soliloqui di mia zia, cercando di tener lontani gli occhi da due incredibili globi, sferici come meloni, dorati come manghi; alludo, come avrete intuito, all’adorabile seno di Pia mumani. E lei intanto, seduta sul letto, con un braccio posato sulla fronte, declamava: «Ragazzo, tu devi sapere che io sono una grande attrice, ho interpretato tante parti importanti! Ma guarda cosa ti combina il destino! Una volta, ragazzo, Dio solo sa chi non avrebbe fatto carte false per entrare in questo appartamento; una volta i cronisti di “Filmfare” e di “Screen Goddess” versavano bustarelle per metterci piede! Sì, e i balli? Ero conosciutissima al ristorante Venice – tutti i grandi suonatori di jazz venivano a sedersi ai miei piedi, sì, persino Braz. Ragazzo, dopo Gli amanti del Kashmir, chi era la più grande delle dive? Non Poppy; né Vyjayantimala; né nessun’altra!». E io, annuendo con forza, no – naturalmente – nessuna, mentre i suoi meravigliosi meloni avvolti nella pelle si sollevavano e... Con un grido drammatico riprese: «Ma persino allora, ai tempi della nostra fama mondiale, ogni film un successo sensazionale, quel tuo zio non si mette in mente di vivere in un appartamento di due locali come un impiegato? Io però non protesto; non sono come certe attricette da quattro soldi, io vivo in semplicità e non chiedo né Cadillac, né condizionatori, né letti Dunlopillo importati dall’Inghilterra; e neanche piscine a forma di bikini come quella di Roxy Vishwanatham! E qui sono rimasta come una donna del popolo; e qui ora sto marcendo! Marcendo ti dico. So però una cosa: è il mio viso la mia fortuna; e allora che bisogno ho di ricchezze?». E io, assentendo con ardore: «Nessuno, mumani, proprio nessuno». Lei allora lanciò un urlo acutissimo che penetrò anche nel mio orecchio assordato dallo schiaffo. «Sì, certo, anche tu vuoi che io sia povera! Il mondo intero vuole che Pia si riduca in cenci! Compreso quello, quel tuo zio, che passa il suo tempo a scrivere i suoi noiosissimi copioni! Ma Dio mio, gli dico, mettici delle danze, o degli ambienti esotici! Rendi cattivi i tuoi cattivi, perché no, e virili i tuoi eroi! Ma lui no, dice, è tutto ciarpame, adesso finalmente lo ha capito – anche se una volta non era così orgoglioso! Ora però deve scrivere di gente comune e di problemi sociali! E io gli dico, sì; Hanif, fallo, è una bella cosa; ma mettici qualche numero comico, una piccola danza per la tua Pia, e tragedia anche e dramma: è questo che vuole il pubblico!» I suoi occhi traboccavano di lacrime. «Lo sai di che sta scrivendo adesso? Della...» sembrava che le stesse per spezzarsi il cuore «... della vita quotidiana in una fabbrica di pickle!»
«Ssst, mumani, ssst!» supplicai «Hanif mamu può sentirti!»
«Lascia che mi senta!» tempestò, piangendo copiosamente; «lascia che mi senta anche sua madre ad Agra; mi faranno morire di vergogna!»
Alla Reverenda madre non era mai piaciuta la nuora attrice. Una volta la sentii dire a mia madre: «Sposando un’attrice, comesichiama, mio figlio si è fatto il letto in una fogna, tra poco, comesichiama, lei lo costringerà a bere alcol e anche a mangiare carne di porco». Poi col tempo accettò di malagrazia l’inevitabilità del matrimonio; ma si mise a scrivere a Pia epistole ammonitorie. «Ascolta, figlia,» scriveva «non far più l’attrice. Perché un comportamento così spudorato? Lavorare passi, voi ragazze avete idee moderne, ma ballare nuda sullo schermo! Quando ti basterebbe una piccola somma per comprarti la concessione di un buon distributore di benzina. Te la darei di tasca mia nel giro di due minuti. Starsene in ufficio, assumere personale: questo è un lavoro come si deve.» Nessuno di noi seppe mai dove la Reverenda madre fosse andata a pescare questo suo sogno di distributori di benzina che avrebbe sempre più ossessionato la sua vecchiaia; ma se ne serviva per tormentare Pia, con gran disgusto di quest’ultima.
