Rupert
Novembre 1946

«Lei come ti è sembrata?».

«Mi è parsa simpatica». Rifletté un istante e poi aggiunse: «Ha delle bruttissime mani. E tutti quegli anelli che le ha regalato Edward peggiorano la situazione».

«Oh, Zoë! Io non me ne sono nemmeno accorto».

«Me l’hai chiesto tu».

«Dicevo in senso più generale».

Erano in macchina e percorrevano West End Lane: era tardi e c’era molta nebbia.

«È un po’ l’opposto di Villy, ti pare? Nell’aspetto, quantomeno».

«Degli occhi stupendi», osservò lui. «Un azzurro come di campanula. Be’, non ti sarai aspettata che somigliasse a Villy».

«Non saprei. Di solito agli uomini piace sempre lo stesso tipo di donna, credo. In certe cose poi si somigliano, in effetti».

«Per esempio?».

«Be’, anche lei è un po’ melodrammatica. Una primadonna, direbbe la Duchessa».

«Io non me ne sono accorto affatto...», fece per replicare Rupert, ma lei lo interruppe.

«Ma sì, riguardo alla sincerità! Ha parlato sempre di quant’è importante dire la verità, essere diretti, dire quello che si pensa, e cose del genere».

«Insomma non ti è simpatica».

«Non mi è nemmeno antipatica».

«Oh be’. Non è che dobbiamo diventare amici intimi. Edward voleva che la conoscessimo. E ci siamo andati».

«Dovremo ricambiare, però, e stare bene attenti a non dire a Villy che l’abbiamo conosciuta».

«E anche a Hugh», disse lui. «Accidenti».

Erano quasi arrivati in fondo alla strada e senza accorgersene erano stati sommersi dalla nebbia fitta. Rupert rallentò bruscamente e per poco non andò a sbattere contro un’auto parcheggiata.

«C’è nebbia come prima della guerra!».

«Controlla tu sulla sinistra, se ci sono altre macchine parcheggiate. Abbassa il finestrino».

Lei obbedì e un odore acre invase l’interno dell’auto. «Non vedo a più di un metro da me», disse. «Va’ più piano».

I radi lampioni emanavano opache macchie di luce giallastra su cui sembrava che la nebbia s’avventasse, contorcendosi come se qualcuno ve la soffiasse contro, anche se in realtà non c’era un filo di vento. Dopo qualche minuto accostò al marciapiede. «Voglio una sigaretta», disse. «E poi devo pensare a qual è la strada migliore. Ci vorranno ore per arrivare a casa».

«Magari a un certo punto finisce. Me ne dai una?».

«Certo. Alza il finestrino, cara. Intanto che ci pensiamo non c’è bisogno che ti congeli».

«Si potrebbe tentare di andare dalla Duchessa», suggerì una volta accesa la sigaretta. «È molto più vicino. Non abbiamo una torcia, vero?».

«Purtroppo l’ho data a Jules, per fare l’orco con la torcia».

«In alternativa possiamo passare per Edgware Road, Marble Arch e Bayswater Road. Sono tutte strade grandi. Quindi più illuminate e senza macchine parcheggiate».

«Ma la nebbia non sarà ancora più fitta nelle vicinanze del parco?».

«È probabile. Be’, possiamo passare per Carlton Hill e vedere se...».

Sentirono un urto provenire da dietro. La macchina sussultò.

«Oh, cielo! Aspetta qui, cara».

Scese dalla macchina e una voce femminile disse: «Mi dispiace tantissimo! Cercavo di seguire il marciapiede e non vi ho proprio visti!». Sembrava anziana e spaventata.

«Quel che è fatto è fatto», disse Rupert. «Diamo un’occhiata al danno».

«Ho una torcia!».

Andò alla macchina e tornò con la torcia. Le luci posteriori della macchina erano entrambe a pezzi, il che, pensò Rupert con preoccupazione, avrebbe probabilmente causato altre collisioni.

«Mi dispiace tanto, davvero!», stava dicendo la signora. Nella luce tremula della torcia Rupert vide che aveva i capelli bianchi e indossava un abito da sera. «Se ha pazienza un secondo le scrivo il mio nome e indirizzo».

La seguì verso lo sportello aperto della macchina e vide che c’era un passeggero, un uomo che sembrava dormire della grossa ma che, quando lei afferrò la borsa, sollevò il mento dal petto per declamare con perfetta dizione: «Donne al volante, pericolo costante!», e poi ripiombò nel torpore.

«Mio marito stasera ha un po’ esagerato», disse la donna. Sembrava che scusarsi fosse la cosa che le riuscisse meglio. Gli porse il pezzo di carta su cui aveva scritto qualcosa.

«Deve andare lontano?». Cominciava a fargli pena.

«Oh, no. Non molto per fortuna. Abbiamo un appartamento in Abbey Road. Il portiere di notte mi aiuterà con lui. E voi?».

«Tutto a posto, grazie». Non desiderava procedere in tandem con lei e vide con grande sollievo che la cosa era reciproca.

«Devo andare ora», disse la donna. «La prego, mi contatti domani mattina per quei danni».

Solo dopo che la donna fu risalita in macchina e si fu allontanata, si accorse che aveva ancora in mano la sua torcia.

Zoë tremava. «Andiamo. Ho la sensazione che continueranno a venirci addosso».

Rupert disse che era meglio trovare una stradina laterale dove parcheggiare e poi andare a piedi.

«A piedi fino a casa?».

«No. Dalla Duchessa. Oppure da Villy, è anche più vicino».

«Ma non è meglio andarci in macchina, se non è lontano?».

Le disse delle luci posteriori. «In queste condizioni, se ci vengono addosso la colpa è nostra. Ed è probabile che succeda».

Si avviarono.

«Era sola, poveretta?».

«No. Aveva con sé un marito ubriaco».

«Sono felice che tu non sia ubriaco».

«Io pure».

La nebbia andava infittendosi.

«E se io scendessi dalla macchina e ti facessi strada con la torcia?».

«Proviamo. Ma mi raccomando, non starmi troppo lontana. Stiamo cercando una stradina qualsiasi sulla sinistra. Va bene?».

