Capitolo 7
Tess
Conciata con l’abito dorato da puttana ho dovuto arrampicarmi sul sedile anteriore di un SUV che ai miei occhi è un mostro di altezza. Ma dentro, devo ammettere che è veramente confortevole. Caldo e accogliente. Niente sedili in pelle o altre raffinatezze del genere, solo robusto e pregiato tessuto e odore di pulito. E non solo odore. Questa macchina è così tirata a lucido, che sono più che certa che nessuno ci abbia mai neanche masticato una gomma, altro che mangiare. Se la paragono al cassone che usiamo io e mia madre per muoverci, mi sento quasi male.
«Che dobbiamo fare?» bofonchio. Non capisco proprio il motivo per cui ha dovuto farmi mettere in ghingheri, se poi devo affrontare un viaggio lungo e stancante. Richmond è lontanissima e raggiungerla in macchina sarà estenuante. Oh, certo, come ho potuto dimenticarlo! Mi ha resa più appetibile per la consumazione. La sua, anzi la mia. Di me, insomma!
Ma c’è ancora tempo. Lo sbircio di sottecchi mentre si siede. Sembra perfettamente calmo e a proprio agio. Non credo che vorrà fermarsi in mezzo alla strada e alzarmi il vestito fino alle cosce. Non se la godrebbe abbastanza. Probabilmente il tutto non avverrà prima di sera in uno squallido motel. Avrà tutta la notte davanti per farmi del male e rubarmi tutti i sogni.
Mi stringo nella pelliccetta sintetica che Bonnie ha scelto per completare il mio abbigliamento da puttana. È nera, folta e morbida, sa di un profumo costoso che mi fa venire in mente seduzione e sesso. Mi ha dato anche una borsetta talmente piccola in cui ho potuto infilare solo il telefono e un fazzoletto.
Mi viene quasi da piangere ma non posso farlo. Mi sforzo di pensare che resisto solo per non rovinare il trucco trasformandomi in una maschera patetica, ma non è solo questo. Lasciandomi andare alla disperazione gli darei anche la soddisfazione di sapere che sono fottutamente preoccupata. Terrorizzata.
«Devo passare a casa a prendere delle cose» m’informa senza neanche guardarmi.
È entrato in macchina al posto di guida e ha già messo le mani sul volante. Questo SUV sembra fatto apposta per lui, è dalle dimensioni esagerate. Credo proprio che uno come Kain Byrne non potrebbe avere niente di meno. La pulizia che c’è qui dentro mi fa pensare che sia un tipo meticoloso. E non so se per me rappresenti un bene o un male…
«Che cose?» domando, tanto per distrarmi, non che realmente m’interessi.
Mi guarda di traverso un po’ divertito. Quando sorride, anche se lo fa per prendermi per il culo, ha qualcosa di affascinante. Affascinante e terrificante. Vorrei tanto togliergli quel sorrisino dalla faccia con uno schiaffo sonoro, ma sono certa che prima ancora di assestarglielo intercetterebbe il mio braccio a mezz’aria.
«Vestiti, armi…»
«Armi?» chiedo allarmata.
«Non fare la stupida, quando attraverseremo posti desolati sarai felice che io sia passato da casa a prendere delle armi.» Deglutisco, forse ha ragione. Per esempio, se avessi avuto un’arma migliore della mazza di legno che tengo nella roulotte, probabilmente adesso non sarei in questa situazione. Ma forse ancora non si rende conto che per il momento, il pericolo maggiore per me è rappresentato proprio da lui.
Dopo la parte delle armi non ho più domande da porgli e sprofondiamo entrambi nel silenzio, interrotto solo dai rumori della guida. Percorriamo un tratto di strada desolato a tutta velocità. Mi basta per capire che Kain Byrne guida decisamente come un matto.
«Per tua informazione non ho intenzione di morire oggi» gracchio con le mani agganciate al tessuto del sedile. Sono sudate nonostante il freddo.
«Non morirai, stupida.» Si prende gioco di me. Continua a farlo, il maledetto.
Dopo un quarto d’ora di rettilinei a velocità impazzita e curve da pilota di gran premio, frena davanti a una casetta modesta a un piano in mezzo al nulla. E quando dico nulla, intendo proprio che non ha vicini, neanche l’ombra. Solo il deserto come compagno di vita.