«Perché quella donna non mi chiede di fare la stenodattilografa?» gemette Pia a Hanif, a Mary e a me mentre facevamo colazione. «Perché non la taxista o la tessitrice con un telaio a mano? Credetemi, questa cretinata del distributore mi sta facendo diventare pazza.»
Mio zio fremette e si spinse (per una volta in vita sua) al limite della scenata. «C’è un bambino presente,» disse «e poi è tua madre, portale rispetto.»
«Il rispetto può averlo,» Pia si precipitò fuori dalla stanza «ma lei vuole benzina.»
... Ma la particina a me più cara era quella che recitavo quando, durante le abituali serate a carte di Pia e di Hanif con i loro amici, mi si faceva occupare il posto sacro del figlio che non avevano mai avuto. (Nato da un’unione ignota, ho avuto più madri io di quanti figli può avere una madre; mettere al mondo genitori è stata una delle mie più curiose facoltà – una forma di fecondità a rovescio che sfugge al controllo degli anticoncezionali, e persino a quello della Vedova.) Davanti agli ospiti, Pia Aziz esclamava: «Guardate, amici, questo è il mio principe ereditario! La gemma del mio anello! La perla della mia collana!». E mi attirava a sé, sistemandomi la testa in modo che il mio naso si trovava spinto contro il suo petto e meravigliosamente annidato tra i morbidi cuscini del suo indescrivibile... finché, incapace di reggere a tanta gioia, mi tiravo indietro. Ero comunque suo schiavo; e ora so perché si permetteva di trattarmi con tanta familiarità. Prematuramente munito di testicoli e in rapida crescita, sfoggiavo tuttavia, fraudolentemente, le insegne dell’innocenza sessuale: Saleem Sinai, durante il suo soggiorno in casa dello zio, indossava ancora i calzoni corti. Le ginocchia nude dimostravano a Pia che ero un bambino; ingannata dai calzini alle caviglie, si accostava al seno il mio viso mentre la sua voce di perfetto sitar mi sussurrava nell’orecchio buono: «Bambino, bambino, non aver paura; presto le nubi passeranno».
Per mio zio, come per la mia istrionica zia, interpretavo (con crescente raffinatezza) la parte del figlio che non avevano. Durante il giorno Hanif Aziz se ne stava sul sofà a strisce, con matita e quaderno in mano, a scrivere la sua epopea dei pickle. Indossava il suo solito lungi, avvolto mollemente intorno alla vita e fissato da un’enorme spilla da balia; le gambe sporgevano pelose dalle pieghe. Le unghie delle mani portavano le macchie di una vita di Gold Flakes; quelle dei piedi parevano altrettanto scolorite. Me lo immaginavo nell’atto di fumar sigarette con le dita dei piedi. Fortemente impressionato da questa visione, gli domandai se era davvero capace di compiere una simile impresa; e lui, senza una parola, inserì una Gold Flake tra l’alluce e il suo vicino e prese a contorcersi in maniera bizzarra. Applaudii freneticamente, ma per il resto della giornata ebbi l’impressione di vederlo parecchio dolorante.
Provvedevo alle sue necessità come farebbe un buon figlio, svuotando portacenere, temperando matite, portando acqua da bere; mentre lui che, dopo i suoi esordi di favolista, si era ricordato di esser figlio di suo padre e si era dedicato alla lotta contro tutto ciò che sapeva d’irreale, continuava a scrivere la sua sfortunata sceneggiatura.
«Figliolo mio,» m’informò «questo dannato paese non ha fatto che sognare per cinquemila anni. È ormai tempo che si svegli.» Hanif amava inveire contro i prìncipi e i diavoli, gli dèi e gli eroi, in pratica contro l’intera iconografia del cinema di Bombay; nel tempio delle illusioni era diventato il gran sacerdote della realtà; mentre io, consapevole della mia natura miracolosa che mi coinvolgeva, senza alcuna riserva, nella vita mitica dell’India (tanto disprezzata da Hanif), mi mordevo le labbra e non sapevo da che parte guardare.
