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Polly
Settembre-dicembre 1946
In quei mesi si era fermata sovente a pensare a come per poco non aveva mancato l’occasione di conoscerlo. Aveva deciso tra sé di non andare a uno dei tanti aperitivi organizzati da Caspar e Gervase ai quali era regolarmente invitata. Quando – era settembre – l’avevano informata del prossimo e lei aveva cominciato a dire che non credeva di poter (o voler) venire, Caspar aveva replicato: «Tu devi venire, mia cara, né più né meno. Oso dire, mia cara, che dovresti considerare queste serate come una parte del tuo lavoro». Poi si era passato la mano tra i capelli argentei e l’aveva guardata col capo piegato da una parte, con una benevolenza distaccata da uccellino. Combinava un’aura romantica con uno sguardo penetrante che le persone che non lo conoscevano facilmente scambiavano per simpatia.
«Il tocco femminile», intervenne Gervase. Lo disse come se si trattasse di una cosa spiacevole ma necessaria. Era appena tornato dal suo soggiorno a Tring – ci andava ogni due anni – dove la dieta stretta e i massaggi avevano ridotto almeno per il momento la sua circonferenza, e adesso non faceva che rigirarsi davanti allo specchio ammirando la sua nuova silhouette. «Fai parte del nostro arredamento, cara. Mr Beswick ha appena incollato la nuova carta da parati in seta color tabacco, l’abbiamo scelta pensando a te. E mi raccomando, vestiti di bianco». Ristrutturavano di continuo il loro appartamento, trasferendosi al Claridge durante i lavori e detraendo i costi dalle tasse.
«Non ho niente di bianco», si era schermita. Poi aveva ceduto. Era andata alla festa col vecchio vestito giallo limone, quello che aveva indossato il giorno della vittoria e poi a cena con papà, ma l’effetto era reso tutto nuovo dalla collana di pietre dure azzurro pavone che papà le aveva comprato da Cameo Corner. Ed eccola nel vasto soggiorno di una scuderia riconvertita (in effetti due, riunite in un unico appartamento) a Belgravia Mews; la stanza era ora una sinfonia di azzurro e marrone, con le pareti color tabacco messe in risalto da un tappeto color genziana à la Bakst, come diceva Caspar, con dentro una trentina, massimo quaranta persone, che in parte conosceva di vista. Parte del suo ruolo consisteva nel far girare dei vassoi di antipasti ordinati da Searcy, mentre allo champagne ci pensava un cameriere assunto appositamente. Quando Caspar o Gervase la presentavano a qualcuno, lei era «la nostra splendida Polly, che ci aiuta in negozio». Questo sembrava far passare a chiunque la voglia di parlare con lei: gli rivolgevano qualche domanda con una specie di regale condiscendenza e poi, vuoi per cortesia vuoi per mancanza d’interesse, il silenzio. Come ogni volta, si annoiava più di quanto ricordava di essersi mai annoiata a una festa. Era quasi un’ora che portava in giro cibarie ricevendo sorrisini di diniego dagli invitati ormai sazi. Aveva appena messo giù il vassoio e si stava guardando intorno in cerca del cameriere per farsi dare un bicchiere di champagne, quando un’anziana signora dalla chioma bluastra e tutta vestita di crêpe de chine le toccò il braccio. «Ti conosco, mi ha parlato di te Hermione Knebworth. Mi chiedevo... potresti per piacere fare qualcosa per mio nipote, poverino? È laggiù. È di una timidezza esasperante e qui non conosce nessuno». E senza attendere una risposta prese Polly per un braccio e la trascinò all’altro capo della stanza, dove un uomo se ne stava in piedi vicino al sedile incassato sotto la finestra, stringendo in mano un bicchiere e guardando per terra. «Gerald! Lei è Polly Cazalet, lavora per Caspar ed è venuta a fare due chiacchiere con te. Vedi di risponderle». E se ne andò.
Si guardarono e lui arrossì dagli zigomi in su; del resto indossava un vecchissimo cappotto di tweed nel quale doveva avere un gran caldo. In seguito cercò di ricordare quale fosse stata la sua prima impressione di lui, ma le sovvenne solo l’immagine sfocata di un uomo di modesta statura, dalla corporatura squadrata, con capelli biondi, sottili e lisci e la bocca ampia che si piegava agli angoli (a questo aveva fatto caso subito perché una volta Archie le aveva detto che le persone con quel tipo di bocca hanno senso dell’umorismo, ma lei non era mai stata in grado di verificare questa teoria perché non aveva incontrato nessuno con quella particolare caratteristica). Aveva gli occhi leggermente sporgenti, come quelli di un cane affettuoso.
«Conosci nessuno?».
«Solo mia zia. Ma in realtà non credo di conoscere neanche lei. Le zie fanno un po’ parte del paesaggio, no?». Poi parve pentirsi di aver parlato tanto e la guardò con una specie di panico negli occhi.
Passò il cameriere e porse un bicchiere a Polly.
«Dovevo essere io a prendertelo», borbottò, e Polly lo vide arrossire di nuovo. «Vuoi sederti?».
«Sì». E prese posto con sollievo sul sedile sotto la finestra.
Incredibile a dirsi a posteriori, ma in quel momento le fece proprio pena. Lo invitò a sedersi accanto a lei e lui lo fece, ma a una certa distanza e lanciando occhiate allo spazio fra loro come per misurarlo. Riuscì a strappargli qualche informazione: era stato nell’esercito e prima aveva vissuto in campagna con la sua famiglia, aveva una sorella sposata e i suoi lo avevano spedito a Londra da poco, perché studiasse legge, andasse alle cene e diventasse un brillante avvocato. La prospettiva non pareva entusiasmarlo. Si era preso un appartamento a Pimlico. Quando Polly gli chiese come fosse l’appartamento, le disse che era minuscolo. La fece sembrare la sua caratteristica migliore. Negli intervalli fra le domande e le risposte – dopotutto si trattava di una conversazione – la fissava con intenzione, ma distolse lo sguardo non appena vide che lei se ne era accorta.
Alla fine furono raggiunti da sua zia, la quale annunciò che dovevano andare se non volevano fare tardi alla cena dai Layton. «Temo che dovrò separarvi. Hai chiesto a Miss Cazalet di venire a dare un’occhiata al tuo appartamento? Si è preso una specie di topaia minuscola... lo stavo raccontando a Caspar: se riesci a fare qualcosa per quel posto vuol dire che sei un genio!».
«Va’ a dare un’occhiata, cara», le disse Caspar il giorno dopo. «A Lady Wilmot non mancano i mezzi, e lui è l’unico nipote... un po’ rozzo però, ti pare?».
«Non credo. È solo timido». E un po’ debole di carattere, aggiunse tra sé, ma a Caspar non lo disse. Fu fissato un appuntamento e pochi giorni dopo si ritrovò a salire i gradini di una casa in Ebury Street.
