Sposai Parvati-la-strega il 23 febbraio 1975, secondo anniversario del mio ritorno come paria nel ghetto dei maghi.

Irrigidimento di Padma: tesa come una corda da bucato, il mio loto-sterco domanda: «Sposato? Ma solo ieri sera dicevi che non ti saresti mai... e perché non mi hai mai detto niente in tanti giorni settimane mesi?...». La guardo con tristezza e le ricordo di aver già accennato alla morte della mia povera Parvati che non avvenne per cause naturali... a poco a poco Padma si placa e io continuo: «Donne mi hanno fatto e donne mi hanno distrutto. Dalla Reverenda madre alla Vedova e anche oltre, sono sempre stato alla mercé del cosiddetto (secondo me, erroneamente!) gentil sesso. Può essere una faccenda di connessioni: la Madre India, Bharat-Mata, non è forse comunemente considerata femmina? E come tu sai, a lei non si può sfuggire».

Ci sono stati in questa storia trentadue anni durante i quali io non ero ancora nato; tra poco completerò forse il mio trentunesimo anno. Per sessantatré anni, prima e dopo la mezzanotte, le donne hanno fatto del loro meglio; e anche, sono costretto a dirlo, del loro peggio.

Nella casa di un proprietario terriero cieco sulle rive di un lago del Kashmir, Naseem Aziz mi condannò all’inevitabilità dei lenzuoli perforati; e nelle acque di quello stesso lago, Ilse Lubin entrò di soppiatto nella storia, e io non ho dimenticato il suo desiderio di morte;

Prima che Nadir Khan si nascondesse nel suo mondo sotterraneo, mia nonna, diventando Reverenda madre, aveva avviato una sequenza di donne che cambiarono nome, sequenza che continua ancora oggi – e che influì persino su Nadir che divenne Qasim e sedette con mani danzanti al Pioneer Café; e partito Nadir, mia madre Mumtaz Aziz diventò Amina Sinai;

E Alia che, con l’amarezza di decenni, mi fece indossare corredini impregnati della sua furia di zitella; ed Emerald che apparecchiò una tavola su cui feci marciare le pepaiole;

Ci fu la rani di Cooch Naheen, i cui soldi, messi a disposizione di un colibrì, diedero inizio a un’epidemia di ottimismo, ripresentatasi, a intervalli, sino a oggi; e, nel quartiere musulmano della vecchia Delhi, una lontana parente di nome Zohra, le cui civetterie originarono in mio padre le successive debolezze per le Fernande e le Flory;

E arriviamo a Bombay. Dove la Vanita di Winkie non seppe resistere alla scriminatura centrale di William Methwold, e Nussie-l’anatroccola perse una corsa di bambini; mentre Mary Pereira, in nome dell’amore, scambiava le targhette di due neonati e diventava per me una seconda madre...

Donne e donne e donne: Toxy Catrack che socchiuse la porta da cui sarebbero entrati i bambini della mezzanotte; la sua terrorizzante infermiera Bi-Appah; l’amore concorrenziale di Amina e di Mary e ciò che mi mostrò mia madre mentre me ne stavo nascosto in un cassone del bucato; sì, il Mango nero, che mi costrinse a tirar su col naso e a dar via libera a quelli-che-non-erano-arcangeli!... Ed Evelyn Lilith Burns, causa di un incidente ciclistico, che dalla cima di una collinetta a due piani mi immerse nel pieno della storia.

E la Scimmia. Non devo dimenticare la Scimmia.

E poi, e poi ci furono Masha Miovic, che mi spronò a perdere un dito, e mia zia Pia, che mi riempì il cuore di brama di vendetta, e Lila Sabarmati, le cui infedeltà resero possibile la mia terribile manipolante vendetta fatta con ritagli di giornale;

E la signora Dubash, che trovò un album di Superman da me regalato e, con l’aiuto del figlio, creò il Signore Khusro Khusrovand;

E Mary, che vide un fantasma.

Nel Pakistan, terra della sottomissione, patria della purezza, assistetti alla trasformazione della Scimmia in cantante e andai a prenderle il pane e mi innamorai; e fu una donna, Tai Bibi, che mi disse la verità su me stesso. E nel cuore delle mie tenebre interiori, mi volsi verso le Puffie e solo per un pelo mi salvai dalla minaccia di una sposa coi denti d’oro.

Ricominciando da capo come il buddha, andai a letto con una pulitrice di latrine, col risultato di essere sottoposto a orinatoi elettrificati.

All’ombra di una moschea, Resham Bibi emise un monito.

E sposai Parvati-la-strega.

«Oh, signore» esclama Padma. «Troppe donne!»

Non posso dissentire; perché non ho ancora citato lei, i cui sogni di matrimonio e di Kashmir sono inevitabilmente filtrati in me, facendomi desiderare, se-soltanto, se-soltanto, sicché, dopo essermi a suo tempo rassegnato alle crepe, sono ora assalito da fitte di malcontento, di rabbia, di paura e di rimpianto.

Ma, soprattutto, la Vedova.

«Lo giuro!» Padma si dà una pacca su un ginocchio. «Troppe, signore, troppe!»

Come dobbiamo intendere le mie troppe donne? Come i volti molteplici di Bharat-Mata? O più ancora... come l’aspetto dinamico del maya, come l’energia cosmica, rappresentata dall’organo femminile?

Maya, nel suo aspetto dinamico, è chiamata Shakti. Forse non è un caso che nel pantheon induista il potere attivo di una divinità sia racchiuso nella sua regina! Maya-Shakti dà la vita, ma nello stesso tempo “smorza la coscienza nella sua ragnatela di sogni”. Troppe donne: sono tutti aspetti di Devi, la dea – che è Shakti, che uccise il demone-bufalo, che sconfisse l’orco Mahisha, che è Kali Durga Chandi Chamunda Uma Sati e Parvati... e che, quando è attiva, viene colorata di rosso?

«Io non so niente di queste cose.» Padma mi riporta sulla terra. «Sono donne e basta.»

Scendendo dal volo della mia fantasia, mi viene ricordata l’importanza della velocità; spinto dagli imperativi di ciò che si strappa si lacera e scricchiola, smetto con le riflessioni; e comincio.

Ecco come avvenne; come Parvati prese nelle sue mani il proprio destino; come una bugia uscita dalle mie labbra la portò a una tale disperazione che una sera estrasse dai suoi logori indumenti una ciocca di capelli d’eroe e cominciò a pronunciare sonore parole.

Respinta da Saleem, Parvati ricordò colui che era stato un tempo il suo nemico numero uno, e, prendendo un bastone di bambù con sette nodi e un uncino improvvisato a un’estremità, s’accovacciò nella propria baracca e cominciò a salmodiare, con l’Uncino di Indra nella mano destra e una ciocca di capelli nella sinistra, lo chiamò a sé. Parvati chiamò Shiva; e voi potete crederci o non crederci, ma Shiva venne.