Non fu una buona idea. Continuava a perderla di vista e poi aveva il terrore di investirla o di investire qualcos’altro mentre era distratto dallo sforzo di capire dove fosse. Fermò la macchina e Zoë scomparve nella nebbia. Gridò e poco dopo lei ricomparve. «Non è il caso. Continuo a perderti di vista».

Lei risalì in macchina e ripresero a procedere a passo d’uomo.

«Da un momento all’altro dovrebbe esserci l’incrocio».

E infatti alla fine svoltarono. Rupert percorse pochi metri e poi parcheggiò. Il silenzio, quando spense il motore, era spettrale.

«Bene. Quelle scarpe non sono certo adatte a camminare, poverina!».

«Non è grave. Basterà andare piano».

«Questo non sarà un problema. Meno male che la signora ci ha lasciato la torcia».

«Che ce ne facciamo? È talmente debole... la batteria deve essere quasi esaurita».

«Almeno possiamo leggere le targhe delle strade, se ne troviamo qualcuna».

Attraversarono la strada e si trovarono di fronte al giardino di un’abitazione. Girarono a sinistra. «La targa dovrebbe essere qui all’angolo. Teniamo quello che resta della torcia per leggerla... Priory Road! È già qualcosa».

«Dobbiamo fare molta strada?».

«Nemmeno mezzo chilometro, direi. Almeno però domani sapremo dove venire a riprendere la macchina».

Ormai erano entrambi intirizziti: l’aria era tagliente e non riuscivano a camminare abbastanza in fretta da scaldarsi. Impiegarono più di un’ora per raggiungere l’angolo con Clifton Hill.

«Che ore sono?».

«L’una e venti. Andiamo da Villy, è più vicino».

Attraversarono Abbey Road e non trovarono la via.

«L’incrocio è questo. Deve esserci per forza!».

«Credevamo di andare dritto, e invece no. Dev’essere andata così».

Dopo alcuni andirivieni, la trovarono. «Casa di Villy è sulla sinistra, a circa metà della strada».

«È diversa dalle altre case. Non dovrebbe essere difficile riconoscerla».

E infatti la trovarono, percorsero il vialetto e suonarono il campanello. Al secondo squillo, videro accendersi una luce al primo piano e poi sentirono la voce di Villy dalla finestra aperta. «Chi è?».

Fu molto ospitale. Preparò loro dei punch caldi, disse a Zoë di togliersi le scarpe e le calze ormai inservibili e le diede delle pantofole. Cedette loro il suo letto, dicendo che avrebbe dormito in camera di Lydia. «Spero che la cena ne sia valsa la pena», disse a un certo punto, e Zoë replicò che invece no, era stata una gran noia. Diede una camicia da notte a Zoë e si scusò in un tono carico di sottintesi di non avere pigiami in casa.

La camera da letto di Villy era fredda e spoglia, un luogo privo di comodità, ma fu lo stesso un sollievo infilarsi a letto. Rupert pensò a quante storie avrebbe fatto un tempo Zoë, trovandosi in una situazione di quel genere, e quanto invece fosse stata brava adesso. Si sentì pieno di affetto per lei e l’attirò a sé. Ma lei si ritrasse istantaneamente. «Era solo un abbraccio», disse. All’improvviso si sentiva perduto.

«Sono i talloni. Li hai toccati e sono pieni di vesciche, tutti e due. Anzi, non ci sono più nemmeno quelle. Si sono aperte».

«Oh, cara! E non ti sei mai lamentata. Che ragazza buona ed eroica!».

«Oh, buona non saprei, ma un po’ eroica sì. Un altro metro e non ce l’avrei fatta». Gli poggiò la testa sulla spalla e sollevò il busto in modo che lui potesse passarle il braccio sotto e abbracciarla. «Comunque, ormai è finita». Poi lei osservò: «Nella vita reale le avventure sono così, no? Snervanti e noiose allo stesso tempo...».

«...ma migliorano quando ci ripensi a posteriori», completò lui. Vi fu un silenzio durante il quale Rupert pensò che non sempre era così, qualche volta era vero il contrario.

Fu lei a dirlo. «Non lo so. Non credo sia sempre vero».

«D’altronde nulla lo è».

«Cosa?».

«Sempre vero. Fine della conversazione. Ora si dorme».

Lei fece un piccolo sbadiglio con un verso acuto, si mise su un fianco e dopo qualche minuto dormiva.

Le cose vanno meglio, pensò lui.

La mattina dopo, la nebbia, sebbene non accennasse a svanire del tutto, s’era tuttavia diradata: gli autobus circolavano e così pure le macchine, coi fari accesi, e la gente camminava con la sciarpa fin sotto il naso. Mandò Zoë a casa in taxi, recuperò la macchina e diede inizio alla sua giornata, che consisteva in una visita dal dentista, un incontro con due architetti che non erano d’accordo su nulla e una scappata dal meccanico per far riparare i fari della macchina; poi sarebbe andato a pranzo con due fratelli, proprietari di una delle più grandi aziende del paese. I due dicevano sempre noi e non si contraddicevano mai tra di loro. Al contrario di noi tre, pensò Rupert con tristezza. Il problema non era che lui non andasse d’accordo con Edward e Hugh, ma che Edward e Hugh non andavano d’accordo fra loro. Continuavano a chiedergli che cosa ne pensasse, ma in realtà ognuno dei due lo voleva semplicemente dalla propria parte.

Quando arrivò in ufficio, in ritardo per via dell’auto, notò che la sua segretaria aveva l’influenza. Dopo l’incontro con gli architetti, era molto importante che dettasse il rapporto subito, a mente fresca, così chiamò Hugh per chiedergli in prestito la sua segretaria. Sarebbe arrivata entro mezz’ora.

