Om Hare Khusro Hare Khusrovand Om
Sappiate, increduli, che nelle buie Mezzenotti degli SPAZI CELESTIALI in un tempo prima del Tempo c’è la sfera del Beato KHUSROVAND!!! Persino gli SCIENZIATI MODERNI affermano ora di aver MENTITO per generazioni al fine di nascondere alla Gente che ha il diritto di conoscerla l’Incontestabile AUTENTICA esistenza di questa SACRA DIMORA DELLA VERITÀ!!! Autorevoli intellettuali di Tutto il Mondo, persino in America, parlano della COSPIRAZIONE ANTIRELIGIOSA di rossi, EBREI ecc. per nascondere queste INFORMAZIONI VITALI! Il Velo ora si alza. Il Beato SIGNORE KHUSRO giunge con Prove inconfutabili. Leggete e credete!
Sappiate che nel Khusrovand REALMENTE ESISTENTE vivevano Santi la cui Purezza Spirituale era tale che, attraverso la MEDITAZIONE & C. avevano potuto acquisire poteri PER IL BENE DI TUTTI, poteri Di là da Ogni Immaginazione! VEDEVANO ATTRAVERSO l’acciaio e sapevano PIEGARE TRAVI coi DENTI!!!
* * * ORA! * * *
Per la 1ª Volta, questi poteri possono essere usati
al Vostro Servizio! Il signore KHUSRO è
* * * QUI! * * *
Udite della Caduta di Khusrovand; come il DIAVOLO ROSSO Bhimutha (NERO sia il suo nome) scatenò una terribile Grandinata di Meteoriti (che fu registrata dagli OSSERVATORI MONDIALI, ma mai Spiegata)... una PIOGGIA DI PIETRE talmente orribile che la Bella Khusrovand fu RIDOTTA IN ROVINA & i suoi Santi DISTRUTTI!
Ma il nobile Juraell e la bella Khalila furono saggi. SACRIFICANDO SE STESSI in un’estasi d’Arte Kundalina, salvarono l’ANIMA del loro figlio non ancora nato, il SIGNORE KHUSRO. Pervenendo a una Vera Unità in una Suprema Estasi Yoga (i cui poteri sono ora RICONOSCIUTI IN TUTTO IL MONDO!) trasformarono le loro Nobili Anime in un Raggio Scintillante di FORZA VITALE ENERGIA LUCE KUNDALINA, di cui il ben noto LASER di oggi è soltanto una volgare imitazione & Copia. Su questo RAGGIO, corse via l’Anima del non ancora nato Khusro, attraversando gli ABISSI SENZA FONDO dello Spazio-Tempo Celeste, finché per NOSTRA FORTUNA! arrivò nel nostro Duniya (Mondo) & si piantò nel Ventre di un’umile signora Parsi di Buona Famiglia.
Così il Bimbo nacque & era di vera Bontà & di Ineguagliata INTELLIGENZA (SMENTENDO la MENZOGNA che tutti siamo Nati Eguali! È un Imbroglione eguale a un Santo? NO NATURALMENTE!!!). Ma per qualche Tempo la sua vera natura rimase Nascosta, finché, mentre impersonava un Santo della Terra nella rappresentazione di un DRAMMA (e IMPORTANTI CRITICI hanno detto: la Purezza della Sua Interpretazione. È Persino Incredibile), si SVEGLIÒ & seppe chi egli ERA. Ora ha assunto il suo Vero Nome,
SIGNORE
KHUSRO
KHUSROVANI
* BHAGWAN *
& ha cominciato umilmente con Cenere sulla sua Fronte d’Asceta a risanare Malattie e a por Fine a Siccità & a COMBATTERE le Legioni di Bhimutha ovunque possano Manifestarsi. TEMETE infatti! La PIOGGIA DI PIETRE di Bhimutha colpirà ANCHE NOI! Non date ascolto alle BUGIE dei politici poeti rossi &cetera. DATE FIDUCIA all’Unico Vero Signore
KHUSRO KHUSRO KHUSRO
KHUSRO KHUSRO KHUSRO
& mandate Offerte a Cas. Post. 555, Posta Centrale, Bombay–1.
BENEDIZIONI! BELLEZZA! VERITÀ!!!
Om Hare Khusro Hare Khusrovand Om
Ciro-il-Grande aveva avuto come padre un fisico nucleare e come madre una fanatica religiosa la cui fede si era inacidita, dopo essere stata per tanti anni repressa dalla razionalità dispotica del suo Dubash; e quando il padre di Cyrus morì soffocato da un’arancia cui sua madre aveva dimenticato di togliere i semi, la signora Dubash si dedicò al compito di cancellare il proprio defunto marito dalla personalità del figlio – di rifare Cyrus a sua stessa strana immagine. Allora Ciro il grandotto, Nato biscotto, Nel millenovecentoquarantotto – Cyrus il fenomeno della scuola – Cyrus-Santa Giovanna nel dramma di Shaw – tutti questi Cyrus cui ci eravamo abituati, con cui eravamo cresciuti, sparirono; e al loro posto emerse la figura spampanata, quasi bovinamente placida, del Signore Khusro Kusrovand. A dieci anni Cyrus scomparve dalla scuola Cathedral, ed ebbe inizio l’ascesa meteorica del più ricco guru indiano. (Ci sono tante versioni dell’India quanti sono gli indiani; e, in confronto all’India di Cyrus, la mia versione personale sembra quasi materialistica.)