Ci furono sin dall’inizio ginocchia e un naso, un naso e ginocchia; ma in tutto questo racconto ho sempre relegato l’altro sullo sfondo (come un tempo lo esclusi dalle assemblee dei bambini). Ora però non si può più tenerlo nascosto, perché un mattino di maggio del 1974 – dipende dalla mia incrinata memoria o ho ragione nel pensare che sia stato il 18, e forse addirittura nel momento stesso in cui i deserti del Rajasthan tremarono per la prima esplosione nucleare dell’India? L’esplosione di Shiva nella mia vita fu realmente in sincronia con l’accesso inopinato dell’India nell’era nucleare? – venne nel ghetto dei maghi. In divisa, con medaglie e stellette, e col grado di maggiore, Shiva scese da una motocicletta dell’esercito; e anche attraverso il modesto cachi dei suoi calzoni militari era facile scorgere le fenomenali protuberanze gemelle delle sue ginocchia micidiali... Era il più decorato eroe di guerra indiano; ma una volta aveva comandato una banda di teppisti nei bassifondi di Bombay; una volta, prima che lui scoprisse la violenza legittima della guerra, si trovavano prostitute strangolate nei rigagnoli (lo so, lo so – non ci sono prove); era il maggiore Shiva ora, ma era anche il ragazzo di Wee Willie Winkie, che ancora ricordava le parole di canzoni da tempo ammutolite: «Buona notte, belle signore» continuava ogni tanto a echeggiare nelle sue orecchie.

In tutto questo ci sono aspetti ironici che non devono passare inosservati: l’ascesa di Shiva non era forse contemporanea alla caduta di Saleem? Chi viveva adesso nei bassifondi e chi guardava da alture prominenti? Niente è meglio di una guerra per reinventare vite... In quello che poteva anche essere il 18 maggio, comunque, il maggiore Shiva venne nel ghetto dei maghi e percorse le strade crudeli di quel quartiere miserabile con una strana espressione nel viso, in cui all’infinito disprezzo per la povertà proprio di chi se n’è staccato da poco, si mescolava qualcosa di più misterioso: il maggiore Shiva infatti, attirato nel nostro umile quartiere dagli incantesimi di Parvati-la-strega, non poteva assolutamente sapere quale forza lo avesse costretto a venirci.

Segue ora una ricostruzione della recente carriera del maggiore Shiva: l’ho messa assieme basandomi su racconti che cavai di bocca a Parvati dopo il nostro matrimonio. A quanto pare, il mio rivale numero uno amava gloriarsi con lei delle proprie imprese, e di conseguenza vi prego di tener conto di quelle deformazioni della verità che tali vanterie inevitabilmente comportano; sembra però che non ci sia ragione di pensare che ciò che lui disse a Parvati e che lei mi ripeté fosse molto lontano dalla verità.

Alla fine della guerra in Oriente, le leggende delle terribili gesta di Shiva ronzavano nelle strade delle città, balzavano su giornali e riviste e si insinuavano persino nei salotti dei benestanti, depositandosi in nuvolette fitte come mosche nei timpani delle padrone di casa e la conseguenza fu che Shiva venne elevato nella sua condizione sociale come nel suo grado militare, e fu invitato a mille e una differente riunione – banchetti, serate musicali, bridge, ricevimenti diplomatici, congressi di partiti, grandi meka nonché feste minori, gare sportive tra studenti e balli eleganti – dove era applaudito e monopolizzato dai più nobili e dai più belli del paese, cui le leggende delle sue imprese s’appiccicavano come mosche, camminando sui loro bulbi oculari sino a far loro vedere il giovane attraverso la nebbiolina della sua leggenda, ricoprendo le punte delle loro dita sino a farglielo toccare attraverso la magica pellicola del suo mito, posandosi sulle loro lingue sino a impedir loro di parlargli come avrebbero fatto con un comune essere umano. L’esercito indiano, che stava allora combattendo una battaglia politica contro ventilati tagli di bilancio, comprese quanto potesse essere prezioso un ambasciatore così carismatico e autorizzò l’eroe a frequentare i suoi influenti ammiratori; e Shiva si buttò con entusiasmo nella sua nuova vita.

Si fece crescere un lussureggiante paio di baffi cui il suo attendente personale applicava quotidianamente una pomata di olio di lino aromatizzata con coriandolo; sempre elegantissimo nei salotti dei potenti, partecipava alle discussioni politiche e si dichiarava ammiratore deciso della signora Gandhi, soprattutto perché odiava il suo avversario Morarji Desai, che era insopportabilmente vecchio, beveva la propria orina, aveva la pelle frusciante come carta di riso e, in quanto Primo ministro di Bombay, era stato un tempo il responsabile della proibizione delle bevande alcoliche e della persecuzione dei goonda, cioè dei teppisti o giovinastri, o in altre parole dello stesso Shiva, allora ragazzo... ma queste chiacchiere oziose occupavano soltanto una frazione dei suoi pensieri, che per il resto erano totalmente assorbiti dalle signore. Anche Shiva era infestato da un eccesso di donne, e nell’inebriante periodo seguito alla vittoria militare si conquistò una segreta reputazione che (come si vantò con Parvati) crebbe rapidamente sino a rivaleggiare con la sua fama pubblica, ufficiale – una leggenda “nera” da affiancare a quella “bianca”. Cosa si sussurrava durante le riunioni per sole donne e le partite a canasta di tutto il paese? Cosa si sibilava tra una risatina e l’altra ogni volta che si trovavano assieme due o tre attraenti signore? Questo: il maggiore Shiva stava diventando un seduttore famoso; un dongiovanni; uno che faceva becchi i ricchi; insomma, uno stallone.

C’erano donne – raccontò a Parvati – ovunque lui andasse; i loro corpi pieni di curve e morbidi come uccelli vibravano sotto il peso dei gioielli e della lussuria, i loro occhi erano appannati dalla sua leggenda: sarebbe stato difficile respingerle, anche se lui lo avesse voluto. Ma il maggiore Shiva non aveva la minima intenzione di respingerle. Ascoltava con simpatia le loro piccole tragedie di mariti impotenti, percosse, mancanza d’attenzioni – e tutti gli altri pretesti cui le belle creature decidevano di ricorrere. Come mia nonna nella sua stazione di servizio (ma con motivi più sinistri), dava pazientemente retta alle loro disgrazie; sorseggiando whisky nello splendore illuminato dai lampadari dei saloni da ballo, le guardava batter le palpebre e respirare allusivamente tra un gemito e l’altro; e alla fine riuscivano sempre a lasciar cadere la borsetta o a versare il bicchiere o a fargli saltar di mano il frustino, costringendolo a chinarsi sul pavimento per recuperare ciò che era caduto, e lui allora poteva vedere i bigliettini infilati nei loro sandali, che sporgevano graziosamente da sotto le unghie dipinte. In quei giorni (se si può credere al maggiore) le belle e scandalose begum indiane divennero terribilmente maldestre, e i loro chappal parlavano di appuntamenti a mezzanotte, di pergolati di buganvillee sotto le finestre delle camere da letto, di mariti opportunamente lontani e intenti a varare navi o a esportare tè o a comprare cuscinetti a sfera dagli svedesi. E mentre questi sventurati erano assenti, il maggiore si recava nelle loro case a derubarli del bene più prezioso: le loro donne cadevano nelle sue braccia. È possibile (ho diviso a metà le cifre fornite dal maggiore) che, all’apice della sua attività di seduttore, le donne innamorate di lui fossero non meno di diecimila.