Venne lui ad aprirle; portava gli stessi vestiti di tweed e, le parve, anche la stessa camicia. Vederla lo mandò in confusione. «Credevo che sarebbe venuto uno di quei due», disse. «Sai, quelli che hanno dato la festa». La precedette per un corridoio molto stretto e buio, in una stanza buia anch’essa, perché l’unica finestra guardava a nord, aveva pesanti sbarre e si affacciava sul muretto di mattoni della scala che portava sulla strada. A parte due sedie da cucina e un pezzo di moquette color fango, la stanza era vuota. Senza dire una parola, la portò poi di nuovo in corridoio, in fondo al quale c’erano delle porte. «Questa è l’altra stanza», disse. Era più piccola della prima, ma un po’ più luminosa perché rivolta a sud, ma anche qui la finestra era sbarrata. Addossata a una parete c’era una brandina. La seconda porta immetteva in una minuscola cucina, con una stufa vetusta, un lavello di porcellana macchiato e un boiler fissato al muro con delle staffe. C’era odore di gas. La terza porta era quella del bagno: una piccola vasca sporca, un lavello, il gabinetto e un altro boiler sistemato, notò Polly, in modo tale che se uno stava in piedi vicino alla vasca ci andava a sbattere con la testa. Anche lì c’era odore di gas, con l’aggiunta dell’umidità; i rubinetti gocciolavano e il linoleum si staccava a strisce dal pavimento. «Tutto qui», disse. «È incredibile quanta roba possa entrare in poco spazio, non credi? È per questo che l’ho preso».
Probabilmente non poteva permettersi di meglio, pensò Polly. «Ha delle potenzialità», disse. Andava detto sempre. Tornarono nella prima stanza, dove Polly tirò fuori il metro a nastro e il taccuino.
«Per prima cosa devo prendere le misure», disse. «E vedere quali sono i muri portanti. Cose così».
«Sei davvero gentile a prenderti tutto questo disturbo».
«Nient’affatto. È il mio lavoro».
«Io credevo che mi avresti solo consigliato il colore delle pareti e delle tende, cose così».
«Facciamo anche quello, sì, ma qui ci sono cose più importanti prima».
«Tu di certo sai cosa è meglio. È la mia prima casa. Non so come si fa».
La aiutò con le misure, il che rese la cosa molto più veloce, e mentre lavoravano Polly scoprì che abitava già lì dentro. «Ci dormo, ecco», precisò. «Non è che ci si possa fare molto altro».
Presero il caffè in un locale dietro l’angolo, noto a Polly. Fu lei a suggerirlo. «Davvero? Mi stavo giusto chiedendo se potevo invitarti». Dopo il caffè, presero anche delle uova in camicia e dei fagioli al forno. «La cosa migliore dell’esercito erano i fagioli al forno», disse lui. «A casa non c’erano mai. Il poco tempo che ci ho vissuto».
«Che cosa intendi dire?».
«Be’, sai, dai sette anni sono stato in collegio. Poi c’è stata la guerra, l’esercito... sai come vanno le cose. E poi dopo che Charles, mio fratello maggiore, è rimasto ucciso, mia madre non mi ha più voluto in casa. Diceva che gli ricordavo lui. Certo, è buffo...», aggiunse come se gli fosse venuto in mente solo in quel momento, «perché non gli somiglio per niente. Eravamo diversissimi».
«Lui com’era?».
«Era molto molto intelligente, di bell’aspetto, in gamba con le ragazze eccetera».
Stette a guardarla come leggendole una domanda negli occhi e aggiunse: «No. La verità è che mi disprezzava. Be’, spero che adesso vorrai raccontarmi qualcosa anche di te», si affrettò a dire.
Polly gli raccontò della sua famiglia e della vita a Home Place durante la guerra. «Accidenti, sembra bellissimo!», fu il suo commento. «Dimmi di più». Gli raccontò di sua madre che era morta di cancro e di suo padre che non si era mai ripreso del tutto, e vide i suoi occhi un po’ sporgenti velarsi di lacrime. «Dio mio!», esclamò. Poi gli disse di Simon, che adesso era a Oxford, di Wills che era appena entrato alla scuola preparatoria e della casa che condivideva con Clary. Era incredibile, pensò in seguito, quante cose fosse riuscita a dirgli quel giorno: era un ascoltatore così attento che era un piacere confidarsi con lui. Alla fine, quando la cameriera fece capire loro chiaro e tondo che se non ordinavano altro dovevano lasciare il tavolo, lui disse: «Bene, allora. Io vorrei un altro uovo in camicia. Ormai ne vorrai uno anche tu, no? Il primo per me è stato la colazione, per te questo potrebbe essere il pranzo, anche se è presto».
Così ordinarono entrambi un uovo, e mentre aspettavano Polly disse che era il caso di parlare un po’ dell’appartamento. «Perché lo hai scelto?».
«È stato il primo che ho visto. Mi sembrava andasse bene, così piccolo, e l’ho preso. Dici che ho sbagliato?».
«C’è molto da lavorare. Quanto vorresti spendere?».
«Dimmelo tu».
«Ma no, seriamente».
«Tu che ne pensi?».
«Hai dei mobili?».
«Quelle sedie. E il letto».
«Be’, credo che ti serviranno dalle trecento alle cinquecento sterline per sistemare i muri e il riscaldamento, e per asciugare le macchie di umidità. Hai richiesto una perizia?».
No, non l’aveva richiesta.
Senza pensare, lo canzonò: «Non hai molto senso pratico, vero?».
Lui arrossì. «No. Il brutto è che le persone con scarso senso pratico di solito sono molto intelligenti e creative o qualcosa del genere, e io invece per niente. Non c’è proprio nulla da dire su di me».
Invece qualcosa si poteva dire, rifletté mentre prendeva l’autobus per tornare in negozio. Era ben consapevole della propria tendenza a empatizzare con le pene degli altri, e lui da questo punto di vista era un candidato ideale, ma non c’era solo questo, anzi non era nemmeno il primo sentimento che provava per lui.
Le fu assegnato il lavoro di ristrutturazione del suo appartamento, dato che Caspar e Gervase erano impegnati ad arredare tre grandi suite d’albergo e una sontuosa dimora di campagna i cui proprietari volevano spostare la cucina dal buio seminterrato al piano terra. «Occupatene tu, cara. Sarà un’ottima occasione per fare pratica, e con così poco spazio non puoi assolutamente fare danni».
Una settimana dopo aveva completato i disegni e ingaggiato un elettricista e un idraulico, e decise di andare a trovarlo per sottoporgli il tutto. Gli telefonò una mattina, sul presto. «Oh, bene! Quando?». Senza pensarci (o così raccontò a se stessa) lo invitò a cena a casa sua. «Sei davvero gentile», disse lui. Sembrava molto contento dell’invito.