Rupert aveva ereditato il vecchio ufficio di Edward; non aveva apportato molti cambiamenti, anche perché non aveva oggetti personali nel vecchio ufficio. Sembrava quasi che non volesse ammettere a se stesso che quello era il suo luogo di lavoro definitivo. Ma naturalmente lo era; Jules doveva ricevere un’istruzione, per non parlare di Neville che forse sarebbe andato all’università. E poi, certo, c’era Zoë. La vita era questo? Genitori che si sacrificano rinunciando a tutto ciò che hanno sempre desiderato per crescere dei figli che a loro volta rinunceranno a tutto ciò che hanno sempre desiderato per la stessa ragione, e così via? Al momento di andare in pensione sarebbe stato troppo vecchio per dedicarsi all’arte, se non forse da dilettante. Invidiava Archie, che non aveva vincoli e non sembrava rendersi conto di quant’era fortunato. Sapeva che quel tipo di pensieri venivano dalla mancanza di sonno, e inoltre non era proprio il caso di pensare ad Archie, perché così facendo avrebbe solo reso il loro prossimo incontro più imbarazzante dei precedenti.

Fu un sollievo sentire bussare piano alla porta: era la segretaria di Hugh. Era bassa, così bassa che la statura era la prima cosa che uno notava in lei. Aveva i capelli molto chiari, liscissimi e la frangetta, il che le dava l’aria di un paggetto. Disse buongiorno sottovoce, quasi non fosse certa di avere il permesso di aprire bocca. Le chiese come si chiamasse.

«Jemima Leaf».

«Bene, Miss Leaf. Si sieda pure lì. Se vuole può usare quel tavolo».

La dettatura procedette agevolmente. Sentiva che era nervosa, e le disse di fermarlo se dettava troppo in fretta, e lei disse che l’avrebbe fatto, grazie. Quand’ebbero finito, la donna chiese: «Mi scusi, ma la grafia corretta di “pyinkado” è con la “y” e la “i”?».

«Esatto».

«Grazie. E “Jarrah” si scrive con l’acca?».

«Sì».

«Va bene per lei se batto a macchina il rapporto questo pomeriggio?».

«Benissimo. La ringrazio per il suo aiuto».

Si alzò e Rupert notò che indossava scarpe sportive lucidate con cura tale che sembravano delle bottigliette di vetro marrone. «C’è altro che posso fare per lei?».

«Non mi pare. Se Miss Marriott sarà ancora malata, sarebbe molto utile se venisse a trascrivere le mie lettere, domani».

«Se suo fratello non ha bisogno di me».

«Non si preoccupi, Miss Leaf. Glielo chiederò prima».

«In effetti sarebbe Mrs Leaf».

«Oh, chiedo scusa».

Il volto pallido arrossì lievemente. «Non ha molta importanza. Sono vedova». E se ne andò prima che lui potesse replicare.

Pranzò ed ebbe tutto il tempo di arrivare puntuale dal dentista. Mr Yapp curava da anni i vari membri della famiglia. Adesso aveva una certa età e Rupert sperava che andasse presto in pensione e lasciasse il posto a qualcuno più giovane, perché Mr Yapp era della vecchia scuola, quella per cui più il paziente soffre, più la cura è efficace.

«Due otturazioni sono gravemente infiltrate», annunciò in un tono pieno di biasimo per la negligenza di Rupert.

«Oh, santo cielo!».

«Ma possiamo sistemare tutto. Basta togliere la parte infetta e sostituirla. Mi spiace molto per suo padre».

«Già».

«Be’, non tutti possiamo vivere per sempre». Quell’osservazione sembrava sottintendere che lui per parte sua fosse intenzionato a farlo, il che preoccupò molto Rupert. «Una piccola iniezione».

Di solito le iniezioni di Mr Yapp facevano più male di qualunque intervento dovesse eseguire subito dopo, ma quella volta fu una disgraziata eccezione. L’iniezione gli provocò un dolore tale che avrebbe voluto mettersi a urlare, ma fu niente a paragone di quello che venne dopo. Dopo un gran trapanare e ravanare con una specie di uncino, Mr Yapp annunciò che il danno era superiore a quello che aveva previsto, e che l’infezione era piuttosto profonda. Rupert si sforzò di non mostrarsi troppo sofferente per evitare un’altra iniezione, ma il dentista ne preparò una lo stesso. «Con questa dovremmo farcela», disse. «Dimentico sempre che voialtri avete una bassa soglia del dolore». E ricominciò a infierire col trapano.

Un’ora dopo Rupert se ne andò, sudato e con la faccia gonfia, deciso per l’ennesima volta a non tornare mai più da Yapp. Quando arrivò in ufficio, l’effetto delle iniezioni stava svanendo, la mascella cominciava a pulsare e gli stava venendo un forte mal di testa. Quando Mrs Leaf arrivò con la sua relazione battuta a macchina, le chiese di preparargli una tazza di tè.

«Sì. Certamente. Ci sono due o tre messaggi per lei. Glieli ho messi sulla scrivania». Pensò di chiederle qualche pastiglia di quelle che usava Hugh per il mal di testa, ma poi si ricordò di quanto Hugh fosse suscettibile sull’argomento – non voleva che tutti sapessero che prendeva quelle medicine –, inoltre Mrs Leaf era nuova e forse non ne sapeva nulla. Ma quando venne a portargli il tè, sul piattino c’erano due compresse di aspirina. Quando la ringraziò, Mrs Leaf disse: «Mi è sembrato che ne avesse bisogno. Un tale ha telefonato per avere conferma di un appuntamento, e ho visto sulla sua agenda che oggi andava dal dentista».

«Davvero un bel pensiero».

Almeno lui li aveva ancora i denti, a differenza del povero Edward, pensò quando fu di nuovo solo, anche se erano messi piuttosto male, dopo gli anni passati in Francia. Allora andare dal dentista era chiaramente impensabile. Una volta un dente lo aveva tormentato per più di una settimana, e Miche alla fine glielo aveva estratto con le tenaglie. Dio che dolore! Miche era andata per le spicce. A ripensarci, c’erano voluti coraggio e forza fisica, per non parlare della determinazione. Una volta che aveva deciso che una certa cosa andava fatta, Miche non perdeva tempo. L’aveva messo a sedere su una sedia dallo schienale alto a cui poi con una benda gli aveva legato la fronte, gli aveva detto di aggrapparsi ai braccioli e stare fermo. C’erano voluti due tentativi, ma alla fine era venuto via, radice e tutto. Adesso riusciva a pensare a quell’episodio senza sentirsi dilaniare dal desiderio di lei. La stava lasciando andare – si stava sbarazzando di lei. Provava rimorso ma anche sollievo.