E sicuramente ci furono anche bambini. Frutti delle illecite mezzenotti. Bei neonati vigorosi al sicuro nelle culle dei ricchi. Seminando bastardi in tutta l’India, l’eroe di guerra procedeva per la sua strada; ma (raccontò anche questo a Parvati) aveva lo strano difetto di perdere qualsiasi interesse per colei che rimaneva incinta; per quanto fossero belle sensuali e innamorate, lui disertava i letti di tutte quelle che portavano i suoi figli; e amabili signore con gli occhi arrossati furono costrette a persuadere i loro mariti becchi che sì, certo che è figlio tuo, caro, vita mia, non è forse il tuo ritratto sputato, e no che non sono triste, perché dovrei esserlo, sono lacrime di gioia le mie.

Una di queste madri abbandonate era Roshanara, la sposa-bambina di S.P. Shetty, il magnate dell’acciaio; e all’ippodromo Mahalaxmi di Bombay, fu lei a sgonfiare il pallone gigantesco del suo orgoglio. Shiva stava passeggiando nel paddock, chinandosi ogni pochi metri per raccogliere gli scialli e i parasole delle signore, che al suo passaggio parevano acquisire vita propria e schizzar via dalle mani delle loro proprietarie; e fu lì che Roshanara Shetty lo affrontò, piazzandosi sul suo cammino e rifiutando di spostarsi con i suoi occhi di diciassettenne accesi dal feroce risentimento dell’infanzia. Lui la salutò con freddezza, toccandosi il berretto militare e tentando di passar oltre; ma lei gli conficcò in un braccio le unghie aguzze come aghi, sorridendo pericolosa come il ghiaccio, e si mise a camminargli accanto. E mentre passeggiavano gli versò nell’orecchio tutto il suo veleno infantile, e l’odio e il risentimento per l’ex amante le diedero l’abilità necessaria a far sì che lui le credesse. Gli sussurrò gelidamente che era così buffo, Dio mio, vederlo aggirarsi tutto impettito nell’alta società come una specie di gallo, quando le signore non facevano che ridere alle sue spalle. Oh sì, maggiore sahib, non farti illusioni, alle donne di classe è sempre piaciuto andare a letto con animali contadini bruti, ed è proprio questo che pensiamo di te, Dio mio è disgustoso persino guardarti mangiare, con la salsa che ti cola sul mento, non credere che non vediamo che non tieni mai una tazza di tè per il manico, non immaginare che non sentiamo i tuoi rutti e i tuoi peti, sei soltanto il nostro scimmione preferito, maggiore sahib, utilissimo, ma sostanzialmente un pagliaccio.

Dopo l’attacco di Roshanara Shetty, il giovane eroe di guerra cominciò a vedere il mondo in maniera diversa. Ora gli sembrava che le donne ridacchiassero dietro il ventaglio ovunque lui si recava; notava strane e divertite occhiate di traverso delle quali prima non si era mai accorto; e per quanto cercasse di migliorare il proprio comportamento, non gli servì a nulla, sembrava anzi diventare sempre più goffo quanto maggiori erano i suoi sforzi, al punto che il cibo volava dal suo piatto per atterrare su preziosissimi tappeti Kelim e rutti erompevano dalla sua gola con il fragore di un treno che esce da una galleria e scoreggiava con la furia di un tifone. La sua nuova splendida vita divenne per lui un’umiliazione quotidiana; ora dava un’interpretazione diversa anche agli approcci delle belle signore, rendendosi conto che nascondendo sotto le dita dei piedi i loro biglietti amorosi, lo costringevano di fatto a inginocchiarsi in maniera umiliante... e scoprendo che un uomo può avere tutti gli attributi virili ma essere egualmente disprezzato perché non sa come si tiene un cucchiaio, sentì rinascere in sé un’antica violenza, un odio per questi pezzi grossi e per il loro potere, ed è per questo che sono convinto – è per questo che so – che quando l’Emergenza offrì a Shiva-dei-ginocchi l’occasione di agguantare un po’ di potere per sé, non aspettò che gli venisse offerta una seconda volta.

Il 15 maggio 1974, Shiva tornò a Delhi al suo reggimento; tre giorni dopo, come lui stesso raccontava, gli venne il desiderio improvviso di rivedere la bella dagli occhioni spalancati che aveva conosciuto tanto tempo prima alle riunioni dei bambini della mezzanotte: la tentatrice con la coda di cavallo che gli aveva chiesto a Dacca una ciocca dei suoi capelli. Il maggiore Shiva disse a Parvati che il suo arrivo nel ghetto dei maghi era dovuto al desiderio di farla finita con le ricche sgualdrine dell’alta società indiana; che era stato ammaliato dalle sue labbra imbronciate nel momento stesso in cui aveva posato gli occhi su di loro, e che era soltanto per questo che le chiedeva di venir via con lui. Ma sono già stato sin troppo generoso con lui – in questa che è la mia visione personale della storia ho già concesso al suo racconto uno spazio eccessivo; affermo quindi che, qualunque cosa possa aver pensato il maggiore dalle ginocchia rientranti, ciò che lo attirò nel ghetto fu semplicemente e chiaramente la magia di Parvati-la-strega.

Saleem non era nel ghetto quando arrivò la motocicletta del maggiore Shiva: mentre le esplosioni nucleari facevano tremare le distese del Rajasthan, lontano dai nostri occhi, sotto la superficie del deserto, anche l’esplosione che modificò la mia vita avvenne lontano dai miei occhi. Quando Shiva agguantò Parvati per un polso, io ero con Picture Singh a una riunione d’emergenza delle molte cellule rosse cittadine, per discutere dettagliatamente lo sciopero ferroviario nazionale; quando Parvati, senza la minima esitazione, prese posto sul sellino posteriore della Honda di un eroe, io stavo denunciando il governo che aveva arrestato alcuni dirigenti sindacali. In parole povere, mentre io mi occupavo di politica e del mio sogno di salvar la nazione, i poteri stregoneschi di Parvati avevano messo in moto un meccanismo la cui conclusione sarebbero state palmi dipinti con l’henné e canzoni e la firma di un contratto.