La sera comprò dell’eglefino affumicato e preparò un kedgeree, una delle cose che le riusciva meglio in cucina, poi della macedonia con uva e banane. Clary era via e Polly aveva la casa tutta per sé dato che Neville, dopo aver abitato da loro per diverse settimane, era tornato in collegio. Anche questo era un bel sollievo perché Neville, oltre a essere disordinato quanto Clary, spazzolava via tutto il cibo che trovava in casa, e come se non bastasse aveva riempito la stanza di Clary di strumenti: batteria, contrabbasso, la sua tromba e un pianoforte portatile, e faceva prove interminabili coi suoi amici fino a notte fonda, il che aveva interferito con la vita sociale di Polly. Non che ne avesse mai avuta una così intensa. Doveva venire Christopher, ma aveva disdetto all’ultimo momento, tra le lacrime: Oliver s’era ammalato all’improvviso e non poteva lasciarlo. «Ha il cancro. Il veterinario dice che se l’operazione non funziona dovrà sopprimerlo». Lei allora si era offerta di andare da lui per un fine settimana, ma Christopher aveva detto che se la sarebbe cavata meglio da solo. Ed era stato un sollievo perché essere a conoscenza dei suoi sentimenti per lei la rattristava e la metteva a disagio, e inoltre temeva che le chiedesse del suo amore impossibile e allora avrebbe dovuto mentirgli, perché se gli avesse detto che non c’era nessuno all’orizzonte, lui si sarebbe fatto delle illusioni. E lei sapeva che non lo avrebbe mai amato.
Gerald arrivò puntuale all’ora concordata e le portò in regalo una bellissima felce. «Non sapevo cosa ti piacesse», disse. «A me personalmente non sono mai piaciuti i fiori recisi, e per le piante in vaso non c’era molta scelta. È buffo...», le raccontò mentre salivano le scale verso le stanze di Polly. «Ma continuavo a pensare di regalarti un gatto. Poi però ho pensato che forse ne avevi già uno. Ce l’hai?».
Gli disse di no, ma che lo avrebbe voluto. «Solo che non ho il giardino».
«Oh, ecco! Un altro degli svantaggi di Londra: niente giardini dove tenere i gatti».
«In realtà ce ne sono di giardini, ma non dalle parti del tuo appartamento».
«Davvero? Non conosco per niente Londra. Però i gatti ti piacciono, vero? Non mi sono sbagliato».
Gli raccontò di Pompey, di quanto gli aveva voluto bene, e lui le disse di un gatto che aveva a sette anni, che si portava a dormire nel letto e anche in bicicletta, nel cesto.
«E cosa gli è successo?».
«Era una gatta, in realtà. Ha avuto i cuccioli e i miei genitori l’hanno soppressa mentre ero a scuola».
«Deve essere stato orribile per te!».
«A loro non piacevano i gatti, sai. Io l’avevo nascosta, ma quando ero a scuola naturalmente la trovavano».
Piuttosto difficile nascondere alla propria famiglia un gatto che vive nella stessa casa, pensò Polly, ma se lo tenne per sé.
Gerald si sedette sulla poltrona vittoriana e si guardò intorno in silenzio.
«Ti piace?».
«Sapevo che mi sarebbe piaciuto. È elegante e raffinato. Come te».
Apprezzò e si complimentò per ogni cosa: la sala da pranzo verde scuro, il kedgeree – ne prese due piatti – e la macedonia. A un certo punto esclamò: «Ti dirò: sto proprio bene qui da te!», e i suoi occhi un po’ sporgenti si posarono su quelli di lei contagiandoli con il loro trasparente, grato buonumore.
Dopo cena Polly andò a prendere i disegni che aveva fatto e li stese sul tavolo. Lui li capì molto più in fretta di quanto le fosse capitato con gli altri clienti, e quando glielo disse il commento di Gerald fu: «Be’, è un po’ come con le mappe, no? Ho dovuto imparare a leggerle per forza».
«In guerra?».
«Sì».
«Dove sei stato?».
«Qua e là. Mi calavano giù dagli aeroplani. Ogni tanto».
«Eri un paracadutista?».
«Esatto».
Polly lo guardò cercando di immaginare cosa dovesse significare saltare da un aeroplano. «Lo so che non ho il fisico», disse in tono dimesso. «L’eroe romantico eccetera. Somiglio più a una rana, il che non è il massimo se non si è una rana».
Lei aprì bocca per dire che non sembrava affatto una rana, ma lui allungò un braccio sopra il tavolo e le posò la mano sulla bocca. «Non farlo», disse. «Tutto tra noi è stato vero, finora. Non voglio una cortese bugia. Immaginami sopra una ninfea. Guarda!». E d’un tratto s’ingobbì ritirando le braccia e spalancando gli occhi. Adesso somigliava così tanto a una rana che Polly scoppiò in una risata. «Nuoto benissimo, per giunta», disse. «È sul colore che devo ancora lavorare».
«Non avevo mai fatto conoscenza con una rana finora».
«Non mi sorprende. Non siamo in tanti».
«I disegni ti piacciono?».
«Mi fido ciecamente di te».
«Io dico di procedere con le riparazioni, e poi deciderai cosa comprare e cosa no. Ti servirà un po’ di mobilia e delle tende, e anche qualcosa da mettere sul pavimento. Ma molte di queste cose possiamo farle al risparmio, se vuoi... per esempio, possiamo verniciare le pareti piuttosto che tappezzarle, e levigare il pavimento invece di mettere la moquette. Cose così. Poi ci sono posti dove puoi comprare dei mobili usati a buon mercato. Io i miei li ho presi così».
«Davvero? Be’, hai fatto un lavoro magnifico, devo dire».
Polly preparò il caffè e lo presero al piano di sotto, in camera sua. Ormai aveva la piacevole sensazione di conoscerlo da sempre, insieme alla certezza che ci fosse ancora molto altro da scoprire. Parlarono per ore: di loro stessi, di come andava il mondo e poi di nuovo di loro. Di lui che non aveva nessuna voglia di fare l’avvocato, di lei che sentiva che il suo lavoro non l’avrebbe portata da nessuna parte, del fatto che qualunque loro scelta non avrebbe influito neanche un po’ sul mondo minaccioso, feroce e iniquo in cui vivevano, della possibilità che le arti fossero uno strumento politico di civilizzazione e del fatto che le persone erano sempre uguali, ma erano le tecnologie a cambiare. A un certo punto si resero conto che era mezzanotte passata.
«Posso rivederti domani?», le domandò lui sull’uscio di casa.
«È già domani».
«Allora posso rivederti più tardi?».