Ripensò a quella sera di luglio, un anno e mezzo prima, quando era tornato da Southampton in treno ed era andato a cena con Archie. Quella volta gli aveva raccontato di Miche. Erano in un piccolo ristorante non lontano da casa dell’amico. Si definiva francese ma serviva un’imitazione davvero mediocre della cucina d’oltremanica. Archie era rimasto in silenzio mentre lui gli raccontava ogni cosa: lo strazio della separazione e quanto era dura per lui adesso, molto più di quanto avesse immaginato.

«Ecco perché sei rimasto», disse alla fine.

«Sì. Probabilmente è stato un errore, ma io sentivo di doverlo fare. Le dovevo la vita, capisci, lei aveva rischiato tutto per me! E non mi chiedeva altro che questo».

«Sì. È stata dura per tutti gli altri però. Per Clary».

«Di più ancora per Zoë, direi».

«Gliel’hai detto?».

«No. Non so come fare».

Archie lo occhieggiava pensoso. Si stava riempiendo la pipa. «Be’, potresti cominciare dal principio e poi andare avanti».

Rupert lo osservò per capire se era sarcastico o se c’era qualche altro genere di critica nel suo tono, ma Archie ricambiò il suo sguardo senza scomporsi. «Come vanno le cose con Zoë?», domandò.

«Un po’ di tensione. Certo, non è facile per lei».

«Perché dici questo?».

«Be’, non so. Io sono stato lontano per tanto tempo... mi ha detto che credeva fossi morto».

«Be’, non puoi biasimarla per questo».

«Io non la biasimo affatto. Solo che dirglielo sarebbe una specie di tradimento nei confronti di Miche. Inoltre, se glielo dico, Zoë mi chiederà se amo ancora Miche, e la risposta sarebbe sì».

«Sei in contatto con Miche?».

«Assolutamente no. Quando me ne sono andato, quella è stata la fine».

«È crudele, la tua bontà. Perciò lascia subito il mio corpo, come presto lascerai la mia anima».

«Che cos’è?».

Archie scrollò le spalle. «Una cosa che ho letto da qualche parte. Non ricordo nemmeno come comincia. Ma se lasci veramente qualcuno, se te ne vai e non lo rivedi più, a un certo punto la cosa si esaurisce. Voglio dire, smetti di pensarci; oppure ci pensi, ma in un altro modo».

«Stai parlando di Rachel».

«Sì».

«Adesso comincio a capire che cos’hai provato».

«Come vedi, è tutto finito ora».

Si ricordò anche che poi, camminando verso casa di Archie, gli aveva raccontato quello che gli aveva detto una volta la Duchessa: che assumersi la responsabilità delle proprie azioni implica anche la capacità di tenerle per sé, senza costringere gli altri a portarne il fardello, provocando così della sofferenza. «Oh-oh!», aveva esclamato Archie con ironia, stavolta inequivocabile. «Ecco da dove viene la patologica reticenza dei Cazalet! Cominciavo a chiedermelo».

«Non sei d’accordo?».

«No. Capisco perché lo dice, ma secondo me non condividere le cose con le persone è solo un modo per risparmiarsi delle grane».

Per il resto della serata avevano parlato della necessità per entrambi di trovare il tempo per dipingere.

Poco prima che si ritirassero per la notte, Archie gli aveva domandato: «Hai letto il diario di Clary?».

«Non ancora».

«Non ancora? Ha passato ore e ore a scriverti. Per anni!».

«Sì, ma adesso non vuole più che lo legga. Perciò non posso farlo, ti pare?».

«Forse dovresti insistere un po’. Lo sai come sono gli scrittori».

«In effetti no. Non ne ho mai conosciuti, a meno che tu non metta nel novero anche il Generale. Tu credi che abbia talento?».

«Forse sì».

«Sei stato prezioso per Clary mentre ero via. Me l’ha detto lei».

«Le sono molto affezionato».

Mentre era perso nei ricordi, bussarono alla sua porta, e Rupert sussultò come colto in fallo. Se ne era stato lì a bere il tè: non aveva telefonato, non aveva letto i messaggi...

«Avanti».

John Cresswell mise la testa nella porta, e Rupert ebbe un tuffo al cuore. Aveva saputo di recente che Cresswell era il fratello di Diana, da poco dimesso dall’esercito per problemi di salute. Edward gli aveva rimediato un non meglio definito incarico amministrativo, nessuno sapeva cosa dovesse fare di preciso: lui se ne stava in un ufficietto alle prese con numeri che, fu presto evidente, non capiva. Adesso era alle prese con il computo dei tronchi di conifere che erano stati consegnati nel porto di Londra. Quando aveva delle difficoltà si rivolgeva a Rupert, perché con lui era più paziente di chiunque altro.

«Mi duole disturbarti», esordì come faceva sempre, e poi posò sulla scrivania un foglio coperto di cifre scritte da una mano tremante, «ma quando ho terminato i conti mi è venuto in mente che forse dovevo calcolare il profitto effettivo da ricavare dai legnami e non il costo d’acquisto. Ma non ne ero completamente sicuro. Ho cominciato a farlo, qui», e mise un dito macchiato di tabacco su un punto a circa metà della pagina, «ma mi è venuto in mente che quando vendiamo grossi quantitativi il prezzo è differente, ma allora non sapevo se dovevo calcolare la media... o qualcos’altro».

Rupert notò che tremava e non aveva affatto un bell’aspetto. «Stai bene?».

«Febbre malarica. Non un attacco dei peggiori... il cervello mi funziona ancora. Entro certo limiti».

Ci volle un’ora per capire quale fosse il problema di Cresswell, che cosa gli fosse stato chiesto di fare e che cosa avesse effettivamente fatto, e quando ne fu più o meno venuto a capo, ormai era ora di andare a casa.

C’era la nebbia, a ricordargli che non aveva ancora risolto il problema della macchina. Si fermò in un’officina, dove gli dissero che c’erano danni ai portalampade. Dovette lasciare lì la macchina e prendere l’autobus.

