Pranzo alla Garbatella

Fulvio Treves era un uomo mastodontico, con una faccia enorme e una bocca che sembrava in grado di poter ingurgitare di tutto: cibo, oggetti e persone.

Gli uffici della sua produzione erano vicini alla Garbatella. Ci ha portato a pranzo in una trattoria dall’aspetto piuttosto lurido, dove ha ordinato per tutti un assaggetto di fave e pecorino, puntarelle, alici, supplì e fiori di zucca fritti. Quell’antipasto da solo sarebbe bastato per sfamare due famiglie, ma lui ha insistito per ordinare anche tre piatti di tonnarelli alla gricia, e per secondo coda alla vaccinara per sé, abbacchio allo scottadito per te, e per me pajata con un pochetto de carciofi alla giudia, perché in quella trattoria – ha voluto spiegarmi – la pajata la facevano davvero come dio comanda.

Durante il pranzo ci ha fatto qualche domanda distratta, sondando i nostri gusti in fatto di cinema, impegnato più che altro ad agguantare le pietanze dal piatto – spesso usando le grosse dita invece delle posate – per farle poi sparire tra le labbra unte. Io guardavo il cibo entrare senza interruzioni in quella bocca che tutto triturava e inghiottiva, e pensavo che presto o tardi avrebbe ingoiato anche noi, proprio come ogni cosa che si ritrovava davanti: ci avrebbe masticati e fatti sparire in quel suo stomaco pantagruelico, e di noi non sarebbe rimasta traccia, se non nei suoi escrementi.

Alle sue domane rispondevi quasi solo tu. Io continuavo a riempirmi il bicchiere di vino e a scolarlo con metodo. A metà pranzo ero già ubriaco. Quando ha finito la sua coda alla vaccinara, si è pulito la bocca con il tovagliolo e ha guardato il mio piatto, che non avevo quasi toccato.

“Che, nun te piace?”

“Sono già pieno.”

“Armeno un dorcetto t’o magni però.”

Dopo il caffè ha chiesto una bottiglia di mistrà, una specie di sambuca molto alcolica che ha fatto di nuovo impennare la mia sbronza, ormai in fase stagnante. Lui, soddisfatto, ha buttato il tovagliolo sulla tavola, ha abbandonato il dorso sullo schienale della sedia, che ha scricchiolato in maniera preoccupante, e ha finalmente tirato fuori il motivo per cui ci aveva fatti andare a Roma.

“Er film vostro m’è piaciuto. Certo, ce stanno ’n sacco de ingenuità, ma questo è naturale. È n’opera prima, ancora acerba, e in più, se vede, girata co’ du lire. Però c’è qualcosa che t’acchiappa e te rimane in testa. ’Sti giorni ce stavo a ripensa’ e me chiedevo, a Fu’, ma che te piace de ’sto film? E mo’ ce so’ arivato.”

Ci ha studiato con i suoi occhietti appuntiti, mentre le dita recuperavano dalla tovaglia un pezzo di pane che si è ficcato in bocca con un gesto furtivo.

“Embe’? Nun volete sape’ che è?”

Mi hai lanciato un’occhiata, poi gli hai detto: “Certo. Siamo molto curiosi di saperlo.”

“Er genere.”

“Come?”

“Er noir!” e qui si è sporto di nuovo in avanti, premendo il ventre sul bordo della tavola. “Sto a parla’ dei firm de mala francesi, o de gangster americani. Siodmak, Hawks, Anthony Mann. Oh, ma pure Orson Welles o er primo Kubrick, quello der bacio dell’assassino. I giochi de luci e ombre, er senso da’ predestinazione, fatemelo di’, da traggedia greca. Ecco che m’è piaciuto der firm vostro. ’A cifra nera che però c’ha dentro ’na bella dose de ironia e ce so’ dei momenti, oh, ve lo sto a di’ come un complimento, che pare quasi ’na commedia.”

A quel punto ha preso fiato e tu ti sei sentito in dovere di dire qualcosa. “Be’, in effetti” hai cominciato, ma lui ha ripreso senza lasciarti spazio: “Eh sì, ’sta scerta m’ha ’ntrigato. Perché chi lo usa er noir oggi, in Italia? So’ anni ormai che nun s’o fila più nessuno, proprio come ’l western, l’horror e tutto er cinema de genere. Me capita spesso de parlanne co’ Lucio. Lucio Fulci, c’avete presente?”

“Come no” hai risposto. “Certo.”

“Eh, c’ha ’na gran testa, Lucio, e pure ’na cultura spaventosa. E semo d’accordo su sta cosa der genere. Vabbe’, ce sta Dario, ma lui più che er noir sta a fa’ l’horror. Poi ce so’ pure Bava, Tessari, Di Leo, ma so’ eccezioni, per il resto vojono tutti fa’ l’autori. Nun se ne po’ più. Aho, mica ne viene ar monno uno ogni giorno de Bertolucci o de Fellini! Dico bene? Io j’o dico sempre, a quelli che vojono che je produco ’n film: c’avete da riparti’ dar genere! E invece questi nun c’hanno la pazienza de fa’ la gavetta, se pensano de diventa’ subito maestri. Ma è n’errore, perché er genere t’offre ’n sacco de possibilità. E voi, che siete due svegli, l’avete capito.”

Tu hai accennato un sorriso di gratitudine, un po’ imbarazzato, poi mi hai guardato, alla ricerca di un segno qualsiasi. Ma io ti ho ignorato. Mi divertivo a tenere gli occhi puntati sul grassone. Mi ero accorto che se lo fissavo tendeva a evitare il mio sguardo. Evidentemente preferiva essere lui a gestire il gioco. La sua tecnica era affogarti in un diluvio di parole e lanciarti delle rapidissime occhiate per studiare le tue reazioni.

Ha scolato il bicchierino di mistrà, si è leccato le labbra e ha riattaccato: “Insomma, pe’ farla breve, quello che c’ho ’n testa de proporvi è ’n film su Pierpaolo.”

Hai alzato le sopracciglia. “Pierpaolo... Pasolini?”

“Eh certo! In particolare su come l’hanno accoppato. È per questo” ha detto, battendo più volte la spessa punta dell’indice sulla tavola “che ho pensato a voi. Perché io nun vojo fa’ sortanto un film politico. Certo, politico sarà, ce mancherebbe, ma c’ha da esse’ pure er mistero, er sangue e l’intrallazzi de tutti quei carognoni che lo volevano morto. Er noir, insomma!”

Treves, con un sorriso soddisfatto delle labbra, su cui sfarfallava una briciola di pane, ci ha guardati, passando lo sguardo dall’uno all’altro. Poi ha ripreso: “Io ve posso presenta’ ’n sacco de gente che lo conosceva bene, a Pierpaolo, e che sa come so’ annate veramente le cose. La polizia nun l’ha ascortati, a quelli nun je fregava ’n cazzo de pija’ i veri responsabili. Ma noi, con sto film, c’avemo la possibilità de fa’ veni’ fori la verità. Allora, che me dite?”

Io sono restato in silenzio, quindi hai risposto tu.

“Be’, in effetti ci sono tutti gli elementi del noir sociale. Io penso che possa venire un buon film. Un film che apre una discussione.”

Lui ha tirato una manata sulla tavola. “Eh, proprio quello che c’ho in mente io!” Poi si è voltato verso di me. “Er socio tuo è sveglio, damme retta. E te, che penzi?”

Io ho sorriso, o almeno ho tentato, perché l’alcol del mistrà mi aveva anestetizzato le labbra, e con la lingua impastata ho risposto: “Sinceramente, a me sembra una gran stronzata.”