Perché permise che questo accadesse? Perché manifesti tappezzarono la città e inserzioni riempirono i giornali, senza il minimo squittio del bambino-genio?... Perché Cyrus (anche se ci teneva conferenze, non prive di malizia, sulle Parti di un Corpo di Donna) era sicuramente il più malleabile dei ragazzi, e non si sarebbe mai sognato di contrastare sua madre. Per sua madre indossò una sorta di gonna di broccato e un turbante; in nome del dovere filiale, permise a milioni di devoti di baciargli il mignolo. Guidato dall’amor materno, divenne realmente il Signore Khusro, il più acclamato bambino-santo della storia; dopo poco tempo già lo osannavano folle di mezzo milione di persone e gli attribuivano miracoli; chitarristi americani venivano a sedersi ai suoi piedi, e tutti si portavano appresso il libretto degli assegni. Il signore Khusrovand si procurò contabili e paradisi fiscali e un panfilo di lusso chiamato l’Astronave Khusrovand e un apparecchio privato – l’Aereo astrale del Signore Khusro. E in questo ragazzo che sorrideva debolmente e spargeva benedizioni... in un punto celato per sempre dall’ombra spaventosamente efficiente di sua madre (era vissuta, dopo tutto, nella stessa casa delle donne Narlikar; sino a che punto le conosceva? Quanta della loro spaventosa competenza era filtrata in lei?), s’annidava lo spettro di un ragazzo che era stato mio amico.
«Quel Signore Khusro?» domanda Padma, sbalordita. «Vuoi dire quello stesso mahaguru che è annegato in mare l’anno scorso?» Sì, Padma; non sapeva camminare sull’acqua; e a ben poche delle persone che hanno avuto contatti con me è stata concessa una morte naturale... Lasciate che vi confessi che ero un po’ seccato dall’apoteosi di Cyrus. «Sarebbe dovuta spettare a me» pensavo addirittura. «Sono io il bambino magico; non solo mi è stata sottratta la mia preminenza in famiglia, ma anche la mia vera profonda natura.»
Padma: io non sono mai diventato un “mahaguru”; mai milioni si sono seduti ai miei piedi; ed è stata colpa mia, perché un giorno, tanti anni fa, sono andato a sentire la conferenza di Cyrus sulle Parti di un Corpo di Donna.
«Cosa?» Padma scuote il capo, perplessa. «Cos’è quest’altra storia?»
Il fisico nucleare Dubash possedeva una bella statuetta di marmo – un nudo femminile – e suo figlio, con l’aiuto di questa figurina, diede competenti lezioni di anatomia femminile a un pubblico di ridacchianti ragazzi. Non gratis; Ciro-il-Grande si faceva pagare. In cambio dell’anatomia, chiedeva fumetti – e io, in tutta innocenza, gli diedi una copia del più prezioso degli album di Superman, quello che contiene l’episodio base, con l’esplosione del pianeta Krypton e la nave-razzo sulla quale suo padre Jor-El lo spedisce nello spazio, finché non sbarca sulla terra e non viene adottato dai buoni e miti Kent... Nessun altro lo conosce? In tutti questi anni nessuno ha capito che ciò che fece la signora Dubash fu una rielaborazione e una reinvenzione del più potente dei miti moderni – la leggenda dell’avvento del superuomo? Io vidi le masse strombazzare l’avvento del Signore Khusro Khusrovand Bhagwan; e mi trovai, ancora una volta, costretto ad accettare la responsabilità degli eventi del mio mondo turbolento e favoloso.
Quanto ammiro i muscoli delle gambe della mia premurosa Padma! Eccola accovacciata, a poche decine di centimetri dal mio tavolo, con il sari rimboccato alla maniera di una pescatrice. I muscoli dei polpacci non mostrano traccia di sforzo; quelli delle cosce, che fremono tra le pieghe del sari, rivelano un vigore encomiabile. Talmente forte da poter restare accovacciata in eterno, sfidando contemporaneamente la gravità e i crampi, la mia Padma ascolta senza impazienza il mio lungo racconto; oh possente lavoratrice della salamoia! Quale rassicurante solidità, quale confortante permanenza nei suoi bicipiti e tricipiti... la mia ammirazione s’estende infatti anche alle sue braccia, che potrebbero sconfiggere le mie in un batter d’occhio, e alle quali, quando m’avvolgono di notte in futili abbracci, non c’è modo di sfuggire. Ormai superata la crisi, coesistiamo in perfetta armonia; io racconto, lei mi ascolta raccontare: lei cura, io accetto di buona grazia le sue cure. Sono perfettamente soddisfatto dei muscoli che mai si lamentano di Padma Mangroli, inspiegabilmente più interessata a me che alle mie storie.
Perché ho voluto dilungarmi sulla muscolatura di Padma: in questi giorni è a questi muscoli, quanto a chiunque altro o a qualsiasi altra cosa (per esempio a mio figlio, che non ha ancora imparato a leggere) che sto raccontando la mia storia. Perché ora procedo a velocità vertiginosa; gli errori sono dunque possibili e le esagerazioni e gli striduli cambiamenti di tono; sto cercando di sconfiggere le mie incrinature, ma so che sbagli sono già stati commessi e che, con l’accelerare del mio sfacelo (la mia velocità di scrittura ha già problemi per rimanere all’altezza), aumenta il rischio dell’inattendibilità... e in queste condizioni imparo a usare come guida i muscoli di Padma. Quando si annoia, scorgo nelle sue fibre le increspature del disinteresse; quando non è convinta, compare un tic sulle sue guance. La danza dei suoi muscoli mi aiuta a rimanere in carreggiata; perché in un’autobiografia, come in qualsiasi opera letteraria, ciò che è realmente accaduto è meno importante di ciò che l’autore convince i suoi lettori a credere... Padma, che ha accettato la storia di Ciro-il-Grande, mi dà il coraggio di continuare a correre, sino al periodo peggiore della mia vita di undicenne (il peggio, infatti, era ancora da venire) – cioè all’agosto e al settembre, quando le rivelazioni scorrevano rapide più del sangue.