Una giornata come tante, supponeva, fatta di tanti piccolissimi pro e contro: i pro erano perlopiù meri palliativi, come il fatto di aver ritrovato la macchina in Priory Road senza ulteriori danni, le aspirine che gli aveva servito Mrs Leaf e che gli avevano fatto passare il mal di testa, la nebbia che s’era un poco diradata, l’essere riuscito a gestire il conflitto fra i due architetti in modo tale che i fratelli Cazalet non perdessero il contratto – quello era stato un lavoro delicato, aveva dovuto ascoltare i due punti di vista con pari disponibilità ed entusiasmo, in modo da risultare impazziale, come avrebbe detto Juliet...

Riguardo alla visita con Mr Yapp, l’unico aspetto positivo era stato il fatto che era finita e che non intendeva andarci mai più. Il Generale, che aveva una dentatura perfetta, reputava che il dentista «deve farti male», che il dolore è garanzia di un lavoro ben svolto, e così tutta la famiglia, in ossequio alla tradizione, aveva continuato ad andare da Yapp. Il buon vecchio Generale, pensò, aveva tenuto in scacco tutti quanti in tanti modi di cui nemmeno si erano accorti. Alla fine aveva acconsentito ad assumersi un terzo della responsabilità finanziaria. All’inizio aveva deciso di andare a lavorare in azienda soprattutto per amore di Zoë. Poi c’era stata la guerra e il breve intermezzo in Marina, prima di diventare un imboscato. Poi era tornato all’ovile, stavolta soprattutto perché sapeva che il Generale ci teneva... Si rese conto ora di essersi riservato di valutare la situazione una volta morto il padre. Ma non l’aveva fatto. L’espansione dell’azienda a Southampton, le liti tra i fratelli e i suoi personali conflitti emotivi lo avevano fatto correre stando fermo sul posto. Le decisioni da prendere lo avevano sempre spaventato: le cose non gli erano mai sembrate abbastanza bianche o nere da rendere facile la scelta. In famiglia lo prendevano in giro per questo, ne facevano un tratto eccentrico, ma in realtà era una grave mancanza. Sono un debole, pensava: gli parve una valida spiegazione per il senso di insoddisfazione che provava. La sera prima era stata l’esempio perfetto. Aveva acconsentito ad andare con Zoë a conoscere Diana, e si erano trovati tutti quanti a fare del proprio meglio nel recitare una parte: Edward nel mostrarsi felice, Diana nel far vedere a tutti che persona ragionevole fosse, lui e Zoë nell’apprezzare tutto questo. E poi, a chiudere il cerchio, la notte a casa di Villy, un luogo squallido che trasudava amarezza e disperazione. Si chiese come se la stesse cavando Miss Milliment, povera vecchia; era impossibile che non percepisse l’atmosfera che si era creata, e lo stesso valeva per il piccolo. Era insolitamente tranquillo e ansioso di compiacere la madre: a colazione il disagio era stato palpabile. E Rupert, anche in questo caso, aveva tenuto il piede in due scarpe. A differenza di Hugh, lui non aveva scelto da che parte stare.

«Ma non si possono prendere le parti di uno o dell’altra, in una situazione come questa!», disse Zoë mentre parlavano della serata. «Insomma, sì, puoi avere un’opinione al riguardo, ma ormai il danno è fatto. Possiamo dire quello che ci pare, ma non cambierà la situazione».

Era arrivato a casa – bagnato, perché nel frattempo aveva cominciato a piovere – e Jules l’aveva accolto con un dettagliatissimo resoconto della sua giornata, dopodiché si era lasciato cadere in poltrona con un bicchiere in mano, nel loro soggiorno che sapeva ancora di nuovo, coi soffitti alti e l’odore di vernice, perché Zoë stava ancora dipingendo la libreria su misura che avevano fatto costruire lungo tutta la parete, ai due lati del caminetto.

«Hai l’aria di uno che ha avuto una brutta giornata».

«Le solite cose. Solo che ero stanco già dal mattino».

«Rupe, che ne diresti se mi trovassi un lavoro?».

«Direi che per me va bene, se è quello che desideri. Che cosa vuoi fare?».

«È questo il problema. Non so cosa potrei fare».

A cena discussero delle varie possibilità, ma non giunsero ad alcuna conclusione: i tipi di lavoro che erano alla sua portata erano troppo noiosi, e per quelli interessanti occorreva un titolo di studio. «Non so nemmeno battere a macchina e stenografare!», disse, come se Rupert ne fosse stato all’oscuro fino a quel momento. «Ci vogliono anni di studio per imparare un mestiere. Prendi il medico, per esempio: sette anni!».

«Vuoi fare il medico?».

«No, era solo un esempio. Anche se volessi, alla fine degli studi sarei troppo vecchia. Probabilmente sono troppo vecchia per qualunque cosa. Raccolse col cucchiaino lo zucchero in fondo alla tazza di caffè e lo masticò immusonita.

Cara Zoë, pensò. Una volta diceva spesso cose di quel genere, e lui si infastidiva. Adesso gli faceva tenerezza: in fondo aveva trentun anni, ma era ancora così giovane da considerarla un’età veneranda. Proprio quando stava per lanciarsi in un discorso molto assennato ­– doveva per prima cosa scegliere con attenzione che cosa le sarebbe piaciuto fare e poi, in un secondo momento, avrebbero discusso di come ottenere le qualifiche necessarie – squillò il telefono.

«Rispondo io», disse Rupert. Dopo pochi minuti annunciò: «È per te. Una certa Miss Fenwick».

«Oh, signore! Deve essere per mamma!».

Il telefono si trovava in corridoio, fuori dalla sala da pranzo; ne avevano voluto uno al primo e uno al secondo piano. Rupert non sentì cosa dicesse, ma gli passò per la mente che sua madre potesse essere morta. Come l’avrebbe presa Zoë? Si sarebbe sentita in colpa. Si era sempre sentita in colpa verso sua madre.

«Era una vicina di mamma. L’ha trovata svenuta sul pavimento... pare non mangi a sufficienza. Io lo sapevo! Le ho detto che parto domattina presto».

Rupert disse che l’avrebbe accompagnata lui a Waterloo, salvo ricordarsi subito dopo che non aveva la macchina.