... Sono necessariamente costretto a fidarmi dei racconti altrui, soltanto Shiva sarebbe stato in grado di dire ciò che gli era capitato; fu Resham Bibi che mi descrisse al mio ritorno la partenza di Parvati, dicendo: «Povera ragazza, lasciamola andare, è stata così triste per tanto tempo, e per colpa di che?»; e solo Parvati poté riferirmi ciò che le accadde durante la sua assenza.

Grazie al suo prestigio nazionale di eroe di guerra, il maggiore era autorizzato a prendersi qualche libertà con i regolamenti militari; nessuno quindi gli fece il minimo rimprovero perché ospitava una donna in quelli che non erano, in fin dei conti, alloggi per gli sposati; e lui, senza sapere bene che cosa avesse determinato questa singolare modifica della sua vita, si sedette come gli era stato chiesto su una sedia di vimini, mentre Parvati gli toglieva gli stivali, gli massaggiava i piedi, gli portava acqua aromatizzata dal succo di limette appena spremute, allontanava il suo servitore, gli oliava i baffi, gli accarezzava le ginocchia e infine gli presentava una cena a base di biriani talmente squisita che egli smise di interrogarsi su ciò che gli stava succedendo e cominciò invece a goderselo. Parvati-la-strega trasformò quel semplice alloggio militare in un palazzo, un Kailasa degno di Shiva-il-dio; e il maggiore Shiva, sperduto nei magici gorghi dei suoi occhi, eccitato a livelli insopportabili dall’erotico sporgere delle sue labbra, dedicò tutte le proprie attenzioni a lei per quattro lunghi mesi; o, per esser più precisi, per centodiciassette notti. Ma il 12 settembre le cose cambiarono: perché Parvati, inginocchiata ai suoi piedi e perfettamente consapevole delle sue opinioni su questo argomento, gli disse che stava per dargli un bambino.

La relazione tra Shiva e Parvati divenne allora una faccenda tempestosa, fitta di schiaffi e di piatti rotti; un’eco terrena dell’eterna battaglia coniugale che i loro divini omonimi sembra combattano in cima al monte Kailasa nell’Himalaya... In questo periodo il maggiore Shiva si mise a bere; e anche a frequentar puttane. Gli itinerari percorsi dall’eroe di guerra in cerca di puttane per le vie della capitale dell’India assomigliavano moltissimo ai viaggi in Lambretta di Saleem Sinai quando ne seguiva le tracce per le strade di Karachi; il maggiore Shiva, svirilizzato nell’ambiente dei ricchi dalle rivelazioni di Roshanara Shetty, aveva preso l’abitudine di pagare per i propri piaceri. E la sua fecondità era così fenomenale (assicurò a Parvati mentre la picchiava) da rovinare la carriera di molte prostitute facendo far loro bambini troppo amati perché fosse possibile abbandonarli; generò insomma nella capitale un esercito di monelli di strada che rispecchiava il reggimento dei bastardi da lui procreati con le begum dei saloni illuminati dai lampadari.

Nubi oscure s’andavano addensando anche nei cieli politici; nel Bihar, dove regnavano corruzione inflazione fame analfabetismo, Jaya-Prakash Narayan guidò una coalizione di studenti e di operai contro il Congresso di Indira al potere; nel Gujarat ci furono tumulti, si bruciarono treni e Morarji Desai iniziò un digiuno-sino-alla-morte per abbattere il corrotto governo del Congresso (presieduto da Chimanbhai Patel) in quello Stato tormentato dalla siccità; insomma mentre la mente di Shiva ribolliva di rabbia, si stava adirando anche il paese; e che cosa stava nascendo mentre qualcosa cresceva nel ventre di Parvati? Lo sapete benissimo: verso la fine del 1974, J.P. Narayan e Morarji Desai formarono un partito d’opposizione chiamato Janata Morcha. Fronte del popolo. Mentre il maggiore Shiva passava barcollando da una puttana all’altra, barcollava anche il Congresso di Indira.

E finalmente Parvati lo liberò dal suo incantesimo. (Non c’è altra spiegazione che regga; se non era stregato, perché non l’abbandonò nel momento stesso in cui seppe della sua gravidanza? E se l’incantesimo non fosse stato tolto, come avrebbe potuto liberarsene?) Scuotendo il capo come uno che si sveglia da un sogno, il maggiore Shiva si vide accanto una ragazza dei bassifondi con una pancia come un pallone, che a questo punto gli pareva rappresentare tutto ciò che più lo spaventava – divenne la personificazione dei bassifondi della sua infanzia, dai quali era fuggito e che ora, tramite questa esecrabile creatura, cercavano nuovamente di trascinarlo giù giù giù... Afferrandola per i capelli, la scaraventò sulla sua motocicletta e pochissimo tempo dopo lei si trovò, abbandonata, ai margini del ghetto dei maghi, restituita al luogo da cui era venuta, e avendo con sé una sola cosa che già non possedesse nel momento in cui era partita: la cosa nascosta in lei come un uomo invisibile in una cesta di vimini, la cosa che cresceva cresceva cresceva, esattamente come lei aveva programmato.

Perché dico questo? – Perché deve essere vero; perché seguì ciò che seguì; perché credo fermamente che Parvati-la-strega si fosse fatta ingravidare puramente per invalidare la mia unica difesa da un matrimonio con lei. Ma io mi limito a raccontare, le analisi le lascio ai posteri.

In un freddo giorno di gennaio, quando le grida del muezzin dal più alto minareto della moschea del venerdì si congelavano appena uscite dalle sue labbra e cadevano sulla città come neve sacra, Parvati tornò. Aveva aspettato che non fossero più possibili dubbi sulle sue condizioni; la sua cesta interiore gonfiava gli abiti nuovi e puliti dell’ormai defunta infatuazione di Shiva. Le sue labbra, sicure dell’imminente trionfo, avevano perso quel broncio tanto di moda; nei suoi occhioni spalancati, mentre se ne stava sui gradini della moschea del venerdì per esser certa che il maggior numero possibile di persone vedesse quanto era cambiato il suo aspetto, si nascondeva un argenteo barlume di soddisfazione. Fu così che la trovai tornando alla chaya della moschea con Picture Singh. Mi sentivo depresso, e la vista di Parvati-la-strega sui gradini, con le mani tranquillamente intrecciate sul ventre gonfio, e la lunga corda di capelli che svolazzava dolcemente nell’aria cristallina, non valse certo a rallegrarmi.