«Abiti qui?»
Non si prende la briga di rispondere, scende e basta dalla macchina. Si conferma cafone e maleducato. Non che dobbiamo fare per forza conversazione, ma almeno le basi!
Sono pronta per scendere anch’io e magari dirglielo, ma succede qualcosa che mi coglie alla sprovvista. Kain fa il giro della macchina e apre lo sportello dal mio lato. Si sporge nella mia direzione entrando con il busto nell’abitacolo. No, cosa succede? Non vorrà mica… baciarmi? Accade tutto rapidamente, con il cuore che mi batte forte nel petto. Ma, a sorpresa, mi prende il braccio sinistro e fa tintinnare qualcosa. Qualcosa che gli è comparsa all’improvviso nella mano. Vedo il bagliore e poi sento lo scatto. Non ci posso credere! Questo figlio di puttana mi ha ammanettata al volante!
«Brutto stronzo, cosa stai facendo?»
Sul suo viso compare quell’odioso sorriso, di nuovo. «Credevi che ti stessi baciando!»
Come ha fatto ad accorgersi di quello che stavo pensando? Impossibile.
«Non è affatto vero» mi difendo mentendo.
Lui non replica e continua a sorridere in quel modo insopportabile. Lo so io e lo sa lui che per un attimo ho creduto che…
«Mi assicuro solamente che la mia garanzia non scappi.» Lo dice come se fosse la cosa più naturale del mondo lasciare una donna ammanettata al volante di una macchina in pieno deserto. Lo guardo allontanarsi verso la casa senza voltarsi neanche una volta. Nonostante senta di odiarlo e ne sono certa fino al midollo, fin dentro le viscere, il mio sguardo è calamitato dalle sue spalle. Ha un giubbotto di pelle che sottolinea quanto siano potenti. La linea del busto degrada verso la vita e poi verso il culo fasciato nei jeans. Ha un gran bel culo sodo Kain Byrne.
Mi volto indignata con me stessa. Lo odio, non posso pensare contemporaneamente che abbia un bel culo. È da schizofrenici.
Inspiro lentamente per cercare di calmarmi, ma è tutto inutile. Forse dovrei smettere di combattere questa situazione. D’altronde, non ho le forze per oppormi a quello che sta accadendo. Non c’è niente che sia in mio potere. Certo, posso sempre cercare di scappare, ma in questo momento sarebbe assurdo sprecare energie nel tentativo di farlo. Le manette lo rendono impossibile e, anche se mi slogassi un polso o entrambi nel tentativo di sgusciarvi fuori, Kain è troppo vigile e troppo preparato a una mia ribellione. Devo cogliere il momento giusto, quando abbasserà la guardia e io potrò prenderlo di sorpresa.
So solo una cosa, che non mi sottometterò mai a lui. Mai e poi mai.
Ma devo pianificare tutto per bene. Devo ragionare. Se la mia fuga fosse scoperta subito, mia madre sarebbe in pericolo. La prenderebbero e farebbero a lei quello a cui mi sono sottratta io. Invece, se riuscissi a metterlo KO il tempo sufficiente per tornare indietro, raggiungerla e scappare insieme… ma scappare dove? Stringo gli occhi frustrata. Non posso mettermi così tanti problemi davanti e tutti insieme, altrimenti rischio di perdere le speranze. Un passo alla volta, devo ragionare con freddezza e concentrazione. Trascorrono circa venti minuti durante i quali ho contato per l’ennesima volta le assi scrostate della staccionata, quando Kain ricompare. Ha un borsone nero in spalla e uno delle stesse dimensioni che gli pende dal braccio. Apre il portabagagli e li fa atterrare entrambi. Uno dei due produce un tonfo inequivocabile e un altrettanto distinguibile rumore metallico. Kain prende posto nel sedile. Si è fatto la doccia e si è cambiato. Odora di sapone e pulito.
«Mi sono dato una rinfrescata anch’io» dice candidamente togliendomi le manette.
Vorrei essere più arrabbiata di quello che sono, fare una faccia più offesa e oltraggiata, ma proprio non ci riesco. Kain ha un fascino crudo e rozzo e averlo accanto mi fa venire voglia di qualcosa che neanche io so definire. Poi però mi ricordo tutto a un tratto quello che sono per lui: una garanzia e una scopata da ricordare. Certo, non capita tutti i giorni di farsi una vergine. Basta questo a raffreddarmi all’istante.