Poi, invece di andarsene a letto tranquilli, ebbero un’accesa discussione su Göring. Göring! A ripensarci in seguito gli pareva un’assurdità. Aveva preso una rivista posata sul comodino di lei. Era aperta su un articolo riguardante l’esecuzione di alcuni criminali di guerra nazisti, avvenuta il mese prima. Parlava di ciò che avevano fatto costoro prima di essere impiccati, e c’era una foto di Göring scattata dopo il suicidio. «Una lettura piuttosto lugubre», osservò Rupert. «Come mai leggi questa roba?».

«Mi interessa», rispose lei. «Però non dice come facesse quel mostro ad avere con sé una pillola di cianuro. Avrebbero dovuto perquisirlo. È incredibile che non l’abbiano trovata».

«Ormai non ha importanza, giusto? È morto, e suppongo che morire con una pillola sia meglio che essere impiccato».

«Ma io non voglio ciò che è meglio per lui!», esclamò Zoë. «Volevo che fosse impiccato, che provasse la paura e l’umiliazione, di fronte a tutti!».

«Zoë!».

«Adesso che sappiamo cos’hanno fatto, impiccarli mi sembra anche poco!».

Rupert era sbalordito. «Cara, adesso sembri una di quelle donne terribili che sferruzzavano davanti alla ghigliottina. Comunque, tornando al punto, io credo che suicidarsi sia davvero orribile. Un modo vigliacco di cavarsi d’impaccio, forse, ma non deve essere facile».

«Non è necessariamente un modo codardo di cavarsi d’impaccio. Dipende dalle ragioni. Lui l’ha fatto solo per se stesso!».

«Chi si uccide lo fa per se stesso, suppongo...», replicò in tono piuttosto pacato, ma lei gli si rivoltò contro.

«Tu non sai di cosa stai parlando!». Nel suo tono di voce c’era una veemenza che lo lasciò senza parole. Ci fu un breve, penoso silenzio. Poi Zoë disse, a voce più bassa ma con la stessa intensità: «Era uno degli uomini più crudeli e mostruosi che siano mai vissuti. Si meritava una morte orribile. Tutti la meritavano, dal primo all’ultimo». Rupert si accorse che piangeva. Era seduta sul bordo del letto, ma prima che potesse toccarla con la mano si alzò e corse in bagno. Rupert sentì la chiave girare nella toppa.

Era davvero stupefatto. Quello era un aspetto di lei in cui non si era ancora mai imbattuto: in tutti quegli anni di matrimonio Zoë ne aveva fatte di scenate, ma i motivi gli erano sempre stati chiari. Gelosia nei confronti di Clary e Neville, desideri che lui, ai tempi in cui faceva l’insegnante, non poteva permettersi di esaudire e poi la prima gravidanza che l’aveva resa davvero intrattabile. Ma tutto questo era accaduto nei primi anni; adesso era cresciuta e da quando era tornato cose del genere non erano più accadute. Aveva il ciclo? Ma no, lo aveva avuto la settimana prima. Poi si ricordò della madre. Se la povera signora non era in grado di cavarsela da sola e non aveva i soldi per una casa di riposo, avrebbe dovuto trasferirsi da loro, idea che Zoë aveva sempre detestato. Aveva declinato sempre con decisione ogni sua offerta di ospitare la madre, anche solo per un breve periodo. Adesso c’era la possibilità che una soluzione del genere fosse inevitabile, e la cosa doveva preoccuparla molto. Si guardò bene dal bussare alla porta del bagno. Si mise a letto, spense la luce dal suo lato, e aspettò.

Zoë uscì silenziosamente dal bagno, si mise a letto e spense la luce, e allora Rupert le disse: «Cara! Mi dispiace. Ora so qual è il problema e assolutamente ti capisco». Le toccò la mano: era tesa come una corda di violino.

Dopo un attimo Zoë disse: «Come lo sai?».

«Be’, in tanti anni qualcosa su di te l’ho imparata. Conosco i tuoi sentimenti per lei. E so quanto è difficile per te. Ma se sarà necessario, dovrà venire a stare da noi e io ti assicuro che farò tutto quello che posso per farla sentire la benvenuta e per rendere le cose più facili». L’abbracciò e lei non fece resistenza. Le spostò dal viso alcune ciocche di capelli, per baciarla: lei emise un suono che era a metà fra un gemito e una risata, e poi gli si strinse al petto ripetendo il suo nome. La sentì sciogliersi dal sollievo.

La mattina dopo l’accompagnò al treno. «Buon viaggio, mia cara». La stazione ferroviaria, il freddo pungente e il suo romantico cappello di pelliccia gli ricordarono Anna Karenina. Glielo disse pensando che le avrebbe fatto piacere, invece con sua grande sorpresa le si riempirono gli occhi di lacrime. «Andrà tutto bene. Ti chiamo questa sera, così mi dici come vanno le cose».

Lei annuì e si ritrasse dal finestrino aperto, mentre il treno cominciava a muoversi.

E anche questa è fatta, pensò. Aveva addosso quel senso misto di libertà e smarrimento di quando si saluta qualcuno che parte. Era quasi certo che Mrs Headford sarebbe venuta a stare da loro e, anche se con Zoë si era mostrato ottimista, prevedeva che quella situazione li avrebbe limitati molto. La sua presenza, anche senza contare i sentimenti di Zoë al riguardo, avrebbe costituito un vincolo pesante. Decise di approfittare di quel momento di libertà e di telefonare ad Archie per chiedergli di vedersi quella sera e sistemare le cose tra loro. Da quell’estate Archie era stato via a lungo; di recente aveva lasciato il suo impiego all’Ammiragliato e non si erano più visti. Ma gli pareva che trascorresse un bel po’ di tempo in casa, anche se Rupert, le poche volte che aveva tentato di incontrarlo, non ci era riuscito. Ci avrebbe riprovato ora, telefonandogli dall’ufficio e se era a Londra gli avrebbe detto che lui, Rupert, desiderava davvero incontrarlo. Era vero: a parte tutto sentiva di dovergli delle scuse. Ancora adesso, ripensando a quella sera di agosto, l’ultima volta che l’aveva visto, provava grande imbarazzo, per non dire vergogna.