Hanif Aziz, l’unico scrittore realistico che lavorasse nell’industria cinematografica di Bombay, stava scrivendo la storia di una fabbrica di pickle creata, gestita e fatta funzionare esclusivamente da donne. C’erano lunghe scene che raccontavano la nascita di un sindacato; c’erano descrizioni particolareggiate dei procedimenti di lavorazione. Interrogava Mary Pereira sulle ricette; discutevano per ore sulla perfetta miscela tra limone, limetta e garam masala. È ironico che questo superdiscepolo del naturalismo sia stato un così abile (e inconsapevole) profeta delle vicende della sua stessa famiglia: con i baci indiretti degli Amanti del Kashmir preannunciò gli incontri tra mia madre e il suo Nadir-Qasim al Pioneer Café; e anche nel suo copione mai girato sul chutney si nasconderà una profezia di micidiale precisione.
Assediava Homi Catrack con i suoi soggetti. Catrack non ne produsse neppure uno; rimasero tutti nel piccolo appartamento di Marine Drive, a coprire ogni superficie disponibile, tanto che dovevi sollevarli dal sedile della toilette prima di poter alzarlo; ma Catrack (per beneficenza? O per un’altra ragione che sarà presto svelata?) versava a mio zio uno stipendio mensile. Era così che sopravvivevano Hanif e Pia, per la generosità di un uomo che sarebbe, col tempo, diventato il secondo essere umano ucciso dal dilagante Saleem.
Homi Catrack lo supplicava: «Almeno una piccola scena d’amore?». E Pia: «Cosa credi, che gli abitanti dei villaggi siano disposti a versar rupie per vedere donne che mettono manghi alfonso in salamoia?». Ma Hanif, caparbio: «È un film sul lavoro, non sui baci. E nessuno mette in salamoia gli alfonsos. Bisogna usare manghi con noccioli più grossi».
Lo spettro di Joseph D’Costa non seguì, per quanto mi risulti, Mary Pereira nell’esilio: la sua assenza servì tuttavia soltanto ad aumentare l’ansia della donna. Nei giorni di Marine Drive Mary cominciò a temere che lui diventasse visibile anche ad altri e che, lei assente, rivelasse l’orribile segreto di ciò che era accaduto nella Casa di cura del dottor Narlikar la notte dell’Indipendenza. Ogni mattina, dunque, lasciava l’appartamento in uno stato di gelatinosa preoccupazione e arrivava a Villa Buckingham prossima al collasso; si rilassava soltanto quando scopriva che Joe era rimasto sia invisibile sia in silenzio. Ma quando tornava in Marine Drive, carica di samosa, di torte e di chutney, saliva di nuovo la sua ansia... e io che avevo deciso (avendo già abbastanza guai per mio conto) di girare al largo da tutte le teste tranne che da quelle dei Bambini, non ne capivo la ragione.
Il panico attira panico; durante i suoi viaggi, seduta in stipatissimi autobus (i tram erano stati da poco soppressi), Mary udiva voci e pettegolezzi che poi mi riferiva come incontestabili dati di fatto. Secondo lei, il paese era alle prese con una sorta d’invasione sovrannaturale. «Sì, baba, dicono che a Kurukshetra una vecchia sikh si è svegliata nella sua capanna e ha visto svolgersi davanti a sé l’antica guerra tra i kuru e i pandava! Ne hanno parlato anche i giornali, e lei ha mostrato il posto dove ha visto i carri di Arjun e di Karna, e c’erano veramente orme di ruote nel fango! Baap-re-baap, che brutte cose: a Gwalior si è visto lo spettro della rani di Jhansi; si sono visti rakshasa a più teste come Ravana fare certe cose alle donne e abbattere alberi con un solo dito. Io sono una buona cristiana, baba; ma mi vien paura quando sento dire che nel Kashmir hanno trovato la tomba del Signore Gesù. Sulla lapide sono scolpiti due piedi trafitti e una pescatrice del posto ha giurato d’averli visti sanguinare – sangue vero, che Dio ci protegga! – il venerdì santo... cosa sta succedendo, baba, perché le vecchie cose non restano morte e non la smettono di tormentare la gente dabbene?» E io ad ascoltarla a occhi spalancati; e, benché mio zio Hanif sghignazzasse, sono ancor oggi quasi convinto che in quel periodo di eventi accelerati e di ore malate, il passato dell’India risorse a confondere il presente; che il neonato Stato laico si sentì ricordare in maniera terrificante la sua favolosa antichità, quando la democrazia e il voto alle donne erano irrilevanti... e di conseguenza la gente era presa da aspirazioni ataviche e, scordando il nuovo mito della libertà, tornava alle antiche tradizioni, alle antiche solidarietà e ai pregiudizi regionali e la nazione cominciò a incrinarsi. Dicevo bene io: mozzate anche soltanto la punta d’un dito e non saprete più quali fontane di confusione finirete per scatenare.