Picture e io eravamo andati nelle strade di affusolate case popolari dietro la Posta centrale, dove nella brezza permanevano ricordi di indovini guaritori presentatori di peepshow; e qui Picture Singh aveva eseguito un numero divenuto sempre più politico col trascorrere della giornata. La sua leggendaria abilità d’artista aveva attirato grandi folle bendisposte; e lui fece rappresentare il proprio messaggio dai serpenti influenzati dall’insinuante musica del suo flauto. Mentre io, nel mio ruolo d’apprendista, leggevo un discorso preparato per l’occasione, i serpenti lo drammatizzavano. Io parlavo della scandalosa iniquità della distribuzione delle ricchezze; due cobra mimavano un ricco che si rifiuta di fare l’elemosina a un mendicante. E anche le angherie poliziesche, la fame, le malattie e l’analfabetismo furono denunciate dalle mie parole e danzate dai serpenti; dopo di che Picture Singh, concludendo la sua esibizione, prese a parlare della rivoluzione rossa, e le promesse cominciarono a riempire l’aria al punto che, ancor prima che si materializzassero i poliziotti accorsi dalle porte posteriori dell’ufficio postale per sciogliere il comizio a colpi di lathi e a lanci di gas lacrimogeno, alcuni burloni presenti tra il pubblico avevano già cominciato a disturbare con i loro interventi l’Uomo Più Incantevole del Mondo. Poco convinto, forse, dalle ambigue pantomime dei rettili, il cui contenuto drammatico era effettivamente un po’ oscuro, un giovane gridò: «Ohè, Picture, dovresti starci tu al governo, neanche Indira-mata ci fa promesse belle come le tue».

Poi arrivò il gas lacrimogeno e fummo costretti a fuggire, tossendo sputacchiando sfregandoci gli occhi, ai poliziotti della squadra politica, e nello scappare piangevamo artificialmente. (Come un tempo a Jallianwalabagh – ma stavolta almeno non ci furono proiettili.) Tuttavia, anche se le lacrime erano lacrime dovute al gas, Picture Singh era piombato in una terribile tristezza a causa della beffarda battuta del disturbatore, che aveva messo in dubbio quel controllo della realtà che era il suo massimo orgoglio; e dopo il gas e i manganelli, ero depresso anch’io, avendo improvvisamente riconosciuto una tarma di disagio nel mio stomaco ed essendomi così accorto che c’era in me qualcosa che non condivideva il ritratto, presentato da Picture attraverso la danza dei serpenti, della generale grettezza dei ricchi; mi sorpresi a pensare: «In ognuno c’è del buono e del cattivo – e loro mi hanno cresciuto, si sono occupati di me, Picture!». E a questo punto cominciai a capire che il delitto di Mary Pereira mi aveva staccato da due mondi e non soltanto da uno; che espulso dalla casa di mio zio non sarei mai riuscito a entrare completamente nel mondo secondo Picture Singh; che in realtà il mio sogno di salvare il paese era una cosa di specchi e di fumo; inconsistente come i vaneggiamenti di un pazzo.

E poi ecco Parvati, con il suo profilo cambiato, nella rigida limpidezza della giornata invernale.

Fu – o sbaglio? Devo affrettarmi; le cose mi scivolano via in continuazione – una giornata d’orrori. Fu allora – a meno che non sia stato un altro giorno – che trovammo la vecchia Resham Bibi morta di freddo nella capanna che si era costruita con le cassette d’imballaggio Dalda Vanaspati. Era diventata di un azzurro brillante, azzurro-Krishna, azzurro come Gesù, l’azzurro dei cieli del Kashmir, che filtra a volte negli occhi; la cremammo sulle rive dello Jamuna, tra distese fangose e bufali; e quindi non poté intervenire al mio matrimonio, e fu un peccato, perché come a tutte le vecchie a lei i matrimoni piacevano, e in passato aveva partecipato alle cerimonie preliminari della spennellatura con l’henné mostrando un energico entusiasmo, e aveva intonato i canti con cui le amiche della sposa insultavano lo sposo e la sua famiglia. Una volta era anche accaduto che le sue insolenze fossero così brillanti e così azzeccate che lo sposo s’adombrò e mandò a monte le nozze; ma Resham, imperterrita, disse che non era sua la colpa se al giorno d’oggi i giovanotti erano pusillanimi e incostanti come polli.

Io ero assente quando Parvati se ne andò; e non ero presente al suo ritorno; e ci fu anche un altro fatto strano... a meno che io non confonda, a meno che non sia stato un altro giorno... mi sembra comunque, che il giorno del ritorno di Parvati un ministro indiano sedeva nel suo scompartimento ferroviario a Samastipur quando un’esplosione lo fece volare direttamente nei libri di storia; che Parvati, partita tra gli scoppi delle bombe atomiche, fosse tornata tra noi quando il signor L.N. Mishra, ministro delle ferrovie e della corruzione, lasciò per sempre questo mondo. Presagi e ancora presagi... forse, a Bombay, le lampughe morte galleggiavano a pancia in su verso la spiaggia.

Il 26 gennaio, festa della Repubblica, è una buona giornata per gli illusionisti. Quando si radunano grandi folle per vedere gli elefanti e i fuochi artificiali, gli imbroglioni delle città escono a guadagnarsi il pane. Per me tuttavia questo giorno ha un significato diverso: fu in occasione della festa della Repubblica che venne sancito il mio destino coniugale.

Nei giorni seguiti al ritorno di Parvati, le vecchie del ghetto presero l’abitudine di tapparsi le orecchie per la vergogna ogni volta che la incontravano; e lei, che portava il suo figlio illegittimo senza alcuna parvenza di rimorso, sorrideva con aria innocente e proseguiva nel suo cammino. Ma la mattina della festa della Repubblica trovò al risveglio, sospesa sopra la sua porta, una corda cui erano appese delle scarpe sfondate, e si mise a piangere sconsolata, perché il suo autocontrollo si stava disintegrando sotto l’impeto del più grande degli insulti. Picture Singh e io, uscendo dalla nostra baracca piena di panieri di serpenti, la incontrammo in questa sua (calcolata? autentica?) infelicità, e Picture Singh contrasse le mascelle in un’espressione di grande risolutezza. «Torniamo nella baracca, capo» mi ordinò l’Uomo Più Incantevole del Mondo. «Devo parlarti.»

E nella baracca: «Perdonami, capo, ma devo proprio parlar chiaro. Penso che sia terribile per un uomo trascorrere la vita senza figli. E non avere un figlio, capo, deve essere molto triste anche per te, no?». E mentre io, intrappolato dalla menzogna sull’impotenza, restavo in silenzio, Picture mi propose il matrimonio che avrebbe salvato l’onore di Parvati e risolto nello stesso tempo il problema della mia dichiarata sterilità, e, nonostante le paure del viso di Jamila Singer che, sovrapposto a quello di Parvati, aveva il potere di farmi impazzire, non seppi trovare una buona ragione per rispondere di no.