Era successo alla fine di agosto, quando Zoë e Juliet erano ancora a Home Place. C’era andata anche Ellen e avevano portato con loro Wills. Alla casa pensavano lui e Hugh, ma quella sera in particolare Hugh aveva un impegno e Rupert aveva deciso, così su due piedi, di fare un salto da Archie mentre tornava dal lavoro. Era una di quelle giornate afose in cui la gente dice che ci vorrebbe un bel temporale per ripulire l’aria. L’appartamento di Archie, con le sue grandi finestre e il balcone affacciato sulla piazza, era il luogo ideale per trovare un po’ di refrigerio dopo le ore trascorse nell’ufficio caldo e asfittico. Un altro inquilino dello stabile stava entrando dal portone e lui lo seguì. Salì le due rampe di scale – povero Archie!, si disse non per la prima volta, la gamba non gli era migliorata molto – e suonò il campanello. Mentre cominciava a pensare che Archie non fosse in casa, la porta si aprì ­e c’era Clary.

«Papà!».

«Non mi aspettavo di trovarti qui». E si chinò a baciarla.

«Potrei dire lo stesso».

«Non ti vedo da un sacco di tempo. Hai trascorso delle belle vacanze?». Gli aveva detto che sarebbe andata fuori con degli amici, perché voleva conoscere qualcosa di diverso da Home Place.

«Tutto bene, sì». Gli fece strada in sala da pranzo. Sul tavolo c’era un enorme puzzle. «Lo faccio così, per passare il tempo», gli spiegò. «Archie è uscito a comprare delle cose. Tornerà a momenti».

Rupert avvertiva una strana tensione tra loro. «Sei venuta a cena da Archie?». Sapeva che succedeva spesso.

«Sì, sì, infatti».

Però non era vestita come per andare a cena da qualcuno, pensò. Portava dei pantaloni di cotone piuttosto informi e una delle solite camicie da uomo senza colletto. Sia le maniche della camicia che il fondo dei pantaloni erano arrotolati, ed era a piedi nudi. Era dimagrita molto, soprattutto in viso. «Hai trovato un nuovo lavoro?». Anche il fatto che avesse lasciato il precedente impiego lo aveva appreso da Hugh, che lo aveva saputo da Polly. Aveva davvero perso i contatti con lei.

«No». Gli aveva voltato le spalle ed era tornata al suo puzzle.

Si sedette sulla grande poltrona davanti al camino e si accese una sigaretta. Si sentiva inspiegabilmente nervoso. «Clary, volevo chiedertelo da tempo. Quel diario che hai scritto per me... mi piacerebbe molto vederlo».

«Troppo tardi, temo. Non ce l’ho più. L’ho bruciato, in verità».

«E perché mai hai fatto una cosa del genere?».

«Era un lavoro puerile. Noël diceva che...». S’interruppe e si morse il labbro. «Non mi ci riconoscevo più. Non volevo che nessuno lo vedesse. Ecco perché l’ho bruciato». Lo fissava e Rupert capì che lo stava provocando. La vecchia Clary, che commetteva le cose più disparate pur di ottenere la sua attenzione e suscitare il suo interesse.

«Questo mi rattrista molto», disse qualche istante dopo. «E sento che è colpa mia. Ci siamo persi di vista e questo non mi piace».

«Ah no?». Sentirono la chiave che girava nella serratura, e un secondo dopo Archie entrò nella stanza. «Bene bene!», disse. «Che bello vederti!». Ma per qualche ragione non gli sembrava davvero contento.

«Vorrai qualcosa da bere. C’è del ghiaccio, Clary?».

«Mi pare di sì. Vado a prenderlo».

«Clary non ha un bell’aspetto», disse Rupert.

E Archie replicò: «È un po’ giù di corda in effetti».

«Dice che non ha ancora trovato un nuovo lavoro».

«C’è tempo per quello». Armeggiava con l’armadietto dei liquori. «Un gin tonic?».

«Sarebbe un sogno».

La porta-finestra era aperta e Rupert uscì sul balcone. «La Francia com’era?».

«Oh, sempre la stessa e completamente diversa, se capisci cosa intendo. Non sono rimasto a lungo». Si avvicinò alla porta aperta del soggiorno. «Clary! Dovrebbe esserci un limone lì da qualche parte. Puoi portarlo? E anche un coltello». Si tolse la giacca e la buttò sul divano. «Dio, se fa caldo là fuori!».

«Nel tuo ufficio fa caldo come nel mio?».

«Più che altro non c’è aria. Ai pezzi grossi non piacciono le finestre che si aprono come si deve». Andò a prendere il sacchetto della spesa che aveva lasciato accanto alla porta d’ingresso entrando. «Temo che la soda sarà tiepida».

Clary tornò con una ciotola di ghiaccio in una mano e un coltello e un limone nell’altra. Diede tutto ad Archie e poi si sedette nuovamente di fronte al puzzle. Archie preparò i drink e chiese di Zoë. Rupert raccontò che era ancora a Home Place con Juliet e Wills e che al suo ritorno si sarebbero messi a cercare casa, dato che finalmente avevano un acquirente per Brook Green. «E Polly come sta?», s’informò Rupert rivolgendosi a Clary.

«Bene, per quanto ne so».

Il disagio era sempre più palpabile. Quando Archie gli offrì il bicchiere della staffa, Rupert propose di andare a cena fuori tutti e tre insieme, ma Clary disse subito: «Non mi va di uscire».

Archie allora disse che aveva comprato del pasticcio di maiale pronto e della lattuga, potevano restare a mangiare a casa, e Rupert accettò, con l’improbabile speranza che l’atmosfera si normalizzasse a forza di stare insieme e anche perché sperava di riaccompagnare Clary a casa e chiederle che cosa le stesse succedendo. Perché qualcosa c’era, ne era certo, e Archie ne era a conoscenza.

A cena lui e Archie parlarono di argomenti impersonali, perlopiù della situazione politica in India: c’erano state tre giornate di furiosi scontri a Calcutta, e discussero dell’opportunità o meno di uno Stato musulmano autonomo in Pakistan; poi si trovarono in disaccordo sulla questione del potere britannico, se dovesse o meno fare un passo indietro rispetto alla politica internazionale. Rupert riteneva di no, Archie di sì. Clary intanto cincischiava con una foglia di lattuga, non mangiava altro e non prendeva parte alla discussione.

«Ti stiamo annoiando», le disse.