«Hai finito con le soste?» chiedo inacidita. Per tutta risposta tace e prosegue sulla strada. La mia curiosità è soddisfatta poco dopo. Ferma la macchina accanto a una lavanderia a gettoni.
«Adesso puoi scegliere se scendere o restare in macchina.»
Non ho il minimo dubbio, non resterò un’altra volta qui dentro ammanettata come una delinquente. Scendo, con lui che mi tiene d’occhio. Anche se non lo facesse, non tenterei mai la fuga qui e adesso. Mi prenderebbe subito, sarebbe da stupidi. Questi tacchi sono quanto di più scomodo abbia mai portato nella mia vita.
Apre il portabagagli e tira fuori uno dei due borsoni. Sono fuori luogo in questo posto con il mio vestito dorato, la pelliccia nera e le scarpe eleganti, ma a Kain non importa niente. Decido di fregarmene anch’io. D’altronde, sono qui contro la mia volontà, l’ultima cosa di cui devo preoccuparmi è l’abbigliamento.
Entriamo nella lavanderia. Tutte le macchine sono schierate con i loro oblò giganti pronti a ingoiare la biancheria degli sconosciuti che non hanno una lavatrice in casa. Io le uso meno che posso, per risparmiare. Di norma lavo tutto a mano e stendo nel filo che ho teso tra i due salici piangenti davanti alla roulotte. Mia madre in genere non lava quasi niente, se non le mutandine e i reggiseni. Non so come faccia.
Mi siedo su uno dei sedili di plastica mentre Kain carica la lavatrice. Sembra che lo abbia fatto molte volte, si vede che è piuttosto pratico. Da come è piegato devo ammettere che la prima impressione che abbia un culo notevole non può che essere confermata. Si rialza e io faccio appena in tempo a distogliere lo sguardo. Ci manca che, dopo avermi fatto credere che stava per baciarmi, mi sorprenda a fissargli il fondoschiena.
«Ci vuole un’ora e trenta in tutto» dice sedendosi accanto a me.
«Lo so» rispondo. Mi guarda e mi sento in dovere di precisare. «Anche io ogni tanto porto la roba a lavare, sai?»
«Credevo che facessi il bucato a mano in roulotte» mi sfotte.
«Sei molto spiritoso.»
Stiamo zitti entrambi per qualche minuto mentre l’oblò gira.
«Hai detto cha lavori per una vecchia.»
Sbuffo. «Non è una vecchia, è una donna anziana molto gentile, la signora Appleburne.»
«Ma ci sta con la testa?»
Che razza di domanda è? Lo guardo. Mi sta osservando mentre aspetta una risposta. «No, cioè, non sempre, delle volte crede che io sia sua sorella e…»
«Ah, ecco, è gentile perché si scorda di chi sei veramente ogni volta.»
«Non è così - rispondo acida – è gentile perché la tratto bene e ho rispetto per lei.» Le sono anche affezionata, se è per questo, ma non starò qui a dirlo a lui. Quest’uomo non deve neanche intuire il significato dell’espressione volere bene a qualcuno.
Poi mi scappa un pensiero a voce alta. «Mi dispiace solo che adesso non ci andrà nessuno a darle assistenza, almeno per qualche giorno, fino a quando sua figlia non le troverà un’altra badante.» Forse May potrebbe fare qualche doppio turno, ma è molto improbabile che accetti. Mi pento immediatamente di averlo reso partecipe delle mie preoccupazioni. Cosa può importargliene a lui?
«Ci potrebbe andare tua madre» butta lì con semplicità.
Mi viene quasi da ridere. Se conoscesse mia madre, non potrebbe mai pensare niente di simile. «Non farebbe mai un lavoro del genere, neanche se stesse morendo di fame.»
«Considerato che stavolta il lavoro ve lo siete scambiato e che neanche il tuo sarà una passeggiata…» Non posso credere che lo abbia davvero detto. Alzo il viso e lo rivolgo nella sua direzione con una delle facce più oltraggiate che abbia mai fatto in vita mia. Sono sicura di trovarlo con quel sorrisino spocchioso sul volto, invece stavolta Kain è mortalmente serio. Non scherza. Mi guarda con profondità e i suoi occhi sono un abisso di mistero. Il pomo di Adamo si abbassa su e giù sotto il tatuaggio in una maniera inquietante. Abbasso lo sguardo improvvisamente consapevole della mia paura.