«E le vacche, baba, svaniscono nell’aria; puff! e nei villaggi i contadini soffrono la fame.»
In quell’epoca anch’io fui posseduto da uno strano demone; ma perché possiate capirmi bene, devo cominciare il mio racconto da un momento di un’innocente serata, durante la quale Hanif e Pia Aziz avevano invitato un gruppo d’amici per giocare a carte.
Mia zia tendeva all’esagerazione, perché, pur essendo assenti «Filmfare» e «Screen Goddess», la casa di mio zio era ancora un posto molto frequentato. Le sere delle partite a carte, traboccava di jazzisti che spettegolavano sulle polemiche e le recensioni delle riviste americane, di cantanti che portavano spray per la gola nella borsetta e di membri della compagnia di danza Uday-Shankar, che stava tentando di creare un nuovo stile fondendo il balletto occidentale con il bharatanatyam; e c’erano musicisti già scritturati per partecipare al festival musicale di Radio All-India, il Sangeet Sammelan; e pittori che discutevano violentemente tra loro. L’aria era fitta di chiacchiere politiche e d’altro genere. «Io in realtà sono l’unico artista in India che dipinga con un autentico senso dell’impegno ideologico!» – «Oh, mi dispiace per Ferdy, ma dopo questo non avrà più un’altra orchestra» – «Menon? Non parlarmi di Krishna. L’ho conosciuto quando aveva dei princìpi. Io personalmente non li ho mai abbandonati...» «... Ohé, Hanif, yaar, perché da un po’ di tempo non vediamo più qui Lal Qasim?» E Hanif, con un’occhiata inquieta nella mia direzione: «Ssst... quale Qasim? Non conosco nessuno che si chiami così».
... E a mescolarsi col chiasso dell’appartamento, c’era il colore della sera e il rumore di Marine Drive: persone a passeggio coi cani, che compravano chambeli e channa dagli ambulanti; le grida dei mendicanti e dei venditori di bhelpuri; e le luci che s’accendevano in una grande collana ad arco, girando intorno a Malabar Hill e salendo vicino alla vetta... io me ne stavo sul balcone con Mary Pereira, volgendo l’orecchio sordo alle dicerie che lei mi sussurrava, con la città alle spalle e gli affollati rumorosi tavoli di carte davanti agli occhi. E un giorno, tra i giocatori, riconobbi gli occhi infossati e il corpo ascetico del signor Homi Catrack. Che mi salutò con imbarazzata cordialità. «Ehilà, giovanotto! Stai bene? Ma certo, certo, stai benone!»
Mio zio Hanif giocava a ramino in maniera squisita: ma era schiavo di una curiosa ossessione – era cioè deciso a non metter mai giù ciò che aveva in mano finché non aveva completato una sequenza di tredici carte di cuori. Sempre cuori; tutti cuori; non gli sarebbe andato bene nient’altro che cuori. Nella sua ricerca di questa irraggiungibile perfezione, mio zio scartava ottimi tris e intere scale di picche fiori quadri con fragoroso divertimento dei suoi amici. Ricordo di aver udito il famoso giocatore di shehnai Ustad Changez Khan (il quale si tingeva i capelli, tanto che nelle sere calde la parte superiore delle sue orecchie si colorava del fluido nero che vi gocciolava sopra) dire a mio zio: «Su, signore; la smetta con questa faccenda dei cuori, e si decida a giocare come tutti gli altri». Mio zio dovette misurarsi con questa tentazione; ma poi tuonò al disopra del baccano: «No, accidenti, andate tutti al diavolo e lasciatemi giocare come mi pare!». Giocava a carte come un pazzo; ma io, che non avevo mai visto una tale fermezza di propositi, avevo una gran voglia d’applaudire.