I cartelli che si scambiavano inchini erano stati appena smantellati quando entrarono in azione le squadre dei demolitori delle donne Narlikar; Villa Buckingham era avvolta nella turbinosa polvere dei moribondi palazzi di William Methwold. Celati da questa polvere alla sottostante Warden Road, eravamo però ancora soggetti ai telefoni; e fu il telefono che c’informò, con la voce tremula di mia zia Pia, del suicidio del mio amato zio Hanif. Privato dello stipendio che riceveva da Homi Catrack, mio zio aveva portato la sua voce tonante e le sue ossessioni per i cuori e la realtà sul tetto della casa di Marine Drive; ed era avanzato d’un passo nella brezza marina della sera, spaventando talmente i mendicanti (quando cadde) che essi smisero di fingersi ciechi e corsero via urlando... In morte come in vita, Hanif Aziz sposò la causa della verità e mise in fuga l’illusione. Aveva quasi trentaquattro anni. Delitto genera morte; uccidendo Homi Catrack avevo ucciso anche mio zio. Era colpa mia; e le morti non erano ancora finite.
La famiglia si riunì a Villa Buckingham: da Agra, Aadam Aziz e la Reverenda madre; da Delhi, mio zio Mustapha, il pubblico funzionario che aveva talmente perfezionato l’arte di trovarsi d’accordo coi superiori che essi avevano cessato d’ascoltarlo, e quindi non lo promossero mai; e sua moglie Sonia per metà iraniana e i loro bambini, ridotti a forza di botte a una tale irrilevanza che non riesco neanche a ricordare quanti fossero; e dal Pakistan l’amareggiata Alia e persino il generale Zulfikar e mia zia Emerald, che arrivarono con ventisette bagagli e due servi, e non cessarono mai di guardare l’orologio e di domandare che giorno fosse. Venne anche il loro figlio Zafar. E, a completare il cerchio mia madre convinse Pia ad alloggiare in casa nostra, «almeno per i quaranta giorni del lutto, sorella mia».
Per quaranta giorni, fummo assediati dalla polvere; polvere che strisciava sotto gli asciugamani bagnati che mettevamo intorno alle finestre, polvere che seguiva subdolamente in casa ogni partecipante al lutto, polvere che filtrava persino attraverso i muri per restar sospesa a mezz’aria come un informe fantasma, polvere che attutiva i suoni delle lamentazioni formali e anche i pettegolezzi micidiali dei parenti afflitti; i resti della Proprietà Methwold si posavano su mia nonna e la spronavano a grande furore; irritavano le narici tirate del generale Zulfikar dal viso di Pulcinella e lo costringevano a starnutirsi sul mento. Nella spettrale nebbiolina della polvere ci sembrava a volte di discernere le forme del passato, il miraggio della sbriciolata pianola di Lila Sabarmati o delle sbarre da prigione alla finestra della cella di Toxy Catrack; la statuetta nuda di Dubash danzava in forma di polvere nelle nostre stanze e i manifesti delle corride di Sonny Ibrahim ci fecero visita trasformati in nuvole. Le donne Narlikar si erano trasferite altrove mentre i bulldozer svolgevano il loro lavoro; eravamo dunque soli nella tempesta di polvere, che dava a noi tutti un aspetto di mobili dimenticati, come se fossimo stati sedie e tavoli abbandonati per decenni senza neanche un lenzuolo per coprirci; sembravamo i fantasmi di noi stessi. Eravamo una dinastia nata da un naso, il mostro aquilino sul viso di Aadam Aziz, e la polvere, penetrando nelle nostre narici in questo periodo d’afflizione, distrusse ogni riservatezza, corrose le barriere che permettono alle famiglie di sopravvivere; nella tempesta di polvere dei palazzi moribondi si dissero e si videro e si fecero cose da cui nessuno di noi riuscì più a riprendersi.
Cominciò la Reverenda madre, forse perché gli anni l’avevano ingrossata al punto da farla assomigliare al monte Sankara Acharya della sua natia Srinagar, e offriva quindi agli attacchi della polvere la superficie più vasta. Dal suo corpo colossale salì rombando un rumore di valanga che, tradotto in parole, divenne un feroce attacco a zia Pia, la vedova inconsolabile. Avevamo tutti notato che la mia mumani si stava comportando in maniera insolita. Eravamo tacitamente convinti che un’attrice del suo livello avrebbe risposto in grande stile alla sfida della vedovanza; eravamo inconsapevolmente ansiosi di assistere al suo dolore, aspettandoci di vedere una perfetta interprete tragica che orchestrava la propria calamità, pregustando un raga di quaranta giorni in cui virtuosismo ed eleganza, sofferenza ululante e tenera disperazione si sarebbero fusi nelle proporzioni esatte dell’arte; ma Pia rimaneva immobile, a occhi asciutti e deludentemente calma. Amina Sinai e Emerald Zulfikar piangevano e si strappavano i capelli, sforzandosi così di scatenare le potenzialità di Pia; ma alla fine, quando nulla sembrava riuscire a smuoverla, fu la Reverenda madre a perdere la pazienza. La polvere penetrò nel suo deluso furore e ne accentuò l’asprezza. «Quella donna, comesichiama,» tuonò la Reverenda madre «non vi ho ancora parlato di lei? Mio figlio, Allah, sarebbe potuto diventare qualsiasi cosa; ma no, comesichiama, lei ha dovuto rovinargli la vita; e lui ha dovuto buttarsi da un tetto, comesichiama, per liberarsene.»
Lo aveva detto; impossibile ritrattare. Pia rimase immobile come pietra; le mie viscere tremavano come un budino di farina gialla. La Reverenda madre continuò torva: «Finché quella donna non mostra un po’ di rispetto per la memoria di mio figlio comesichiama, finché non tira fuori le vere lacrime di una moglie, non porterò più cibo alle mie labbra. È una vergogna e uno scandalo, comesichiama, vederla lì seduta con l’antimonio negli occhi al posto delle lacrime!». La casa risonava degli echi delle sue guerre d’un tempo con Aadam Aziz. E fino al ventesimo dei quaranta giorni, tememmo che mia nonna sarebbe morta di fame e che ci sarebbe toccato ricominciare da capo i quaranta giorni. Lei se ne stava tutta impolverata sul suo letto; noi aspettavamo spaventati.