«Be’, in effetti no. Perché non vi stavo ascoltando».

«Perché non mangi?».

«Non ho fame».

«Ma guardati, sei magrissima».

«Deve essere perché non ho fame». Lo stava respingendo, e lui si sentiva sconfitto.

«Senti», le disse poi, quando Archie andò in cucina a fare il caffè. «Ho la sensazione di avervi rovinato la cena».

Lei non replicò e allora Rupert sbottò: «Clary! Che succede? Se sei arrabbiata con me preferirei che me lo dicessi. Dopo che abbiamo bevuto il caffè, ti accompagno a casa e magari mi fermo per un po’, così parliamo».

«Non ci vado a casa», fece lei. «Abito qui. Per il momento».

La fissò e lei sostenne il suo sguardo. «Perché?», disse alla fine. «Che sta succedendo?». Guardandola negli occhi, che ora sembravano enormi su quel viso pallido e smagrito che non le aveva mai visto, li vide animarsi per un breve momento, animarsi della più nera sofferenza. Poi tornarono all’opaca indifferenza che avevano ostentato per quasi tutta la sera. Stava tornando a oziare attorno al puzzle; Rupert avvicinò una sedia al tavolo, di fronte a lei. «Figlia mia, che succede? Lo vedo che stai male. Io ti voglio bene... un tempo ti confidavi con me. Di che si tratta? Che posso fare?».

«Non puoi fare niente». Alzò gli occhi dal puzzle. «Te lo dico, se vuoi. Mi sono innamorata di un uomo e sono rimasta incinta. Poi ho abortito, ho ucciso il bambino. Ma Archie mi è stato vicino per tutto il tempo».

Archie! Di colpo tutto ­– le stranezze e l’imbarazzo di quella serata – gli divenne chiaro nel più orrendo dei modi. Trovarla lì in casa di Archie – ci abitava! –, la reazione difensiva di Archie quando Rupert aveva accennato alla brutta cera di Clary, il tentativo di sbarazzarsi di lui ­– il bicchiere della staffa! Cristo santo, poteva essere suo padre, aveva solo un anno meno di lui, Rupert! Era un abominio! Clary, la sua amata figliola, una creatura giovane e fiduciosa, tradita così dal migliore amico di suo padre! Gli venne voglia di saltargli alla gola, di ucciderlo... Si alzò emettendo un verso inarticolato e si voltò verso la porta della cucina, da cui in quel momento si affacciava Archie. «Bastardo! Tu... brutto bastardo!». Per la prima volta nella sua vita capì cosa s’intende per “vedere rosso”. Mentre gli si avventava contro, l’immagine di Archie si trasformò in una sfocata macchia rossa.

«Calmati! Sei balzato alla conclusione sbagliata!».

Era Clary, che gli aveva afferrato il braccio. «Papà! Papà, per l’amor del cielo!».

Ci vollero diversi minuti perché si convincesse, ma naturalmente alla fine dovette credere a quello che dicevano: Clary sembrava trovare la cosa addirittura divertente, tanto era assurda; cosa pensasse Archie non lo sapeva, ma si capiva che era profondamente ferito e offeso. Nella confusione e nell’imbarazzo, doveva aver detto un sacco di sciocchezze. Di certo si era scusato, più di una volta, e aveva cercato di far capire loro quanto fosse facile arrivare a quella conclusione. Di certo aveva chiesto a Clary perché non glielo aveva detto, e lei aveva risposto che credeva che se la sarebbe presa con lei. Archie non disse quasi nulla; per la maggior parte del tempo se ne stette in balcone, dando loro le spalle.

«Immagino sia stato il tale per cui lavoravi». La sua non fu una domanda.

«Non ha importanza chi è stato», disse lei. «È successo e basta. Sto bene, papà».

«Non mi sembra proprio».

«Sto bene. Ho più di ventun anni, papà. Non sono una bambina».

Stette per un altro po’ a balbettare scuse a mezza bocca, sentendosi peggio ogni minuto che passava per quello che era successo a sua figlia, per come era saltato alla conclusione più volgare, perché Clary si era rivolta ad Archie e non a lui – non c’era fine. Disse che ora era meglio che se ne andasse, e Archie, aprendo bocca per la prima volta, replicò: «Sì, credo proprio che sia meglio».

Clary lo accompagnò alla porta.

«Ti servono soldi?», disse, giunto al fondo della disperazione. Almeno questo poteva farlo, si era detto. Ma lei disse di no, che non le servivano. Avrebbe voluto abbracciarla e rimettere tutto a posto. Lei gli permise di baciarle la guancia fredda, ma poi fece un passo indietro, sfuggendo al suo abbraccio. Se ne andò, sotto lo sguardo severo di Archie. Giù per le scale e poi fuori in strada, dove c’era la sua macchina. Era quasi buio. Era stata una delle serate più brutte della sua vita.

Il giorno dopo aveva tentato di mettersi in contatto con Archie al lavoro, per scusarsi, ma gli avevano detto che si era preso una licenza. Gli telefonò più volte a casa durante il giorno e la sera, ma non ebbe mai risposta. Da allora tutti i suoi tentativi di raggiungerlo – anche i messaggi in cui gli diceva quanto ci teneva a incontrarlo ­– furono vani; quando, dopo molti tentativi, riuscì a telefonare a casa delle ragazze, Polly gli disse che Clary era andata a stare da certi amici. «Credo voglia dedicarsi seriamente al suo romanzo», aggiunse. «Ma quando la sento le dico che hai chiamato, zio Rupe».

Poi la vita di tutti i giorni – i problemi tra i suoi fratelli, la ricerca di casa, il trasloco – lo aveva assorbito completamente. Adesso però avrebbe fatto l’ennesimo tentativo di mettersi in contatto con Archie. Da solo. Perché era ben consapevole di essere geloso: era chiaro che Archie godeva delle confidenze di Clary molto più di lui. Non gli piomberò in casa all’improvviso, pensò. Sapeva anche di non essere in grado di affrontarli tutti e due insieme.

Finalmente trovò Archie in casa, al primo tentativo. Il tono di voce era guardingo, ma accettò di vederlo al Savile Club, di cui entrambi erano membri.

L’idea gli metteva un po’ di ansia, ma era anche sollevato.