Uno dei frequentatori abituali delle leggendarie serate a carte di Hanif Aziz era un fotografo di «Times of India», sempre pieno di storie piccanti e di aneddoti scurrili. Mio zio mi presentò a lui: «Questo, Saleem, è l’uomo che ti ha messo in prima pagina. Ti presento Kalidas Gupta. Un pessimo fotografo, un autentico badamash. Non parlare troppo con lui; ti farà girar la testa a forza di scandali!». Kalidas aveva una criniera di capelli d’argento e un naso come quello d’un’aquila. A me pareva meraviglioso. «Davvero lei conosce degli scandali?» gli domandai; ma lui mi disse soltanto: «Se te li raccontassi, figliolo, ti farei bruciare le orecchie». Ma non riuscì mai a scoprire che il genio malefico, l’eminenza grigia dietro il più grosso scandalo che la città avesse mai avuto, altri non era che Saleem Nasochecola... Non devo però aver fretta. La faccenda del curioso bastone del comandante Sabarmati dovrà essere raccontata al momento opportuno. Non si può permettere (nonostante il carattere elusivo del tempo nel 1958) che gli effetti precedano le cause.
Adesso mi trovavo solo sul balcone. Mary Pereira era andata in cucina per aiutare Pia a preparare panini e pakora al formaggio; Hanif Aziz era immerso nella ricerca dei suoi tredici cuori; e fu allora che mi si avvicinò il signor Homi Catrack. «Un po’ d’aria fresca» disse. «Sì, signore» replicai. «Bene» aspirò profondamente. «Bene, bene. Ti sta trattando bene la vita? Sei un bravissimo ragazzino. Lascia che ti stringa la mano.» La mano decenne viene inghiottita dal pugno del magnate cinematografico (la sinistra; la destra mutilata pende innocente al mio fianco)... e ora uno choc. La mano sinistra sente che le si conficca dentro un foglietto – foglietto sinistro, inserito da un pugno fin troppo destro! La stretta di Catrack si rafforza; la sua voce diventa bassa, ma anche sibilante, come un cobra; non udibili nella stanza col sofà a strisce verdi, le sue parole penetrano nel mio orecchio buono: «Dallo a tua zia. Ma in gran segreto. Sei capace? E tieni la bocca chiusa; se non vuoi che mandi i poliziotti a tagliarti la lingua». E poi, con voce forte allegra: «Bene! È un piacere vederti così su di morale!». Homi Catrack mi dà un buffetto sulla testa; e torna alla sua partita.
Minacciato di poliziotti, sono rimasto zitto per due decenni; ma ora basta. Ora deve venir fuori tutto.
Il branco dei giocatori di carte si sciolse presto. «Il ragazzo ha bisogno di dormire,» sussurrò Pia «domani torna a scuola.» Non ebbi occasione di rimanere solo con mia zia: me ne stavo raggomitolato sul mio sofà con il biglietto ancora stretto nel pugno sinistro. Mary dormiva sul pavimento... Decisi di fingere un incubo. (La tortuosità non mi era innaturale.) Ma purtroppo ero talmente stanco che m’addormentai subito; e comunque non ebbi bisogno di fingere; sognai infatti l’assassinio del mio compagno di classe Jimmy Kapadia.
... Stiamo giocando al calcio nel cortile principale della scuola, sulle piastrelle rosse, slittando scivolando. Tra le piastrelle rosso-sangue c’è una croce nera. Il signor Crusoe in cima alle scale: «Non dovete scivolare giù dalle ringhiere quella croce ragazzi è dove uno di voi è caduto». Jimmy gioca al calcio sulla croce. «La croce è una bugia» dice Jimmy. «Ti raccontano bugie per rovinarti il divertimento.» Sua madre lo chiama al telefono: «Non giocare Jimmy soffri di cuore». La campana. Il telefono riattaccato e ora la campana... Pallottoline di inchiostro macchiano l’aria della classe. Ciccio Perce e Ghiandoloso Keith se la spassano. Jimmy ha bisogno di una matita, mi pungola nelle costole. «Ehi, uomo, ce l’hai una matita, dammela. Due secondi, uomo.» Gliela do. Entra Zagallo. La mano di Zagallo si alza per imporre silenzio: guardate i miei capelli che gli crescono sul palmo! Zagallo con il suo elmetto a punta... Devo farmi restituire la matita. Allungo una mano, do un colpetto a Jimmy. «Signore, per favore signore guardi, Jimmy è caduto!» «Signore Nasochecola ha sparato a Kapadia, signore!» «Non giocare Jimmy soffri di cuore!» «Zitti voi!» grida Zagallo. «Chiudete il becco, bestiacce della giungla!»