Fui io a spezzare questa situazione di stallo tra nonna e zia; posso quindi legittimamente affermare di aver salvato una vita. Il ventesimo giorno, andai a cercare Pia Aziz, che se ne stava nella sua camera al pianterreno come una cieca; il pretesto della mia visita fu di chiederle goffamente scusa del mio passo falso nell’appartamento di Marine Drive. Dopo una gelida pausa, Pia si decise a parlare. «Sempre melodramma» disse con voce neutra. «Nei membri della sua famiglia, nel suo lavoro. E lui è morto perché odiava il melodramma; era per questo che non volevo piangere.» A quell’epoca non capii; ora però sono certo che Pia Aziz avesse perfettamente ragione. Privato dei mezzi di sostentamento dal disprezzo per le emozioni superficiali del cinema di Bombay, mio zio aveva fatto un passo avanti dal bordo di un tetto; fu il melodramma a ispirare (forse anche a infettare) il suo tuffo finale verso il suolo. Rifiutandosi di piangere, Pia rendeva onore alla sua memoria... ma lo sforzo d’ammetterlo aprì una breccia nelle mura del suo autocontrollo. La polvere la fece starnutire; lo starnuto le riempì gli occhi di lacrime; e ora le lacrime non finivano più e noi tutti assistemmo finalmente all’esibizione tanto sperata, perché una volta che cominciarono a scorrere fluirono come le acque della Flora Fountain e lei non fu più in grado di resistere al proprio talento; regolò quel diluvio da grande attrice, introducendo temi dominanti e motivi sussidiari, percuotendosi il seno meraviglioso in modo da far realmente soffrire chi guardava, ora stringendolo, ora percuotendolo... si strappò gli indumenti e i capelli. Era un tripudio di lacrime e convinse la Reverenda madre a mangiare. Dal e pistacchi fluirono copiosi in mia nonna, mentre da mia zia straripava acqua salata. E Naseem Aziz calò su Pia, abbracciandola, trasformando l’assolo in un duetto, mescolando la musica della conciliazione con i toni insopportabilmente belli del cordoglio. Ci prudevano i palmi per una voglia indicibile d’applaudire. Ma il meglio doveva ancora venire, perché Pia, l’artista, portò i suoi epici sforzi a un finale superlativo. Posando il capo in grembo alla suocera, disse, con una voce piena di sottomissione e di rassegnazione: «Mamma, lascia che la tua indegna figlia ti dia finalmente ascolto; dimmi che cosa devo fare e io lo farò». E la Reverenda madre, lacrimando: «Figlia, tuo padre Aziz e io andremo presto a Rawalpindi; trascorreremo la nostra vecchiaia accanto alla nostra figlia minore, alla nostra Emerald. Verrai anche tu e si comprerà un distributore di benzina». Fu così che il sogno della Reverenda madre cominciò ad avverarsi e che Pia Aziz accettò d’abbandonare il mondo dei film per quello dei combustibili. Mio zio Hanif, pensai, avrebbe probabilmente approvato.
In quei quaranta giorni la polvere agì su noi tutti; rese irascibile e villano Ahmed Sinai, al punto che non volle più stare in compagnia dei parenti acquisiti e cominciò a mandare Alice Pereira con messaggi per gli afflitti, messaggi che urlava anche dal suo ufficio: «Cercate di far meno baccano! Come faccio a lavorare in una simile baraonda?». Indusse il generale Zulfikar ed Emerald a consultare costantemente calendari e orari delle linee aeree, mentre Zafar, loro figlio, si vantava con la Scimmia d’ottone di poter convincere il padre a combinare un matrimonio tra loro due. «Dovresti ritenerti fortunata» disse questo presuntuoso cugino a mia sorella. «Mio padre è un grand’uomo nel Pakistan.» Ma, benché Zafar avesse ereditato l’aspetto paterno, la polvere aveva ingorgato le energie della Scimmia, togliendole la voglia di battersi. Intanto mia zia Alia diffondeva nell’aria la sua antica polverosa delusione e i miei parenti più assurdi, la famiglia di zio Mustapha, sedevano accigliati negli angoli, dimenticati, come al solito, da tutti gli altri; i baffi di Mustapha Aziz, fieramente incerati e con le punte all’insù al momento del suo arrivo, si erano da tempo afflosciati sotto la deprimente influenza della polvere.
E poi, il ventiduesimo giorno del periodo di lutto, mio nonno Aadam Aziz vide Dio.
Aveva sessantott’anni allora – sempre un decennio più del secolo. Ma sedici anni privi d’ottimismo avevano richiesto un pesante tributo, i suoi occhi erano ancora azzurri, ma la sua schiena era curva. Trascinandosi per Villa Buckingham con una papalina ricamata e una giacca-chugha lunga sino ai piedi nonché ricoperto da un sottile strato di polvere – masticava distrattamente carote crude e faceva scorrere sottili fili di saliva lungo i contorni brizzolati del suo mento. Man mano che lui declinava, la Reverenda madre diventava più grossa e più robusta; lei che una volta aveva miseramente gemuto alla vista del mercurocromo, pareva ora nutrirsi della sua debolezza, come se il loro matrimonio fosse stata una di quelle unioni mitiche in cui i succubi appaiono agli uomini in forma di damigelle innocenti e, dopo averli attratti al letto nuziale, riacquistano il loro autentico orribile aspetto e cominciano a inghiottirne l’anima... mia nonna, in quel periodo, aveva ormai un paio di baffi lussureggianti quanto i peli afflosciati dalla polvere sul labbro superiore del suo unico figlio superstite. Sedeva sul letto a gambe incrociate, spalmandosi sulle labbra un fluido misterioso che s’induriva intorno ai peli e veniva poi strappato da una mano decisa e violenta; ma il rimedio serviva soltanto ad aggravare il male.