Questo era stato l’inizio; sembrava trascorsa un’eternità. Si videro in effetti la sera dopo: la portò a cena, ma non fu un grande successo: Gerald sembrava diverso, nervoso, assente e a disagio. Ci fu un guizzo di vivacità quando un cameriere piuttosto arrogante si mise a insistere perché ordinassero qualcosa che nessuno dei due voleva e poi si allontanò stizzito; Gerald allora gli fece un’imitazione – il piglio autoritario, l’accento – talmente azzeccata che Polly scoppiò a ridere. Lui sorrise e per un po’ parve sereno, ma non durò. L’accompagnò a casa, ma quando Polly gli propose di entrare disse di no, che doveva rientrare. Le disse anche che l’indomani doveva andare in campagna a trovare i suoi genitori e che sarebbe stato via per qualche giorno. «Chiamami quando torni», gli disse Polly. «Grazie per la serata», rispose lui. Fossero stati in una commedia, pensò Polly, sarebbe stata una di quelle situazioni in cui lui ha sentito un pettegolezzo che ha cambiato la sua opinione sul conto di lei. Di certo non poteva essere quello il loro caso. Ma nei giorni successivi – mentre andava in negozio, puliva la casa, andava a trovare la Duchessa e zia Rach, scriveva a Wills, povero piccolo, in collegio e invitava a cena suo padre che chiaramente sentiva la mancanza di zio Rupe e zia Zoë – pensò spesso a lui e lo chiamò tra sé per nome, sebbene fosse una cosa che tra loro non era mai accaduta.
La settimana seguente ricevette una telefonata dal carpentiere che stava facendo i lavori nell’appartamento, che le poneva un quesito a cui poteva rispondere solo recandosi sul posto. Così andò in Ebury Street e trovò la consueta bolgia di polvere d’intonaco, mattoni rotti e pavimenti divelti. Stavano smantellando e ricostruendo delle pareti divisorie per ampliare un po’ la cucina, il che voleva dire spostare le tubature. Notò che la brandina era stata spostata al centro della stanza, perché l’elettricista aveva sollevato il pavimento lungo la linea del battiscopa. C’erano sopra dei fogli di giornale tenuti fermi da qualche mattone e accanto il telefono, coperto da uno strato di polvere.
«Non sarebbe più semplice farlo sparire, quel letto? È solo una brandina, verrà messo via comunque».
«Non è possibile, perché il signore ci dorme», disse Mr Doncaster. «Certo, se si trasferisse per una settimana o due sarebbe tutto più semplice. Che vuol farci?».
«È tornato, allora?».
«Mr Lisle? È stato via solo per una notte. Poi è tornato, sissignora. E dobbiamo rimettere tutto in funzione per lui, ogni sera. L’acqua calda... ci vuole tempo, sa?».
«Troveremo una soluzione, allora», gli rispose. C’era rimasta male per il fatto che fosse tornato da giorni e non l’avesse chiamata. Sospettò addirittura che avesse saputo della sua visita quella mattina e non si fosse fatto trovare apposta. E si chiese, per un secondo, come mai gliene importasse tanto.
Quella sera, dopo aver cenato e stirato, arrivò alla conclusione che Gerald le mancava perché si sentiva sola, adesso che Clary era andata via. Finite le faccende, si ritrovò al piccolo scrittoio a scrivere su un foglio:
GERALD
Contro
Somiglia a una rana, in effetti.
Ha detto che stava via per qualche giorno e non era vero (bugiardo).
Si veste malissimo (la roba deve essere anche sporca, viste le condizioni di quell’appartamento).
Si mangia le unghie.
Non sembra avere alcuna aspirazione (in merito al lavoro).
È molto volubile. Mi era parso di piacergli, ma poi non ha potuto o voluto chiamarmi (fingeva?).
Sembra che abbia una famiglia orrenda.
Non le venne in mente altro. Passò all’altra colonna.
Pro
Mi piace parlare con lui.
Mi fa ridere.
Ha ottime maniere.
Non ci ha provato con me come molti hanno fatto al secondo appuntamento.
Non si vanta mai. (Di che dovrebbe vantarsi? Be’, di essere stato un paracadutista, di aver dimostrato coraggio in guerra e via dicendo).
Gli piacciono i gatti e gli animali in generale.
Non si lamenta mai.
Mi piace più di chiunque altro.
Ha una bella voce.
Belle orecchie.
Belle anche le mani, a eccezione delle unghie (dettagli).
Smise di scrivere e rilesse il foglio. Non si lamentava mai, anche se a quanto pareva aveva avuto una vita orribile: una madre che gli aveva sempre preferito il fratello, l’infanzia passata in collegio, il gatto ammazzato e poi la guerra, i combattimenti. Dipendeva forse dal fatto che aveva un carattere debole e non era mai stato capace di ribellarsi ai suoi genitori, o era semplicemente stoico davanti alle avversità?
Clary – e anche Louise tanto tempo prima – le aveva consigliato di stare attenta con quella sua indole compassionevole: Louise una volta le aveva detto che avrebbe finito per sposare uno solo perché le faceva pena. Questo era vero un tempo, pensò, ma adesso aveva più esperienza: almeno in quattro avevano suscitato la sua compassione dicendole che l’amavano follemente, mentre lei non li ricambiava affatto. Be’, con Christopher la cosa era stata un po’ diversa, e alla fine le aveva fatto ancora più pena degli altri, ma mai le sarebbe passato per la testa di amarlo o sposarlo per questa ragione. Perciò non doveva più preoccuparsi. C’era stato anche l’amore a senso unico per Archie: a ripensarci ora lo trovava inconcepibile. Certo, Archie era un uomo molto piacevole, ma adesso ringraziava la sorte che non avesse ricambiato i suoi sentimenti. Quel pomeriggio, quando era tornato dalla Francia per venire in soccorso a Clary, gli era stata riconoscente perché era certa che lui avrebbe saputo cosa fare, ma guardandolo si era resa conto che era davvero vecchio – certo, la notte insonne gli appesantiva i lineamenti – e che non aveva nessuna voglia di baciarlo né di andare a letto con lui. Aveva chiesto a Clary come fosse quell’aspetto dell’amore; in realtà aveva toccato l’argomento tre volte in tutto, ma solo una volta apertamente. «Non lo so», aveva risposto Clary alla domanda esplicita. «Credo di non averlo ancora capito bene... Noël dice che è per via della mia educazione borghese, ma una cosa posso dirtela, Poll: io non sarò come gli altri della nostra famiglia, al riguardo». In un’altra occasione ci aveva girato un po’ intorno: «Come stanno andando le cose?».