Sta parlando di quello che pretenderà. Da me. E non manca poi molto.
«Senti, se le sei così affezionata, alla vecchia intendo, falle un favore e dille che per qualche giorno non andrai a lavorare.»
Sta dicendo sul serio? Da dove viene tutta questa improvvisa cortesia?
Ancora una volta sembra leggermi nel pensiero. «Consideralo un favore.» Non sto a chiedermi cosa dovrò fare per ricambiarlo e tiro fuori il telefono dalla borsa prima che ci ripensi. Ma con una mossa a sorpresa me lo strappa di mano.
«Ma che fai?» lo aggredisco.
«Questo lo tengo io» replica tranquillamente infilandoselo in tasca. Adesso ho davvero voglia di graffiargli tutta la faccia, di farlo sanguinare lentamente e a lungo.
«Non vorrei che ti venisse in mente qualche strana idea.»
«Non puoi prenderlo!»
Mi si inumidiscono gli occhi. E non capisco perché. Quest’uomo mi farà di molto peggio e già lo so e io sto per mettermi a piangere solo perché mi sta portando via il telefono? Non posso permetterlo. Ricaccio indietro le lacrime ingoiando il magone mentre mi sento impotente come non accadeva da parecchio tempo. Il telefono non c’entra niente, lo so. È tutto quello che mi sta capitando che non riesco più a sopportare. Non solo vivo una vita di stenti arrabattandomi dalla mattina alla sera per mettere insieme il pranzo con la cena, senza tra l’altro riuscirci sempre. No, non bastava. Ora mi trovo anche rapita da quest’uomo e completamente in balia della sua volontà. Vorrei gridare e piangere fino a farmi venire via la voce, sbattere i piedi per terra fino a non avere più lacrime e forze.
Mi porge di nuovo il telefono con una faccia che dice “se solo provi a fare una mossa sbagliata la pagherai cara
”. E per un momento sembra anche un gesto carino, quasi di gentilezza. Se non fosse per quello che dice subito dopo.
«Attenta.» Il tono è pieno di minaccia.
Non vorrei avere bisogno di lui, per nessun motivo al mondo ma purtroppo ne ho. Ha ragione, se voglio avvertire la signora Appleburne che domani non andrò da lei devo prendere questo maledetto telefono e chiamare sua figlia. Glielo strappo quasi di mano e mi sembra di vedere un’ondata di soddisfazione stampata su quella faccia da schiaffi.
Compongo il numero che conosco a memoria. È quello della figlia della signora Appleburne con la quale tengo i contatti. A differenza di sua madre è una donna insopportabile, una zitella acida che non mi ha affatto in simpatia. La cosa è reciproca. Anche io fondamentalmente la detesto. Non ha alcun rispetto per sua madre, la tratta come un oggetto vecchio e inutile parlando di lei come se non capisse.
Quando le spiego che non potrò svolgere il mio lavoro domani e nei prossimi giorni, lei non sembra affatto sorpresa.
«Me lo immaginavo, che prima o poi mi avresti lasciato in mezzo ai guai» dice in tono di accusa, come se le avessi mai dato motivo di inaffidabilità.
«Non starò certo qui a conservarti il posto.»
Non riesco a replicare nulla prima che attacchi il telefono.
Mi volto verso Kain che ha una faccia incuriosita che prenderei a schiaffi.
«Tutto ok?»
«Un cacchio» rispondo. «Ho appena dovuto rinunciare alla sola fonte di reddito che ho. Per colpa tua.»
«È inutile che te ne preoccupi.»
«Che vuoi dire?»
«Che finché sarai con me, penserò a tutto io.»
Lo dice guardandomi fisso negli occhi, con una serietà che mi fa tremare le ginocchia. Le sue parole mi trafiggono inaspettate e piene di oscure promesse. Dovrei farmela sotto dalla paura ma non ci riesco. Mi sento stordita da una strana eccitazione, come se Kain Byrne mi avesse appena fatto una solenne promessa.