«È diventato di nuovo un bambino, comesichiama,» disse la Reverenda madre ai figli di mio nonno «e Hanif gli ha dato il colpo di grazia.» Ci avvertì che da qualche tempo aveva anche delle visioni. «Parla con persone che non ci sono» sussurrò rumorosamente, mentre lui vagava per la stanza succhiandosi i denti. «E quanto grida, comesichiama! In piena notte!» Cominciò a imitarlo: «Oh, Tai! Sei tu?». Raccontò a noi bambini del barcaiolo e del Colibrì e della rani di Cooch Naheen. «Il pover’uomo ha vissuto troppo, comesichiama. Nessun padre dovrebbe veder morire suo figlio...» E Amina scuoteva il capo in segno di simpatia, non immaginando che Aadam Aziz le avrebbe lasciato proprio questa eredità – che lei pure, nei suoi ultimi giorni, avrebbe ricevuto visite di cose che non avevano nessun motivo di tornare.
Non potevamo usare i ventilatori sul soffitto a causa della polvere; il sudore scorreva quindi lungo il viso del mio sconvolto nonno e lasciava strisce di fango sulle sue guance. A volte agguantava chiunque gli passasse vicino e gli parlava con estrema lucidità: «Questi Nehru non saranno contenti fin quando non si saranno proclamati re ereditari!». O, sbavando sul viso di un imbarazzatissimo generale Zulfikar: «Oh, povero Pakistan! Come è mal servito dai suoi governanti!». Ma in altri momenti sembrava credersi in un negozio di gemme e mormorava: «... Sì, c’erano smeraldi e rubini...». La Scimmia mi sussurrò: «Sta per morire il nonno?».
Ciò che filtrò in me da Aadam Aziz: una certa vulnerabilità alle donne, ma anche quella che ne era la causa, il buco al centro del suo corpo, causato dalla sua incapacità (che è anche mia) di credere o di non credere in Dio. E anche qualcos’altro – qualcosa che io vidi, a undici anni, prima che gli altri se ne accorgessero. Mio nonno aveva cominciato a incrinarsi.
«Nella testa?» domanda Padma. «Vuoi dire al cervello?»
Il barcaiolo Tai disse: «Il ghiaccio è sempre in attesa, Aadam baba, appena sotto la pelle dell’acqua». Io vidi le incrinature negli occhi – un delicato traforo di linee incolori su uno sfondo azzurro, vidi una rete di crepe che si estendeva sotto la sua pelle coriacea, e alla domanda della Scimmia risposi: «Credo di sì». Prima che finissero i quaranta giorni del lutto, la pelle di mio nonno aveva cominciato a spaccarsi e a squamarsi e a staccarsi; riusciva appena ad aprir la bocca per mangiare, tali erano i tagli negli angoli delle labbra; e i suoi denti cominciavano a cadere come mosche colpite dal flit. Ma una morte per incrinatura può essere lenta; e trascorse molto tempo prima che noi sapessimo delle altre crepe, della malattia che gli stava rosicchiando le ossa fino a ridurre in polvere il suo scheletro nel sacco della sua pelle segnata dalle intemperie.
Padma sembra improvvisamente spaventata: «Cosa stai dicendo? Mi stai raccontando che anche tu... cos’è questa cosa senza nome che può divorare le ossa di un uomo? È forse...».
Non ho tempo di fermarmi; non ho tempo per la simpatia o per lo spavento; mi sono già spinto più in là di quanto avrei dovuto. Ritirandomi un poco all’ultimo momento, devo accennare anche a un’altra cosa che filtrò da Aadam Aziz in me, perché il ventitreesimo giorno del periodo di lutto, chiese all’intera famiglia di riunirsi in quella stessa stanza dei vasi di vetro (che non era più necessario nascondere a mio zio) e dei cuscini e dei ventilatori immobilizzati, dove io avevo un tempo annunciato le mie personali visioni... La Reverenda madre aveva detto: «È diventato di nuovo un bambino»; e come un bambino, mio nonno annunciò che, tre settimane dopo aver saputo della morte di un figlio che credeva vivo e in buona salute, aveva visto coi suoi occhi quel Dio nella cui morte aveva cercato per tutta la vita di credere. E, come un bambino, non venne creduto. Tranne che da una persona... «Sì, ascoltate» disse mio nonno, con una voce che era solo una pallida imitazione dei suoi toni rimbombanti d’un tempo. «Sì, rani? Ci sei? E tu Abdullah? Siediti, Nadir, c’è una grossa notizia – e dov’è Ahmed? Alia vorrà che sia presente anche lui... Dio, figli miei; Dio, che io ho combattuto tutta la vita. Oskar? Ilse? No, naturalmente lo so che sono morti. Voi mi credete vecchio, forse anche rimbecillito ma io ho visto Dio!» E lentamente, tra mille deviazioni e divagazioni, la storia viene fuori: a mezzanotte, mio nonno si svegliò nella sua stanza buia. C’era anche qualcun altro – qualcuno che non era sua moglie. La Reverenda madre russava nel proprio letto. Ma qualcuno c’era. Qualcuno coperto di polvere lucente, illuminato dalla luna. E Aadam Aziz: «Ehi, Tai? sei tu?». E la Reverenda madre, borbottando nel sonno: «Dormi, marito, non pensare a queste...». Ma il qualcuno, il qualcosa, grida con voce forte e allarmante (e allarmata): «Gesù Cristo Onnipotente!». (Tra i vasi di vetro tagliato, mio nonno ride, eh-eh, per scusarsi di aver menzionato il nome di questo infedele.) «Gesù Cristo Onnipotente!» e mio nonno guarda e vede, sì, che ci sono buchi sulle mani, e fori sui piedi, come se una volta fossero stati su una... Ma ora si sta strofinando gli occhi e scuote la testa e chiede: «Chi? Qual è il nome? Cosa hai detto?». E l’apparizione, allarmante-allarmata: «Dio! Dio!». E, dopo una pausa: «Non credevo che tu potessi vedermi».
«Ma io Lo vidi» dice mio nonno sotto gli immobili ventilatori. «Sì, non posso negarlo, Lo vidi...» E l’apparizione: «Tu sei quello cui è morto un figlio»; e mio nonno, con un gran dolore nel petto: «Perché? Perché è successo?». Al che la creatura, resa visibile soltanto dalla polvere: «Dio ha le sue ragioni, vecchio; è la vita, capisci?».