Clary ci aveva riflettuto qualche secondo e aveva detto: «Non ne sono ancora del tutto sicura ma credo che sia una cosa che piace soprattutto agli uomini... solo che non te lo dicono». E l’ultima volta, poco prima di dirle che era incinta, Clary l’aveva guardata con una faccia stravolta. «È la natura e basta... e sai com’è la natura...». Poi aveva aggiunto: «Ma se ami l’altra persona, allora non ha importanza». E poi: «Basta con quest’interrogatorio!», ed era scoppiata in lacrime. Perciò quando era venuto Archie, quel giorno, aveva raggiunto la certezza che non lo amava così tanto da sottoporsi per lui a un’ordalia simile.
Rilesse l’elenco. In fondo alla colonna dei pro, scrisse: «Ho voglia di rivederlo». E poi, in quella dei contro: «Non mi pare gli importi molto di me».
La sera seguente gli telefonò.
«Chi è?», chiese Gerald in tono molto ostile.
«Sono io. Polly».
«Oh, tu!». Adesso invece il suo tono sprizzava gioia.
«Volevo invitarti a pranzo, sabato o domenica».
«Ho una macchina. Perché non andiamo da qualche parte a fare una passeggiata, dove ci siano erba e alberi e io possa portarti a pranzo fuori?». Si accordarono che sarebbe andato a prenderla a casa alle undici di sabato.
È facile, pensò Polly. Se desideri vedere qualcuno, glielo chiedi semplicemente. Perché lui non glielo aveva chiesto?
Arrivò puntuale, non con il solito completo di tweed, ma con uno altrettanto vecchio: questo aveva le toppe di cuoio ai gomiti e una camicia azzurra con il colletto liso. L’auto era una Morris Minor tutta sgangherata. «Dove andiamo?», le disse dopo averle tenuto aperto lo sportello.
«Potremmo andare a Richmond Park. O a Hampstead Heath o Kew».
«Decidi tu».
«Il più simile alla campagna è Richmond Park».
«Conosci la strada?».
«Purtroppo no».
«Niente paura. Ho la mappa».
Quand’ebbe finito di consultarla, la posò sulle ginocchia di lei. «Se dovessi sbagliare correggimi», disse. «Ma credo di averla memorizzata. Sono felice che tu mi abbia chiamato».
«Potevi farlo anche tu».
«Sì, in un certo senso. Non sapevo...», gli si affievolì la voce. Poi si riprese. «Per te io sono un cliente, più o meno. Non volevo... ecco, superare il limite».
«Non credo ci sia un limite», disse lei. Era sollevata oltre ogni dire.
Passeggiarono nel parco per due ore. Era una giornata d’autunno magnifica, tra le migliori di quel mese: un sole tiepido, appannato, il cielo azzurro chiaro, gli alberi ancora folti, a macchie bronzo e viola, piccoli branchi di cervi in lontananza. Mentre passeggiavano, Gerald le disse che suo padre era molto malato e che per questo era stato via. «Credevo volesse vedermi», disse. «Ma invece no. Così mi sono fermato solo una notte».
«Tua madre sta molto male?».
«Non saprei. Non si capisce mai cosa prova. E con me non parla».
«Tuo padre potrà migliorare?».
«No. Non credo». Non sembrava desideroso di parlarne. Più tardi però, mentre erano a pranzo, riprese l’argomento. «In realtà sono molto in pensiero per mia madre. Se mio padre muore, non so cosa farà».
Subito Polly s’immaginò la madre di Gerald che mandava giù manciate di barbiturici o si buttava in mare. «Intendi che... la prenderà molto male?».
«No. Niente del genere. Lei ha sempre odiato casa nostra e sono anni che dice che vuole andarsene in qualche località in riviera. Però non credo che abbia un’idea reale della nostra situazione finanziaria. E bada bene, non ce l’ho neanch’io, ma non credo che ci sia rimasto molto». Poi disse che non voleva parlarne più e le chiese di raccontargli della sua famiglia. «Sembrano molto più interessanti!». E lei lo accontentò: tornarono così all’atmosfera rilassata di quella sera a casa di lei, a saltare da un argomento all’altro con la naturalezza tipica di due persone che si conoscono da una vita ma non si vedono da un po’, e perciò hanno un bel mucchio di cose da raccontarsi.
Dopo pranzo Gerald le chiese che cosa volesse fare. Polly domandò cosa preferisse lui. «Non m’importa. Basta che stiamo insieme», rispose, e arrossì. «Forse però ne hai abbastanza».
Andarono alla Tate Gallery. «Non so niente di quadri», le disse. «Non so nemmeno cosa mi piace e cosa no. Scommetto che tu invece lo sai».
«Da piccole avevamo una governante che ci portava sempre alle gallerie. Amava soprattutto Turner. Te lo faccio vedere». Fu un successo.
«Era davvero bravissimo! Insomma, mi piace stare a guardarli».
Si recarono da Polly, che preparò il tè e del pane tostato con la Marmite, mentre lui andava a comprare il giornale della sera per vedere se c’era qualche film che potesse essere di loro gradimento. A Polly dispiaceva che spendesse dei soldi per lei, perché aveva capito che non guadagnava e che la famiglia gli passava poco o niente. Ma quando propose di pagare ognuno per sé, Gerald la rassicurò: «Nessun problema. Posso comprare quello che voglio, perché mia zia mi ha dato tremila sterline per l’acquisto e la sistemazione della casa. Per il momento navigo nell’oro!».
Trovarono un cinema dove davano Ho sposato una strega, andarono a cena e poi lui la riaccompagnò a casa. Quello dei saluti fu un momento imbarazzante.
Lui le aprì lo sportello della macchina e l’accompagnò su per i gradini.
«Grazie per questa bella giornata», disse Polly.
«Oh, no! Sono io che ti ringrazio».
Rimasero alcuni secondi in silenzio, uno di fronte all’altra, poi lui disse: «Voglio solo vederti entrare in casa, tranquilla, poi me ne vado».
Così lei entrò in casa e lui disse: «Bene... allora vado».
Polly salì le scale a passo lento, riflettendo sul fatto che benché fossero diventati intimi da molti punti di vista, in un certo senso il loro rapporto era ancora su un piano completamente impersonale. Lui non le aveva ancora detto nessuna di quelle frasi che, quando era piccola, gli adulti chiamavano con una certa riprovazione “osservazioni personali”. Ricordava anche che, nelle occasioni in cui era stata sgridata per aver fatto delle “osservazioni personali”, aveva pensato che fossero molto più interessanti di qualunque altro genere di conversazione. Invece Gerald – non lo chiamava mai col suo nome – non le aveva detto nulla che potesse essere lontanamente additato come personale. Non l’aveva nemmeno chiamata per nome. Si sentiva leggermente offesa. Come sempre, aveva scelto con attenzione cosa indossare e studiato con scrupolo l’effetto finale, ed era abituata che le persone le dicessero: «Quell’azzurro sta benissimo coi tuoi capelli», oppure: «È uguale a quello dei tuoi occhi». Commenti che di solito non le facevano né caldo né freddo e che ora invece brillavano per la loro assenza. Quando si erano salutati, aveva avuto voglia di abbracciarlo, perché le dispiaceva che la giornata fosse finita: aveva anche pensato di farlo entrare, ma poi l’idea l’aveva resa nervosa. Gerald avrebbe potuto credere che lei volesse passare la notte insieme, con tutto ciò che ne conseguiva, e visto quello che era capitato a Clary, Polly esitava molto a compiere quel passo. Però non mi sarebbe dispiaciuto se mi avesse baciata: finalmente avrei scoperto cosa si prova, pensò. Del resto, se lui non vuole, allora non lo voglio neanch’io. Santo cielo, si disse, quelli che vorrei restassero solo amici non ne vogliono sapere, e quando finalmente c’è uno che mi piace, è lui a non voler essere altro.