Parvati – proprio come aveva programmato, ne sono convinto – mi accettò immediatamente, dicendo sì con la stessa naturalezza con cui tante volte aveva detto di no in passato; e da quel giorno le cerimonie della festa della Repubblica diedero l’impressione di essere state allestite soprattutto a nostro beneficio, ma ciò che io pensavo era che ancora una volta il destino, l’inevitabilità, l’antitesi della scelta, era intervenuto a dirigere la mia vita, che ancora una volta stava per nascere un bambino da un padre che non era suo padre, anche se, per una terribile ironia, sarebbe stato l’autentico nipote dei genitori di suo padre; prigioniero della rete di queste intrecciate genealogie, mi venne forse in mente anche di chiedermi cosa stesse iniziando, cosa stesse finendo e se era segretamente in corso un altro conto alla rovescia e cosa sarebbe nato insieme a mio figlio.

Nonostante l’assenza di Resham Bibi, la cerimonia nuziale andò abbastanza bene. La conversione ufficiale di Parvati all’islamismo (che irritò Picture Singh ma sulla quale avevo insistito in un’ennesima regressione alla mia vita precedente) fu compiuta da un haji con la barba rossa che pareva a disagio davanti a tanti senzadio sfottenti e provocatori; sotto gli occhi sfuggenti di questo individuo che sembrava una grossa cipolla barbuta, Parvati salmodiò la propria convinzione che non c’è Dio se non Dio e che Maometto è il suo profeta; e prese un nome che avevo scelto per lei nel deposito dei miei sogni, diventando Laylah, notte, e trovandosi così coinvolta nei cicli ripetitivi della mia storia, come un’eco di tutte le altre persone che erano state costrette a cambiar nome... come mia madre Amina Sinai, Parvati-la-strega divenne una persona nuova per poter avere un bambino.

Alla cerimonia dell’henné, mi adottò una metà dei maghi, per svolgere le funzioni della mia “famiglia”; mentre l’altra metà prendeva le parti di Parvati, e si cantarono allegre insolenze sino a tarda notte, mentre i complicati disegni fatti con l’henné si asciugavano sui palmi delle sue mani e sulle piante dei suoi piedi; e se l’assenza di Resham Bibi tolse agli insulti un po’ di mordente, la cosa non ci dispiacque poi molto. Durante il nikah, la vera e propria cerimonia nuziale, la coppia felice prese posto su una pedana frettolosamente costruita con le cassette di Dalda della demolita baracca di Resham, e i maghi sfilarono solennemente davanti a noi lasciandoci cadere in grembo monete di piccolo taglio; e quando la neo-Laylah Sinai svenne, tutti sorrisero soddisfatti, perché ogni buona sposa dovrebbe sempre svenire alle sue nozze, e nessuno accennò all’imbarazzante possibilità che avesse perso i sensi a causa della nausea o delle fitte che le provocavano i calci del bambino nella sua cesta. Quella sera i maghi allestirono uno spettacolo talmente meraviglioso che la voce si sparse in tutta la città vecchia e affluirono folle per assistervi. Uomini d’affari musulmani di un vicino muhalla dove una volta era stato dato un pubblico annuncio e argentieri e venditori di frullati di Chandni Chowk, bighelloni e turisti giapponesi che (in questa occasione) portavano tutti mascherine da chirurghi in un gesto di cortesia, per non infettarci con i germi che esalavano; e c’erano anche rosei europei che discutevano di obiettivi fotografici con i giapponesi, c’erano clic di otturatori e plop di flash, e uno dei turisti mi disse che l’India era una paese davvero meraviglioso con tante tradizioni straordinarie e che sarebbe stata addirittura perfetta se uno non fosse stato costretto a mangiare costantemente cibi indiani. E in occasione della valima, la cerimonia della consumazione (durante la quale, in questo caso, non vennero esposte lenzuola, con o senza perforazioni, macchiate di sangue, avendo io trascorso la mia notte di nozze con gli occhi ermeticamente chiusi e il corpo ben lontano da quello di mia moglie per evitare che i lineamenti insopportabili di Jamila Singer venissero a tormentarmi nella confusione delle tenebre), i maghi superarono persino i loro sforzi della notte nuziale.

Ma spentasi tutta questa eccitazione udii (con l’orecchio buono e con quello sordo) il suono inesorabile del futuro che si stava furtivamente avvicinando: tic, tac, sempre più forte, fin quando la nascita di Saleem Sinai – e anche del padre del nascituro – trovò un proprio riflesso negli eventi della notte del 25 giugno.

Mentre assassini misteriosi uccidevano funzionari governativi, e solo per un pelo non riuscivano a eliminare A.N. Ray, il giudice supremo del paese scelto personalmente dalla signora Gandhi, il ghetto dei maghi si concentrava su un altro mistero: la cesta sempre più gonfia di Parvati-la-strega.

Mentre lo Janata Morcha cresceva in tutte le più bizzarre direzioni, sino ad assorbire i comunisti maoisti (compresi i nostri contorsionisti, e quindi anche il trio dagli arti di gomma con cui Parvati conviveva prima del nostro matrimonio – ci eravamo infatti trasferiti in una baracca tutta nostra, che il ghetto ci aveva costruito come regalo di nozze sull’area del tugurio di Resham) e i membri d’estrema destra dell’Ananda Marg; sino al punto che arrivarono a ingrossarne le file i socialisti di sinistra e i conservatori dello Swatantra... Mentre il Fronte del popolo s’ingrandiva in questo modo grottesco, io, Saleem, mi domandavo in continuazione cosa mai stesse crescendo dietro il ventre in espansione di mia moglie.

Mentre il malcontento generale per il Congresso di Indira minacciava di schiacciare il governo come una mosca, la nuovissima Laylah Sinai, i cui occhi erano più grandi che mai, sedeva immobile come un sasso e il peso del nascituro continuava ad aumentare sino a minacciare di schiacciarle le ossa polverizzandole: e Picture Singh, echeggiando senza saperlo un’antica frase, disse: «Ehi, capo! Sarà molto grosso: una meraviglia di lampuga da dieci cocuzze!».

E poi si arrivò al 12 giugno.

Libri di storia giornali programmi radiofonici ci dicono che alle due pomeridiane del 12 giugno il Primo ministro Indira Gandhi fu riconosciuta colpevole, dal giudice Jag Mohan Lal Sinha dell’Alta corte di Allahabad, di due imputazioni di illeciti elettorali durante le elezioni del 1971; ma ciò che sinora non era mai stato rivelato è che fu proprio alle due pomeridiane che Parvati-la-strega (divenuta ora Laylah Sinai) s’accorse che le erano cominciate le doglie.