Jimmy come un fagotto sul pavimento. «Signore signore mi scusi signore ci metteranno una croce?» Si è fatto prestare una matita, gli ho dato un colpetto, è caduto. Suo padre fa il taxista. Ora il taxi entra in aula; sul sedile posteriore un fagotto da dhobi, esce Jimmy. Drinn, una campana, il padre di Jimmy abbassa la bandierina del taxi. Il padre di Jimmy mi guarda: «Nasochecola, dovrai pagarla tu la corsa». «Ma mi scusi signore io non ho i soldi signore.» E Zagallo: «Te la metteremo in conto». Vedo i miei capelli sulla mano di Zagallo. Sgorgano fiamme dagli occhi di Zagallo. «Cinquecento milioni, che cos’è un morto?» Jimmy è morto; cinquecento milioni sono ancora vivi. Mi metto a contare: uno due tre. I numeri marciano sulla tomba di Jimmy. Un milione due milioni tre milioni quattro. A chi importa se qualcuno muore. Cento milioni e uno due tre. I numeri ora marciano in aula. Schiacciando polverizzando duecentomilioni tre quattro cinque. Cinquecento milioni ancora vivi. E io soltanto uno...
... Nel buio della notte, mi svegliai dal sogno della morte di Jimmy Kapadia che era divenuto il sogno dell’annientamento a opera dei numeri, ma avevo ancora il foglietto nel pugno; e si spalancò una porta, e comparvero zio Hanif e zia Pia. Mary Pereira cercò di confortarmi, ma Pia era autoritaria, era un divino turbinio di sottovesti e di dupatta, mi cullò tra le braccia. «Non pensarci più! Non pensarci più adesso, mio diamante!» E zio Hanif, assonnato: «Ehi, phaelwan! È tutto okay adesso; su; vieni con noi; porta il ragazzo, Pia!». E ora sono al sicuro tra le braccia di Pia. «Solo per stanotte, mia perla, puoi dormire con noi!» ed eccomi qui, rannicchiato tra zio e zia, raggomitolato contro le curve profumate della mia mumani.
Immaginate se potete, la mia gioia improvvisa; immaginate con quanta rapidità l’incubo fuggì dai miei pensieri, mentre io mi stringevo alle sottovesti della mia straordinaria zia! Mentre lei si sistemava, per mettersi più comoda, e un melone dorato mi accarezzava una guancia! Mentre la mano di Pia cercava la mia e la stringeva forte... e a questo punto feci il mio dovere. Quando la mano di mia zia s’avvolse intorno alla mia, il foglietto passò da un palmo all’altro. La sentii irrigidirsi, in silenzio; e allora benché mi rannicchiassi sempre più vicino, la persi; stava leggendo al buio e la rigidezza del suo corpo continuava ad aumentare; e così all’improvviso capii che ero stato imbrogliato, che Catrack era mio nemico e che solo la minaccia dei poliziotti m’impediva di raccontare tutto a mio zio.
(A scuola, l’indomani, mi dissero della tragica morte di Jimmy Kapadia, avvenuta all’improvviso, a casa sua, per un attacco di cuore. È possibile uccidere un essere umano sognandone la morte? Mia madre ha sempre detto di sì; e in tal caso Jimmy Kapadia fu la vittima del mio primo omicidio. Homi Catrack sarebbe stato la seconda.)