La mattina dopo alle nove squillò il telefono. Era lui, e Polly provò un moto di felicità nel sentire la sua voce. «Spero di non aver chiamato troppo presto».
«No. Stavo facendo colazione. Come stai?».
Stava per invitarlo a unirsi a lei, quando le disse: «Ieri sera rientrando ho trovato un telegramma. Mio padre è morto ieri mattina».
«Oh!».
«Perciò temo che dovrò andare laggiù a occuparmi della situazione. Il funerale e via dicendo. Starò via per circa una settimana. Volevo che lo sapessi».
«Sì».
Fece per dirgli che era dispiaciuta, ma lui la interruppe. «Va bene così. Non c’è niente da dire. Volevo che lo sapessi e basta. Perché non pensassi che ero sparito. Non che dovrebbe importartene qualcosa».
«Me ne importa!».
«Davvero?». La voce gli si era addolcita di colpo. La salutò invece nella solita maniera.
Polly non ebbe sue notizie per dieci giorni. Trascorse metà di quel periodo a non pensare a lui – ovvero a sforzarsi di pensare ad altro ogni volta che lui le veniva in mente – e l’altra metà a rendere il suo appartamento abitabile per quando sarebbe tornato. L’impianto elettrico e quello idraulico erano completati, il pavimento era stato levigato, le sbarre alle finestre e le parti coi mattoni a vista erano state verniciate di bianco.
Dopo una settimana – Gerald era ancora via – chiamò l’imbianchino e gli chiese di cominciare dalla camera da letto, in previsione del ritorno del proprietario. Caspar le assegnò un altro incarico: un piccolo appartamento prospiciente al fiume, già ristrutturato. C’era solo da progettare e realizzare l’arredamento. In altre circostanze l’avrebbe considerata una promozione, e la cosa l’avrebbe resa euforica, invece adesso era solo contenta di avere qualcosa che la distraesse. La distraesse da cosa?, pensò mentre saliva sull’autobus per andare a incontrare il cliente presso l’appartamento. Si stava per caso innamorando di Gerald? E perché? Se ci pensava a mente fredda non c’erano molte ragioni. Non sembrava avere uno scopo nella vita, e bello non lo era di certo; era buono, questo sì, e a lei piaceva la sua compagnia, ma questo probabilmente aveva a che fare col fatto che lo conosceva poco e non aveva avuto ancora il tempo di annoiarsi. Forse aveva solo raggiunto un’età nella quale voleva a tutti i costi innamorarsi di qualcuno, e allora il primo che era passato le era andato bene. Era un pensiero deprimente, e siccome la avvilì pensò che doveva essere vero.
Il cliente si rivelò essere un giovanotto che lavorava nella City e a cui serviva un pied-à-terre. «Mia moglie e i bambini stanno in campagna», spiegò. «Ma prendere il treno tutti i giorni è una gran seccatura».
Sembrava giovane per avere moglie e figli, anche se era già un po’ stempiato. «È piccolino, lo so. Ma mi piace la vista e in più è a due passi dalla banca. L’arredamento deve essere semplice, ma di tanto in tanto ci porterò degli ospiti, perciò vorrei che fosse un posto piacevole». L’appartamento era abbastanza grande, ma la camera da letto era minuscola e il bagno e il cucinino appena sufficienti.
«La camera da letto è un bel problema, vero? Una volta messo il letto, di spazio per l’armadio ne resta poco».
«Oh, pensavo di usarla come spogliatoio e di dormire nel soggiorno. Mi piace avere un letto bello grande». Mentre pronunciava quelle parole, le parve che la guardasse con interesse.
Polly aveva portato con sé dei campioni di pittura e di tessuto, che dispose sul piano della cucina, ma lui non sembrava molto interessato. Gli domandò se possedeva già della mobilia o se voleva che gliela scegliesse lei. «Oh, ci pensi lei», disse l’uomo. «E scelga mobili moderni. Di anticaglie ne abbiamo già tante in campagna. Annabel ne va matta».
Mentre metteva via i campioni nella valigetta, lui le si mise dietro le spalle e disse: «Le hanno mai detto che è bellissima?».
Sentì le sue mani sulle spalle e si voltò. «Me l’hanno detto in tanti», rispose.
«Pensavo che potremmo andare a pranzo».
«No, grazie».
«Non faccia la preziosa. La trovo davvero irresistibile».
«E a lei hanno mai detto che è davvero arrogante?».
Il sorriso gli si spense in viso. «Non c’è bisogno di essere maleducati. L’ho solo invitata a pranzo».
«No, non è vero». Chiuse la valigetta e si avviò verso la porta con passo risoluto, anche se le ginocchia le tremavano.
«Lei ha un’alta opinione di se stessa, vero?», le disse lui con debole ironia; capì di aver vinto lei.
Quando tornò in negozio però venne a sapere che il cliente aveva disdetto il lavoro. «Te l’ho già spiegato: non devi trattare male i clienti», le disse Caspar. «Non so cosa gli hai detto, ma di certo lo hai fatto innervosire. Quel tizio poi ha un sacco di soldi. Gervase non sarà contento».
«Ci ha provato con me», si giustificò lei. «Mi dispiace».
«Ci scommetto. Adesso sei una ragazza grande, cara. Comportati da tale». La promozione di cui si era parlato quella mattina non la ottenne.
Il venerdì mattina Gerald le telefonò prima che andasse a lavoro. «Spero non ti dispiaccia», disse, «ma ho un favore da chiederti. Per caso saresti libera questo fine settimana? Oh, bene. E potresti prendere il treno per Norwich domani mattina? Verrò in stazione. Sono ancora in campagna, sai. Ho un sacco di problemi con la casa dei miei genitori. E tu sei così brava in queste cose! Ho pensato che avresti saputo cosa fare».
Gli disse che avrebbe preso il treno delle nove e trenta da Liverpool Street.
«È meraviglioso, davvero! Vestiti pesante. È una casa fredda».