Le doglie di Parvati-Laylah si prolungarono per tredici giorni. Il primo giorno, mentre il Primo ministro si rifiutava di dimettersi, benché la sua condanna comportasse come sanzione obbligatoria l’esclusione per sei anni dai pubblici uffici, la cervice di Parvati-la-strega, nonostante le contrazioni dolorose come calci di un mulo, si rifiutò ostinatamente di dilatarsi; Saleem Sinai e Picture Singh, esclusi dalla baracca della sua sofferenza dal trio delle contorsioniste che si erano assunte mansioni di levatrici, furono costretti ad ascoltare le sue inutili grida fin quando un flusso continuo di mangiatori di fuoco, di bari e di specialisti nel camminare sui carboni accesi non vennero a dar loro vigorose pacche sulla schiena e a raccontare barzellette spinte; ed era solo nelle mie orecchie che si poteva udire il ticchettio... un conto alla rovescia in direzione di Dio-sa-che-cosa, e alla fine, ossessionato dalla paura, dissi a Picture Singh: «Non so cosa verrà fuori da lei ma certamente non sarà niente di buono...». E Picture, rassicurante: «Non preoccuparti, capo! Andrà tutto bene! Una lampuga da dieci cocuzze, te lo giuro!». E Parvati urlava e urlava e la notte si dissolveva nel giorno, e il secondo giorno, mentre nel Gujarat i candidati elettorali della signora Gandhi venivano sbaragliati dal Janata Morcha, la mia Parvati era afflitta da dolori talmente forti da irrigidirla come l’acciaio, e io mi rifiutai di toccar cibo finché non fosse nato il bambino o successo quel che doveva succedere. Sedevo a gambe incrociate davanti al tugurio della sua sofferenza, tremando di paura nonostante il caldo, pregando di non lasciarla morire, non lasciarla morire, benché in tutti quei mesi di matrimonio non avessi mai fatto l’amore con lei; nonostante la paura per lo spettro di Jamila Singer, pregavo e digiunavo, nonostante Picture Singh mi ripetesse: «Per pietà, capo» continuavo a rifiutare, e il nono giorno il ghetto era piombato in una calma spaventosa, in un silenzio talmente assoluto che non potevano penetrarvi neanche gli annunci del muezzin della moschea, in un’assenza di suoni così immensamente potente da escludere il frastuono delle manifestazioni del Janata Morcha davanti a Rashtrapati Bhavan, la residenza del presidente, in un mutismo pieno d’orrore e di quella stessa terribile avvolgente magia che incombeva un tempo sulla casa dei miei nonni ad Agra, e così il nono giorno non potemmo udire Morarji Desai che chiedeva al presidente Ahmad di licenziare la screditata Primo ministro, e i soli suoni al mondo erano gli indeboliti uggiolii di Parvati-Laylah, mentre le contrazioni s’accumulavano su di lei come montagne, e pareva che lei ci stesse chiamando dal fondo di un lungo tunnel di dolore, e io intanto sedevo a gambe incrociate squassato dalla sua sofferenza e con il suono senza suono del tic, tac nel cervello, e nella baracca il trio delle contorsioniste versava acqua sul corpo di Parvati per reintegrare quella che sgorgava da lei a fontane, e le infilava un bastoncino tra i denti perché non si mordesse la lingua e cercava di abbassarle le palpebre sugli occhi che uscivano così spaventosamente dalle orbite da far temere al trio che cadessero e finissero per sporcarsi sul pavimento, e poi giunse il dodicesimo giorno e io ero quasi morto di fame mentre in un altro punto della città la Corte suprema informava la signora Gandhi che non era obbligata a dimettersi prima della sentenza d’appello, ma non poteva né votare al Lok Sabha né ricevere stipendio, e mentre il Primo ministro, esultante per questa vittoria parziale, cominciava a insultare gli avversari in un linguaggio di cui la donna di un pescatore koli sarebbe stata orgogliosa, le doglie della mia Parvati entrarono in una fase in cui, nonostante l’estrema spossatezza, lei trovò l’energia per far uscire una sfilza di fetide imprecazioni dalle proprie labbra ormai private d’ogni traccia di colore, e il tanfo di fogna delle sue oscenità invase le nostre narici e ci fece vomitare, e le tre contorsioniste fuggirono dalla baracca strillando che era ormai talmente tesa e talmente pallida da essere diventata quasi trasparente, e che sarebbe certamente morta se il bambino non fosse venuto fuori subito, e nelle mie orecchie il tic, tac il martellante tic, tac finché non ne fui sicuro, sì, presto presto presto, e quando il trio tornò al suo capezzale la sera del tredicesimo giorno gridarono Sì sì aveva cominciato a spingere, dài Parvati, spingi spingi, e mentre Parvati spingeva nel ghetto, Morarji Desai e J.P. Narayan pungolavano Indira Gandhi, e mentre il trio strillava spingi spingi spingi i capi del Janata Morcha esortavano la polizia e l’esercito a disobbedire alla squalificata Primo ministro, e quindi in un certo senso costringevano la signora Gandhi a spingere, e mentre la sera s’oscurava avvicinandosi alla mezzanotte, perché nelle altre ore non accade mai nulla, il trio cominciò a gridare sta venendo sta venendo sta venendo, e altrove anche il Primo ministro stava mettendo al mondo un figlio... Nel ghetto, nella baracca accanto alla quale io sedevo a gambe incrociate quasi morto di fame, mio figlio stava venendo venendo venendo è già fuori la testa, strillò il trio, mentre membri della polizia della riserva centrale arrestavano i capi del Janata Morcha, comprese le figure insopportabilmente antiche e quasi mitologiche di Morarji Desai e di J.P. Narayan, spingi spingi spingi, e nel cuore di quella terribile notte mentre il tic, tac martellava nelle mie orecchie nacque un bambino, una vera lampuga da dieci cocuzze, che finì per saltar fuori con tanta disinvoltura che non si riusciva proprio a capire quale fosse stato il problema. Parvati emise un ultimo debole urletto e lui saltò fuori, mentre in tutta l’India i poliziotti stavano arrestando gente, tutti i capi dell’opposizione tranne i membri del Partito comunista filosovietico, e anche insegnanti avvocati poeti giornalisti sindacalisti, insomma tutti quelli che avevano commesso l’errore di starnutire anche una sola volta durante un discorso di Madame, e quando le tre contorsioniste ebbero lavato il neonato e lo ebbero avvolto in un vecchio sari per portarlo da suo padre, esattamente nello stesso istante, si udì per la prima volta la parola Emergenza, e sospensione-dei-diritti-civili e censura-sulla-stampa e unità-blindate-in-stato-d’allarme e arresti-di-elementi-sovversivi; qualcosa stava finendo e qualcosa nasceva e nel preciso momento della nascita della nuova India e dell’inizio di una mezzanotte che si sarebbe prolungata senza interruzione per due lunghi anni, venne al mondo mio figlio, il frutto del nuovo tic, tac.