La Reverenda madre ci mandò via tutti. «Il vecchio non sa quel che dice, comesichiama. È terribile che i capelli grigi possano far bestemmiare un uomo!» Ma Mary Pereira uscì con un viso pallido come un lenzuolo; Mary sapeva chi aveva visto Aadam Aziz – chi, decomposto dalla propria responsabilità per il suo delitto, aveva buchi nelle mani e nei piedi; chi aveva avuto il tallone trafitto da un serpente; chi, morto in una vicina torre dell’orologio, era stato scambiato per Dio.
A questo punto posso anche concludere la storia di mio nonno; mi sono già spinto molto avanti, e più tardi forse non se ne presenterà più l’occasione... In qualche angolo degli abissi della senilità di mio nonno, che mi ricordava inevitabilmente la follia del professor Schaapsteker del piano di sopra, mise radici la dolorosa teoria che Dio, con il proprio atteggiamento disinvolto di fronte al suicidio di Hanif, avesse dimostrato la sua colpevolezza in questa faccenda; Aadam afferrò il generale Zulfikar per il suo bavero militare e gli sussurrò: «È perché io non ho mai creduto che mi ha sottratto il figlio!». E Zulfikar: «Ma no, dottor sahib, non deve agitarsi così...». Ma Aadam Aziz non dimenticò mai la sua visione; anche se i particolari della divinità che lui aveva visto divennero sempre più confusi nella sua mente, lasciandovi soltanto un appassionato sbavante desiderio di vendetta (una voglia anch’essa comune a tutti e due)... e alla fine dei quaranta giorni di lutto si rifiutò di trasferirsi nel Pakistan (come aveva progettato la Reverenda madre) perché era un paese costruito specificamente per Dio; e negli anni che gli rimasero da vivere, si acquistò spesso discredito entrando a passi malcerti e col suo bastone da vecchio in templi e moschee, borbottando imprecazioni e picchiando tutti i fedeli o i sant’uomini alla sua portata. Ad Agra lo tolleravano per rispetto del suo passato; i vecchi della bottega di paan di Cornwallis Road, giocando a centrar-la-sputacchiera, rievocavano con compassione che cosa era stato il dottor sahib. La Reverenda madre dovette cedere proprio per questa ragione – l’iconoclastia del suo rimbambimento avrebbe suscitato scandalo in un paese dove non lo conoscevano.
Dietro il rimbecillimento e gli scatti di collera, le incrinature continuavano a estendersi; la malattia rosicchiava costantemente le sue ossa e l’odio divorava tutto il resto. Ma morì soltanto nel 1964. Accadde così: il mercoledì 25 dicembre 1963 – il giorno di Natale! – la Reverenda madre si accorse svegliandosi che il marito era scomparso. Uscita nel cortile di casa, tra il sibilare delle oche e le pallide ombre dell’alba, chiamò un servo; e venne a sapere che il dottor sahib era andato in ricsciò alla stazione ferroviaria. Ma quando ci arrivò, il treno era già partito; e fu così che mio nonno, seguendo qualche misterioso impulso, iniziò il suo ultimo viaggio, per concludere la propria storia dove essa (e anche la mia) era cominciata, in una città circondata da montagne e stesa sulle rive d’un lago.
La valle era nascosta in un guscio d’uovo di ghiaccio; le montagne si erano avvicinate, per ringhiare come mascelle rabbiose intorno alla città sul lago... inverno a Srinagar; inverno nel Kashmir. Il venerdì 27 dicembre un uomo che corrispondeva ai connotati di mio nonno venne visto, sbavante e avvolto in un chugha, nei pressi della moschea Hazratbal. Alle quattro e quarantacinque del sabato mattina lo haji Muhammad Khalil Ghanai notò che dal Sancta sanctorum della moschea era stata rubata la più preziosa reliquia della valle: il sacro capello del profeta Maometto.
Fu lui? Non fu lui? Se fu lui, come mai non entrò nella moschea, col bastone in mano, a picchiare i fedeli come era sua abitudine? Se non fu lui, allora perché? Si parlò di un complotto del governo centrale per “demoralizzare i musulmani del Kashmir”, rubando il capello sacro; ma si parlò anche di agenti provocatori pakistani, che avrebbero sottratto la reliquia per fomentare disordini... Ma è vero? O no? Questo curioso episodio ebbe realmente connotazioni politiche o fu solo il penultimo tentativo di vendetta su Dio da parte di un padre che aveva perso il figlio? Per dieci giorni non si cucinò cibo in nessuna casa musulmana; ci furono tumulti e incendi di auto; ma mio nonno era ormai al disopra della politica e non risulta una sua partecipazione a cortei. Era un uomo con una missione; e ciò che sappiamo è che il 1° gennaio 1964 (un mercoledì, una settimana esatta dopo la sua partenza da Agra), si avviò verso la collina che i musulmani chiamano erroneamente il Takht-e-Sulaiman, il Trono di Salomone, e che ha sulla vetta un’antenna della radio, ma anche la nera bolla del tempio dell’Acharya Sankara. Fu lì che si arrampicò mio nonno, ignorando la disperazione della città, mentre dentro di lui la malattia rosicchiava paziente le sue ossa. Non fu riconosciuto.