In treno, si domandò che genere di casa fosse e perché rappresentasse un problema. Forse la madre di Gerald voleva vivere all’estero, e toccava a lui occuparsi della vendita. Non era mai stata nel Norfolk. Forse si trattava di una dimora di campagna, di quelle con travi dappertutto e resti di ceppi arsi ancora fumanti. Era una fantasia romantica: poteva anche essere una casa moderna, di quelle a un piano. Comunque, con la penuria di alloggi che c’era, non sarebbe stato un problema venderla, se era questo che intendevano fare.
Gerald l’aspettava sulla banchina. Fu lei a vederlo per prima e provò lo stesso impeto di gioia di quando aveva sentito la sua voce al telefono. Portava un maglione a collo alto sotto una giacca di tweed con le toppe di cuoio ai gomiti. «A casa serviranno il pranzo», disse. «Se ce la fai ad aspettare. Si tratta di una trentina di chilometri».
«Non c’è problema».
Aveva un’altra macchina, un po’ più grande ma sgangherata come l’altra. «Era di mio padre», spiegò. «È leggermente più comoda».
«E tua madre come...», fece per chiedere Polly.
«È partita subito dopo il funerale. Un amico la porta in Francia in vacanza. È un bel sollievo, davvero. Vuol dire che almeno posso occuparmi della situazione senza interferenze».
Aveva l’aria piuttosto abbattuta, pensò Polly. «C’è molto da fare?».
«Be’, in un certo senso sì. Ma sembra che ogni decisione dipenda da un’altra decisione, ed è difficile capire da dove bisogna cominciare. Così ho pensato di cominciare da te».
«Che intendi dire?».
«Te lo spiego dopo. Non voglio parlarne adesso. Dimmi come è andata questa settimana».
Così gli raccontò del tizio dell’appartamento e di quello che era successo. Pensava di aver esposto l’aneddoto in una luce buffa, ma Gerald si rabbuiò e si mise a fissare la strada come se avesse voluto aggredirla.
«Che cafone! Davvero insopportabile», disse. «Ma immagino che, bella come sei, queste cose ti succedano spesso».
«Il peggio è che ho perso il cliente, e Caspar e compagnia non erano affatto contenti».
«La cosa sconfortante», proseguì lui come se Polly non avesse aperto bocca, «è che quell’uomo non ti conosceva per nulla! Ma immagino che per quel genere di persone non sia importante».
Percorso qualche chilometro riprese il discorso: «Anche per le donne è così? Voglio dire, danno così tanta importanza all’aspetto fisico di un uomo?».
«Non tanta. No, non credo. Certo, si parla degli uomini anche in quei termini».
«Davvero? Lo sospettavo».
«Be’, nei libri di sicuro. Ma non so quanto siano affidabili».
Dopo un altro breve silenzio, Gerald disse: «Almeno mia madre ha un po’ di soldi suoi. È sistemata. Potrà vivere nella Francia del Sud, se vuole. Di certo non vuole restare qui».
«Perciò vuole vendere la casa?».
«La casa? Be’, veramente mio padre l’ha lasciata a me. È questo il punto. Non mi ha lasciato soldi. Non ce n’erano».
Lasciò la strada per imboccare quella che sembrava una mulattiera, ma poi iniziarono due file di grossi alberi ai lati e Polly capì che si trattava di un viale d’accesso in disuso. Ai due lati si estendeva un vasto parco punteggiato da altri grossi alberi, molti dei quali stavano per morire o erano già morti. Dopo qualche centinaio di metri il parco finì e sopra la strada si innalzò una fitta volta arborea. Poi uscirono dalla boscaglia e attraversarono un altro prato in fondo al quale sorgeva un enorme edificio che sembrava mollemente sdraiato sull’orizzonte. Aveva quattro torri di forma squadrata ed era di un colore giallastro. La fila di alberi s’era interrotta, i tronchi erano stati tagliati e addossati al bordo del viale. La casa era più distante di quanto le fosse parsa, perché dovettero sobbalzare ancora per un bel pezzo prima di avvicinarsi davvero; poi, gradualmente, le finestre cominciarono ad ammiccare nel sole freddo del mattino e Polly vide che la casa era fatta di mattoni grezzi con facciate in pietra e che le torri erano invece di mattoni rosa, con merlature di pietra in cima. Poteva sembrare un ospedale oppure un albergo in stile edoardiano, di certo era il più brutto edificio di quelle dimensioni che avesse mai visto in vita sua. Gerald era rimasto in perfetto silenzio e, quando furono a pochi metri dalla casa, accostò e spense il motore. Nell’improvviso silenzio udì distanti le strida dei corvi. «Posso capire mia madre. Solenne com’è è difficile considerarla una casa». Poi si voltò verso di lei. «Ti fa orrore, eh? Lo temevo. Ecco perché volevo mostrartela. Comunque entriamo a mangiare qualcosa».
Riaccese il motore e si avvicinarono all’ingresso centrale. La facciata – della larghezza di un campo da tennis – era fiancheggiata da due ali ad angolo. Sul davanti, quello che un tempo doveva essere stato un prato era adesso una desolata, incolta landa fitta di ortiche, cardi ed erba di san Giacomo. Le ali laterali terminavano ognuna con un torrione in mattoni rosa ed erano collegate al corpo principale con dei voltoni. Gerald ne attraversò uno con la macchina e si ritrovarono in un cortile circondato da annessi, stalle o garage. «Entriamo da qui», disse aprendo una porta di vetro istoriato. «È meglio che faccia strada io».
Lo seguì lungo un largo corridoio buio e attraverso un’altra porta. Il freddo l’aggredì immediatamente. Il corridoio continuava ma adesso c’era più luce, perché a intervalli regolari erano stati aperti dei lucernari. Giunto quasi alla fine, Gerald svoltò a sinistra e spalancò una porta di mogano che conduceva in una specie di atrio, dove si aprivano altre porte, tutte sulla stessa parete. Ne aprì una e disse a gran voce: «Nan! Siamo qui!», poi la chiuse e ne aprì un’altra e si ritrovarono in un piccolo soggiorno, con un tavolino a ribalta apparecchiato per pranzo. Uno stentato fuocherello a carbone ardeva nel camino. «Qui dentro fa leggermente più caldo», disse. «C’è dello sherry, se ti va. Siediti vicino al fuoco mentre vado a prenderlo».
Durante la sua assenza passò in rassegna la stanza. Il soffitto era molto alto e le pareti erano rivestite da pannelli verdi con una bordatura a perline di un verde più chiaro. La mensola del camino era in marmo verde, e c’era una finestra molto alta affacciata sull’ennesimo cortile, su cui svettava la torre rosa culminante in una cupola con sotto un orologio fermo alle quattro e venti. Le tende erano color avena con un motivo a foglie di acanto in lana verde, e c’era anche una libreria con un’anta di vetro stipata di vecchi volumi rilegati tutti allo stesso modo, in blu scuro. Una radio, con sopra un fregio che richiamava un tramonto, troneggiava su uno dei molti tavolinetti sparsi in giro: accanto al divano e alle due poltrone, su una delle quali era seduta, e vicino alla grossa voliera di vetro piena di uccelli impagliati che prendevano polvere. Era tutto così eccentrico, pensò. E divertente. Se tutta la casa era piena di roba come quella stanza, sarebbe stato uno spasso scegliere i mobili per l’appartamento di Gerald.