C’è dell’altro: perché Saleem Sinai quando, nella tenebrosa penombra di quella mezzanotte prolungata all’infinito, vide per la prima volta suo figlio, si mise a ridere in maniera incontrollabile, con il suo cervello sicuramente sconvolto dalla fame, ma anche dalla consapevolezza che il suo implacabile destino gli aveva giocato un altro dei suoi grotteschi scherzetti; e benché Picture Singh, scandalizzato dalla mia risata che, data la mia debolezza, assomigliava molto ai risolini di una scolaretta, gridasse ripetutamente: «Su, capo! Non fare il matto, adesso! È un maschio capo, sii felice!», Saleem Sinai continuò a reagire alla nuova nascita ridacchiando istericamente al destino, perché il ragazzo, il ragazzo appena nato, il ragazzo-mio-figlio Aadam, Aadam Sinai era perfettamente formato – a parte le orecchie. Ai due lati della sua testa penzolavano protuberanze uditive simili a vele, orecchie così fantasticamente enormi che le tre contorsioniste raccontarono in seguito che, vedendo venir fuori la testa, l’avevano creduta, per un brutto momento, la testa di un elefantino.

«... Capo, Saleem» supplicava Picture Singh. «Calmati adesso! Non ha senso impazzire per un paio d’orecchie!»

Nacque a Nuova Delhi... tanto tempo fa. No, non va bene, impossibile sfuggire alla data: Aadam Sinai arrivò in un ghetto oscurato dalla notte il 25 giugno 1975. E l’ora? Anche l’ora è importante. Come ho già detto, di notte. No, bisogna essere più... Allo scoccare della mezzanotte, in effetti. Le lancette dell’orologio congiunsero i palmi. Oh, diciamolo chiaro, diciamolo chiaro: emerse nell’istante preciso in cui l’India pervenne all’Emergenza. Ci fu chi boccheggiò; e, in tutto il paese, silenzi e paure. E grazie alle tirannie occulte di quell’ora tenebrosa, venne misteriosamente ammanettato alla storia e il suo destino si legò indissolubilmente a quello del suo paese. Arrivò non profetizzato e non celebrato; nessun Primo ministro gli scrisse lettere, comunque, proprio mentre il mio periodo di connessione era ormai prossimo alla fine, cominciò il suo. E, naturalmente, non gli lasciarono la possibilità di dire la sua; dopo tutto, allora non era neanche in grado di asciugarsi il naso.

Era il figlio di un padre che non era suo padre; ma anche il figlio di un’epoca che aveva talmente sconvolto la realtà che nessuno riuscì più a rimetterla in sesto;

Era il vero pronipote di suo bisnonno, ma l’elefantiasi lo colpì alle orecchie anziché al naso – perché era anche il vero figlio di Shiva-e-Parvati; era Ganesh dalla testa d’elefante;

Era nato con orecchie che penzolavano così in alto e così in fuori da permettergli con ogni probabilità di udire le sparatorie nel Bihar e le grida dei portuali di Bombay aggrediti a colpi di lathi... un bambino che udiva troppo, e che di conseguenza non parlò mai, talmente ammutolito da questo eccesso di suono che da allora a oggi, dal ghetto alla fabbrica di pickle, non l’ho mai sentito pronunciare una sola parola;

Era in possesso di un ombelico che aveva deciso di sporgere invece che di rientrare, tanto che Picture Singh, atterrito, gridò: «Il suo bimbi, capo! Guarda il suo bimbi!» e che lui divenne, sin dai suoi primi giorni, il grazioso oggetto del nostro sacro timore;

Un bambino così solennemente buono da conquistarsi, con il suo rifiuto assoluto di piangere o di gemere, il padre adottivo, il quale smise di ridere istericamente delle sue orecchie pendule e cominciò a cullare teneramente tra le braccia il taciturno neonato;

Un bambino che, dondolando tra le sue braccia, udì una canzone, cantata con gli accenti storici di una ayah disonorata: «Quel che vuoi essere, tu puoi esserlo; puoi proprio essere tutto ciò che vuoi».

Ma adesso che ho messo al mondo il mio taciturno figliolo dalle orecchie pendule – ci sono domande che attendono risposta su quell’altra, sincronica nascita. Domande sgradevoli, imbarazzanti; il sogno di Saleem di salvare la nazione filtrò forse, attraverso i tessuti osmotici della storia, nei pensieri del Primo ministro? La mia fede di sempre nell’equazione tra me stesso e lo Stato, si tramutò forse, nella mente di “Madame”, nella frase allora famosa: L’India è Indira come Indira è l’India? Eravamo in concorrenza per una posizione di centralità – e lei era forse vittima di un’avidità di significato profonda quanto la mia – e fu questo, fu per questo che...?

Influenza delle acconciature sul corso della storia: è un’altra questione delicata. Se William Methwold non avesse avuto la scriminatura centrale, io forse oggi non sarei qui; se la Madre della nazione avesse avuto una chioma di pigmenti uniformi, l’Emergenza da lei generata sarebbe stata probabilmente privata del suo lato più oscuro. Ma aveva capelli bianchi da una parte e neri dall’altra; e anche l’Emergenza aveva un suo lato bianco – pubblico, visibile, documentato, materia per gli storici – e un lato nero che, essendo segreto macabro taciuto, non può che essere materia per noi.

La signora Indira Gandhi nacque nel novembre 1917 da Kamala e Jawaharlal Nehru. Il suo secondo nome era Priyadarshini. Non era parente del Mahatma M.K. Gandhi; il cognome era un’eredità del suo matrimonio, avvenuto nel 1942, con un tal Feroze Gandhi, che fu soprannominato “il genero della nazione”. Ebbero due figli, Rajiv e Sanjay, ma nel 1949 lei tornò a vivere con il padre e divenne la sua “padrona di casa ufficiale”. Anche Feroze tentò di vivere lì, ma senza alcun successo. Divenne così un feroce oppositore del governo Nehru, svelando lo scandalo Mundhra e costringendo alle dimissioni l’allora ministro delle finanze T.T. Krishnamachari – «T.T.K.» in persona. Feroze Gandhi morì d’un colpo apoplettico nel 1961, a quarantasette anni. Si è spesso raccontato che il figlio minore della signora Gandhi, Sanjay, accusò la madre di essere responsabile, con il suo abbandono, della morte di suo padre; e che questo gli diede un potere assoluto su di lei, rendendola incapace di rifiutargli qualsiasi cosa. Sanjay Gandhi e sua moglie Menaka, un’ex indossatrice, ebbero un ruolo rilevante durante l’Emergenza. Il movimento giovanile Sanjay fu particolarmente efficiente nella campagna per la sterilizzazione.

Ho incluso questa sintesi un po’ elementare nell’eventualità che non vi siate resi conto che il Primo ministro indiano era, nel 1975, da quindici anni una vedova. O (la lettera maiuscola può infatti essere utile) una Vedova.

Sì, Padma; Madre Indira ce l’aveva proprio con me.