Il dottor Aadam Aziz (tornato da Heidelberg) morì cinque giorni prima che il governo annunciasse che le sue imponenti ricerche dell’unico capello della testa del Profeta erano state coronate dal successo. Quando i più santi sant’uomini dello Stato si radunarono per autenticare la reliquia, mio nonno non era più in grado di dir loro la verità. (Se si erano sbagliati... ma io non so rispondere alle domande che ho fatto.) Fu arrestato per il delitto – e poi rilasciato per ragioni di salute – un certo Abdul Rahim Bande; ma forse mio nonno, se fosse sopravvissuto, avrebbe potuto gettare sull’episodio una luce più strana... A mezzogiorno del 1° gennaio, Aadam Aziz arrivò davanti al tempio di Sankara Acharya. Lo videro alzare il suo bastone da passeggio; all’interno del tempio, le donne che compivano il rito della puja davanti al linga di Shiva, indietreggiarono – come altre donne erano un tempo indietreggiate di fronte alla collera di un altro medico ossessionato dai tetrapodi; ma poi presero il sopravvento le incrinature e le sue gambe cedettero mentre le ossa si disintegravano, e l’effetto della caduta fu di sbriciolare il resto del suo scheletro tanto da renderne assolutamente impossibile la ricostituzione. Lo identificarono grazie alle carte che aveva in una tasca del suo chugha: una fotografia del figlio e una lettera scritta solo a metà (ma per fortuna con l’indirizzo corretto) per la moglie. Il corpo, troppo fragile per reggere al trasporto, fu sepolto nella valle dove era nato.
Sto guardando Padma; i suoi muscoli hanno cominciato a contrarsi distrattamente. «Pensaci» dico. «È davvero così strano quel che accadde a mio nonno? Paragonalo al semplice fatto di tutto quel sacro trambusto per il furto d’un capello; e poiché esso è vero sino al minimo particolare, la morte di un vecchio in confronto è cosa del tutto normale.» Padma si rilassa; i suoi muscoli mi autorizzano a proseguire. Avendo dedicato troppo tempo ad Aadam Aziz, ho un po’ paura di ciò che bisognerà raccontare ora; ma la rivelazione non vi sarà negata.
Un ultimo fatto: dopo la morte di mio nonno, il Primo ministro Jawaharlal Nehru s’ammalò e non si rimise mai più in salute. La malattia finì per ucciderlo il 27 maggio 1964.
Se non avessi voluto fare l’eroe, il signor Zagallo non mi avrebbe mai strappato i capelli. Se i miei capelli fossero rimasti intatti, Ghiandoloso Keith e Ciccio Perce non mi avrebbero preso in giro; Masha Miovic non mi avrebbe spronato a perdere il dito. E dal dito zampillò sangue che non era né Alfa né Omega e mi mandò in esilio; e nell’esilio mi gonfiai di quella sete di vendetta che portò all’assassinio di Homi Catrack; e se Homi non fosse morto, forse mio zio non sarebbe avanzato d’un passo da un tetto nelle brezze marine; e mio nonno non sarebbe andato nel Kashmir a distruggersi nello sforzo di scalare la collina Sankara Acharya. E mio nonno era stato il fondatore della mia famiglia, e la mia sorte era legata dalla mia data di nascita a quella della nazione, e il padre della nazione era Nehru. La morte di Nehru: posso fare a meno di concludere che fu anch’essa colpa mia?
Ma ora siamo tornati nel 1958; perché nel trentasettesimo giorno del lutto, la verità, che per oltre undici anni si era furtivamente avvicinata alle spalle di Mary Pereira – e quindi anche alle mie – uscì finalmente allo scoperto; la verità nell’aspetto di un uomo molto, molto vecchio, che col suo fetore d’inferno penetrava anche nelle mie narici ingorgate e aveva un corpo privo di dita alle mani e ai piedi e cosparso di bolle e di buchi, salì la nostra collinetta a due piani e si manifestò nella nube di polvere, dove la vide Mary Pereira che stava pulendo le tapparelle di bambù della veranda.
Ecco dunque che l’incubo di Mary si era concretato; ecco, visibile attraverso la coltre di polvere, lo spettro di Joe D’Costa che avanzava verso l’ufficio al pianterreno di Ahmed Sinai! Come se non gli fosse bastato mostrarsi ad Aadam Aziz... «Arré, Joseph,» urlò Mary, lasciando cadere lo strofinaccio «vattene subito! Non venire più qui! Non importunare i sahib coi tuoi problemi! Oh Dio, Joseph, va’, va’, na, mi farai morire!» Ma lo spettro continuava a camminare sul vialetto d’accesso.
Mary Pereira, abbandonando le tapparelle di bambù, lasciandole lì a penzolare tutte di traverso, si precipita nel cuore della casa, dove si butta ai piedi di mia madre – con le grasse manine giunte in un gesto di supplica – «Begum sahiba! Begum sahiba, mi perdoni!» E mia madre, sbalordita: «Che c’è Mary? Come mai sei così agitata?». Ma Mary è di là da qualsiasi dialogo, sta piangendo senza poter controllarsi, e grida: «Oh Dio la mia ora è venuta, mia cara signora, mi lasci solo andar via in pace, non mi mandi in prigione!». E anche: «Undici anni, signora, e mi dica se non ho voluto bene a tutti voi, signora, e a quel ragazzo con la faccia come la luna, ma ora è la fine, sono una donna malvagia, brucerò all’inferno! Funtoosh!» gridò Mary, e ancora: «È tutto finito; funtoosh!».
Io ancora non immaginavo cosa stesse per accadere; neanche quando Mary mi si gettò addosso (ero più alto di lei; le sue lacrime mi bagnarono il collo): «Oh, baba, baba; oggi dovrai sapere una cosa, una cosa terribile che io ho fatto; ma vieni ora...» e la donnina si raddrizzò con immensa dignità «... vi racconterò tutto prima che lo faccia quel Joseph. Begum, bambini, e voi tutte signori e signore, venite nell’ufficio del sahib e ve lo dirò».
Gli annunci pubblici hanno punteggiato la mia vita; Amina in un vicolo di Delhi, Mary in un ufficio senza sole... Mentre l’intera mia famiglia s’accalcava stupefatta dietro di noi, scesi da basso con Mary Pereira, che non voleva abbandonare la mia mano.