Quando rientrai dal primo giorno del mio ritorno a scuola, dopo essermi goduto l’insolita docilità di Ciccio Perce e Ghiandoloso Keith («Ehi, senti, non potevamo sapere che c’era il tuo dito nella... ehi, uomo, abbiamo dei biglietti gratis per andare al cinema domani, vuoi venire?») e la mia altrettanto inattesa popolarità («Non c’è più Zagallo! Sei grande, uomo! Hai perso i capelli per qualcosa di buono!»), zia Pia era fuori. Mi sedetti tranquillo con zio Hanif mentre, in cucina, Mary Pereira preparava la cena. Era una pacifica scenetta familiare, ma la pace venne rotta all’improvviso dallo sbattere di una porta. Hanif lasciò cadere la matita mentre Pia, dopo aver sbattuto la porta d’ingresso, spalancò con altrettanto vigore quella del soggiorno. Lui allora tuonò allegramente: «Be’, moglie, qual è il dramma?»... Pia però non si lasciò smontare. «Continua a scrivere!» disse, affettando l’aria con una mano «non smettere per me, Allah! Quanto talento hai, uno in questa casa non può andare al cesso senza trovarci il tuo genio. Sei felice, marito? Stiamo guadagnando tanti soldi? Dio è buono con te?» Hanif tuttavia non perdette il suo buon umore. «Su, Pia, abbiamo qui il nostro piccolo ospite. Siediti, prendi il tè...» L’attrice Pia s’immobilizzò nell’atteggiamento di chi non crede alle proprie orecchie. «Oh Dio! In che razza di famiglia sono finita! La mia vita è in rovina e tu mi offri il tè, e tua madre la benzina! È tutta una pazzia...» E zio Hanif, ora accigliandosi: «Pia, il ragazzo...». Uno strillo. «Ah-ah! Il ragazzo – ma il ragazzo ha sofferto; e sta ancora soffrendo, sa cosa vuol dire perdere, sentirsi derelitto! Anch’io sono stata abbandonata: sono una grande attrice e me ne sto qui circondata da storie di postini in bicicletta e di conducenti di carri di asini! Cosa sai tu delle sofferenze di una donna? Te ne stai lì tranquillo a lasciare che un grasso e ricco produttore cinematografico parsi ti faccia la carità, e non t’importa che tua moglie porti gioielli d’imitazione e non si faccia più un sari da due anni; una donna ha le spalle larghe, marito, ma tu hai fatto della mia vita un deserto! Vattene ora, ignorami, lascia che mi butti in pace dalla finestra! Ora me ne vado in camera,» concluse «e se non mi sentirai più sarà perché mi si è spezzato il cuore e sono morta.» Altre porte sbattute: fu un’uscita impressionante.
Zio Hanif spaccò distrattamente in due una matita. Poi scosse la testa perplesso. «Che le ha preso?» Ma io lo sapevo. Io, portatore di segreti, minacciato da poliziotti, sapevo e mi mordevo le labbra. Perché, trovandomi impigliato nella crisi del matrimonio dei miei zii, avevo violato la norma che mi ero da poco imposto ed ero entrato nella testa di Pia; l’avevo vista andare a trovare Homi Catrack e sapevo che ormai da anni era la sua amica; lo avevo udito dirle che si era stancato delle sue attrattive e che adesso c’era un’altra, e io che lo avrei già abbastanza odiato come seduttore della mia amatissima zia, mi sorpresi a odiarlo due volte di più perché le aveva fatto lo sgarbo di piantarla.
«Va’ da lei» mi stava dicendo mio zio. «Forse potrai consolarla.»
Il ragazzo Saleem raggiunge attraverso porte ripetutamente sbattute il rifugio della sua tragica zia; ed entrando trova il più amabile dei corpi disteso di traverso in meraviglioso abbandono sul letto coniugale – dove solo la notte prima corpi si rannicchiavano contro corpi – dove un foglietto passò di mano in mano... una mano trema sul suo cuore; il suo petto ansima; e il ragazzo Saleem balbetta: «Zia, oh zia, mi dispiace».
Un grido terrificante dal letto. Braccia d’attrice tragica volano in fuori, verso di me. «Ahi! ahi, ahi! Ai-ahi-ahi!» Non ho bisogno d’altri inviti per volare tra quelle braccia, mi butto in mezzo a loro e mi lascio cadere sulla mia dolente zia. Le braccia si stringono intorno a me, sempre più forte, le unghie si conficcano nella mia camicia bianca di scuola, ma non m’importa! – Perché qualcosa ha cominciato ad agitarsi sotto la mia cintura con la fibbia a S. Zia Pia nella sua disperazione si agita sotto di me e io mi agito con lei, ricordandomi di non far mai intervenire la mano destra. La tengo rigidamente sollevata sopra la mischia. Con una sola mano, comincio ad accarezzarla, senza rendermi conto di quello che faccio, ho solo dieci anni e porto ancora i calzoni corti, ma piango perché lei sta piangendo, e la camera è piena di rumore – e sul letto mentre i due corpi si agitano, i due corpi cominciano ad acquistare un ritmo, innominabile impensabile, fianchi si spingono in alto verso di me, mentre la sua voce grida: «Oh! Oh Dio, oh Dio! Oh!». E forse anch’io sto gridando, non so bene, c’è qualcosa qui che sta prendendo il posto del dolore, mentre mio zio spacca matite sul sofà a strisce, qualcosa che diventa sempre più forte, mentre lei si dimena e si contorce sotto di me e infine, dominato da una forza più grande della mia forza, abbasso la mano destra, ho dimenticato il mio dito, e quando le tocco il seno, la ferita preme contro la pelle...