Cosa c’era nella stanza con Ahmed Sinai? Cosa aveva dato a mio padre un viso dal quale ginn e denari erano stati scacciati per lasciare il posto a un’espressione di totale sconforto? Che cosa sedeva rannicchiato in un angolo della stanza riempiendo l’aria di un fetore sulfureo? Che cosa, pur avendo forma d’uomo, mancava di dita alle mani e ai piedi; e quale viso pareva gorgogliare come le sorgenti termali della Nuova Zelanda (che avevo visto nel Meraviglioso libro delle meraviglie)?... Non ho tempo di spiegare, perché Mary Pereira ha già cominciato a parlare, svelando un segreto che era rimasto tale per oltre undici anni, strappandoci tutti dal mondo fittizio da lei inventato quando aveva cambiato le etichette coi nomi, costringendoci ad affrontare l’orrore della verità. E in tutto questo tempo, mi teneva stretto, come una madre che protegge il suo bambino, mi difendeva dalla mia famiglia. (Che stava imparando... che io ero... che loro non erano...)
... Fu subito dopo mezzanotte, c’erano fuochi d’artificio per le strade, e folle, il mostro a più teste che ruggiva, l’ho fatto per il mio Joseph, sahib, ma la prego non mi mandi in prigione, guardi, il ragazzo è un bravo ragazzo, sahib, io sono una povera donna sahib, un solo sbaglio, un solo minuto in tanti anni, non in prigione, sahib, io me ne andrò, undici anni ho dato ma me ne andrò subito, sahib, solo che questo è un bravo ragazzo, sahib, non deve mandarlo via, sahib, dopo che per undici anni è stato suo figlio... Oh, ragazzo con quella tua faccia che sembra il sole che spunta, oh Saleem mio quarto-di-luna, devi sapere che tuo padre era Winkie e che anche tua madre è morta...
Mary Pereira corse fuori della stanza.
Ahmed Sinai disse con una voce lontana come un uccello: «Quello lì nell’angolo è il mio vecchio servo Musa che una volta cercò di derubarmi».
(Può un racconto reggere a tanto in così poco tempo? Scocco un’occhiata in direzione di Padma; ha un’aria sbalordita, come un pesce.)
C’era una volta un servo che derubò mio padre, che giurò di essere innocente; che invocò su se stesso la maledizione della lebbra se si fosse rivelato che aveva mentito; e che si rivelò un mentitore. Se n’era andato in disgrazia; ma, come vi avevo detto era una bomba a orologeria, ed era tornato per esplodere. Musa si era in effetti preso la lebbra; ed era tornato attraverso il silenzio degli anni per chiedere perdono a mio padre, desiderando liberarsi della maledizione che lui stesso si era inflitto.
... Qualcuno fu chiamato Dio e non era Dio; qualcun altro fu scambiato per uno spettro e non era uno spettro; e una terza persona scoprì che, benché si chiamasse Saleem Sinai, non era figlio dei suoi genitori.
«Ti perdono» disse Ahmed Sinai al lebbroso. E dal quel giorno guarì da una delle sue ossessioni: non cercò mai più di scoprire la maledizione (totalmente immaginaria) della propria famiglia.
«Non potevo raccontarlo in altro modo» dico a Padma. «Troppo doloroso; ho dovuto svelarlo così, in questa maniera un po’ folle, per forza.»
«Oh signore!» singhiozza Padma smarrita. «Oh, signore, signore!»
«Su, su,» dico «è una vecchia storia.» Ma le sue lacrime non sono per me; per un momento, ha dimenticato ciò-che-rosicchia-le-ossa-sotto-la-pelle; sta piangendo per Mary Pereira, cui, come ho già detto, si è eccessivamente affezionata.
«Che cosa le successe?» dice con gli occhi rossi. «A quella Mary?»
Mi lascio prendere da una collera irrazionale. Urlo: «Domandalo a lei!».
Domandale come tornò a casa nella città di Panjim a Goa, come raccontò alla sua vecchia madre la storia della sua vergogna! Domandale come sua madre impazzì per lo scandalo (cosa abbastanza logica: era un periodo in cui i vecchi perdevano il senno)! Domandale: madre e figlia andarono per le strade a cercar perdono? E non era forse quello l’unico momento in dieci anni in cui il cadavere mummificato di san Francesco Saverio (Sacra reliquia quanto il capello del Profeta) viene portato fuori dalla propria cripta nella cattedrale del Bom Jesus e condotto in processione per le vie della città? E Mary e la vecchia e sconvolta signora Pereira non si trovarono premute contro il catafalco? E non era la vecchia signora impazzita dal dolore per il delitto della figlia? E la vecchia signora Pereira, gridando: «Ahi! Ai-ahi! Ai-ahi-ahi!» non s’arrampicò forse sulla bara per baciare i piedi del Santo? In mezzo a una folla incalcolabile, non entrò la signora Pereira in una sacra frenesia? Chiediglielo! È vero o no che, in balia di questa sfrenatezza, prese tra le labbra l’alluce sinistro di san Francesco? Chiediglielo tu: è vero che la madre di Mary gli strappò l’alluce con un morso?
«Come?» geme Padma, snervata dalla mia rabbia. «Come, chiediglielo?»
... E anche questo è vero: forse che i giornali si inventarono tutto quando scrissero che la vecchia era stata miracolosamente punita; quando citarono fonti ecclesiastiche e testimoni oculari per descrivere come la vecchia era stata trasformata in pietra? No? Chiedile se è vero che la Chiesa mandò in processione la statua di pietra di una vecchia per le città e i villaggi di Goa, al fine di mostrare cosa capita a chi si comporta male coi santi. Chiedile: questa statua non fu forse vista contemporaneamente in più villaggi – e questo è un imbroglio o un altro miracolo?
«Sai bene che non posso chiederlo a nessuno» strilla Padma... ma io, sentendo venir meno il mio furore, stasera non farò altre rivelazioni.
In parole povere: Mary Pereira ci lasciò e andò a Goa da sua madre. Ma Alice rimase; Alice restò nell’ufficio di Ahmed Sinai, a battere a macchina e a portargli panini e bibite effervescenti.
In quanto a me – alla fine del lutto per mio zio Hanif iniziai il mio secondo esilio.