«Yauuuuu!» urlo per il male; e mia zia, uscendo dal macabro incantesimo di quei pochi istanti, mi allontana da sé con una spinta e mi sferra un sonoro ceffone sul viso. Sulla guancia sinistra, per fortuna; non c’è rischio di danneggiare il mio superstite orecchio buono. «Badmaash!» urla mia zia «una famiglia di maniaci e di pervertiti, oh povera me, quale donna ha mai sofferto tanto?»
Un colpo di tosse sulla soglia. Ora sono in piedi e rabbrividisco per il male. Anche Pia è in piedi, con i capelli che le grondano dalla testa come lacrime. Mary Pereira è sulla soglia, tossisce, c’è lo scarlatto dell’imbarazzo su tutta la sua pelle, ha in mano un pacco avvolto in carta da imballaggio.
«Vedi, baba, cosa avevo dimenticato» riesce finalmente a dire. «Ormai sei un uomo; guarda: tua madre ti ha mandato due paia di bei pantaloni bianchi lunghi.»
Dopo essermi lasciato così incautamente trasportare mentre cercavo di consolare mia zia, mi divenne difficile rimanere nell’appartamento di Marine Drive. Lunghe e intense telefonate furono fatte a intervalli regolari nel corso dei giorni successivi; Hanif cercava di convincere qualcuno, mentre Pia gesticolava che ora forse, dopo cinque settimane... e una sera quando tornai da scuola, mia madre venne a prendermi sulla nostra vecchia Rover e il mio primo esilio ebbe fine.
Né durante il ritorno a casa, né mai, mi furono date spiegazioni per questo esilio. Decisi quindi che non avrei fatto domande. Ora portavo i calzoni lunghi; ero dunque un uomo e di conseguenza dovevo sopportare le mie afflizioni. Dissi a mia madre: «Il dito non va tanto male. Hanif mamu mi ha insegnato a tener la penna in modo diverso, e così riesco a scrivere benissimo». Lei sembrava molto concentrata nella guida. «È stata una bella vacanza» aggiunsi cortesemente. «Grazie per avermi mandato.»
«Oh bambino,» proruppe lei «con quella faccia che sembra il sole quando nasce, cosa posso dirti? Sii buono con tuo padre; non è felice in questi giorni.» Dissi che avrei cercato d’essere buono; lei sembrò perdere il controllo del volante e sfiorammo pericolosamente un autobus. «Che razza di mondo» disse dopo un po’. «Accadono cose terribili e non sai nemmeno come.»
«Lo so,» assentii «ayah me lo ha detto.» Mia madre mi guardò spaventata, poi scoccò un’occhiataccia a Mary sul sedile posteriore. «Brutta donnaccia,» gridò «cosa gli hai raccontato?» Le riferii le storie di Mary sugli eventi miracolosi e queste terribili voci parvero calmare mia madre. «Cosa puoi sapere tu,» sospirò «sei solo un bambino.»
Che cosa so, amma? So del Pioneer Café! D’un tratto, mentre andavamo a casa, mi sentii nuovamente invadere dal recente desiderio di vendicarmi della mia perfida madre, un desiderio sbiadito nel brillante sfolgorio del mio esilio, ma che ora riaffiorava e si univa all’odio neonato per Homi Catrack. Questa libidine a due teste era il demone che mi possedeva e che mi spinse a fare la cosa peggiore della mia vita... «Andrà tutto bene» stava dicendo mia madre. «Aspetta e vedrai.»
Sì, madre.
Mi accorgo di non aver detto nulla, in tutto questo capitolo, sulla Conferenza dei bambini della mezzanotte; ma, a dire la verità, non mi sembravano molto importanti in quei giorni. Avevo altro per la mente.