Questi arrivò con lo sherry, seguito da una donna anziana con un grembiule a fiori e un vassoio in mano. «Allora, Mr Gerald. Non faccia perdere tempo a questa signorina con lo sherry. Lo sa che cosa vuol dire portare il cibo caldo in tavola in questa casa, con i corridoi che ha. Il brodo si sta già freddando». E mentre poggiava la zuppiera sul tavolo rivolse a Polly un’occhiata obliqua. «Buongiorno, Miss».
«Potremmo versare un po’ di sherry nel brodo», suggerì Gerald.
«Oh, faccia come crede, vossignoria! Il pollo è quasi pronto. Sarà in tavola fra dieci minuti».
Quando se ne fu andata, Gerald versò lo sherry per entrambi e disse: «Mi ha sempre dato ordini. Ma non è cattiva».
«Credevo che da un momento all’altro ti avrebbe fatto una ramanzina!».
«Oh, l’avrebbe fatto, se non le avessi risposto. Le abitudini di Nannie sono dure a morire».
«Era la tua tata?».
«Sì. È sempre stata qui. Ha passato praticamente tutta la sua vita a occuparsi di noi. Questo è un altro problema».
«Che vuoi dire?».
«Adesso devo occuparmi io di lei».
La minestra era fatta coi funghi in scatola, ed entrambi ci versarono dentro il loro sherry.
«Dopo pranzo ho pensato che potremmo visitarla tutta», disse. «Ci sono stanze dove non credo di aver mai messo piede. E immagino che siano in condizioni terribili».
«Probabilmente questo renderà più difficile venderla».
«Venderla? Non posso venderla. Mi è stata lasciata con una specie di vincolo. Non posso sbarazzarmene».
«Oh!». Adesso cominciava a capire perché era tanto in pensiero.
«Forse un ente come il National Trust potrebbe fare qualcosa». Lo aveva sentito nominare da Caspar una volta.
«Figurati, non la vorrebbero nemmeno vedere. Non solo è in pessimo stato, ma è anche brutta di suo».
«Perciò cosa intendi fare?».
«Non lo so. Dipende da... tante cose. Non ho deciso».
Poi fu servito del pollo al forno con salsa di pane, purè di patate e cavolo.
«Sai quando la gente parla degli elefanti bianchi, per dire una cosa ingombrante e inutile?», le disse poi. «Ecco, io preferirei avere uno di quelli».
«Un ottimo pranzo», disse Polly a Nan dopo che ebbero mangiato la torta alla Bakewell, e ne ricevette in cambio un sorriso.
«Mi piace trovare i piatti ben ripuliti», disse.
«Adesso faremo un giro per la casa, Nan».
«Fate attenzione al pavimento del salone. E non tentate di aprire le finestre. Chiamatemi quando volete il tè».
«Dato che ci siamo, cominciamo dal piano terra».
Le fece strada. L’ennesimo corridoio con le porte a vetri si apriva su un vasto atrio da cui si diramava un doppio scalone con la balaustra in pietra, e un’altra porta a vetri che portava all’ingresso principale. A sinistra c’era un piccolo salotto con le pareti rivestite in seta damascata piuttosto scolorita, dato che i riquadri dove un tempo dovevano essere stati appesi dei dipinti erano di un rosa molto sgargiante, a contrasto. Quasi tutti i mobili erano coperti da teli antipolvere. Nel camino, uno stormo morto giaceva su un mucchio di cenere. Due porte ai lati del camino immettevano nel salone, la cui parete maggiore aveva quattro ampie finestre affacciate su una veranda a vetrate. Qui il soffitto era danneggiato in più punti; sul pavimento a piastrelle erano sparsi grossi frammenti di vetro. Una spessa tubatura arrugginita si snodava come un pitone lungo i muri, a una trentina di centimetri dal pavimento. Vasi di terracotta e urne cariche di decori contenevano terra polverosa e felci morte. In uno di questi Polly vide una minuscola matita con la nappina di seta sbiancata dal tempo. La veranda affacciava sui resti di un giardino all’italiana bordato da una balaustra di mattoni e pietra.
«Deve essere stato bellissimo, ai suoi tempi», disse Polly mentre passavano accanto a una camelia vetusta i cui rami più alti avevano letteralmente sfondato il tetto. Nel dirlo sbirciò l’espressione di Gerald, e si accorse che lui le indirizzava occhiate ansiose, come a capire cosa le passasse per la testa.
La stanza successiva era ciò che restava di una biblioteca. Gli scaffali c’erano ancora e per metà erano carichi di libri. Una parete sfoggiava un grosso, vistoso fungo bianco e nero e nella stanza regnava un caratteristico odore di muffa. E così via. Videro altri due soggiorni e poi uno studio con una carta da parati così scura da sembrare nera e una vasta scrivania a cassetti ingombra di carte. A differenza di tutti gli altri ambienti che avevano visitato fino ad allora, qui c’erano segni di vita recenti: l’odore del tabacco da pipa e la cenere recente nel camino. «Mio padre passava molto tempo qui dentro», disse Gerald. «È meglio se adesso andiamo al piano di sopra. Le altre stanze qui sono un’armeria, uno spogliatoio, un guardaroba, la stanza del telefono e i bagni... cose di questo genere».
«Quante camere da letto ci sono?», domandò Polly mentre raggiungevano lo scalone.
«Non lo so. Se vuoi le contiamo».
In cima allo scalone si diramava in opposte direzioni un ampio corridoio illuminato da finestre rotonde collocate poco sotto il soffitto. Questo era a volta, in stile gotico. Le porte delle camere erano di mogano, e avevano delle cornicette d’ottone fissate ad altezza occhi. In una era infilato un biglietto. «LADY POMFRET», c’era scritto con bella grafia elegante. «Per gli invitati del fine settimana», le spiegò Gerald. «Mettevano i nomi degli ospiti sulle porte così ognuno sapeva dove doveva andare. E naturalmente dove andavano gli altri. Bagordi edoardiani», aggiunse con una smorfia triste. «Mia madre adorava parlare di queste cose. Quando si sono sposati, si faceva ancora».
Le camere da letto erano pressappoco tutte uguali. Molte avevano uno spogliatoio attiguo con un letto singolo, un cassettone, un armadio, un piccolo caminetto. Anche qui teli antipolvere a profusione; gran parte dei tappeti erano arrotolati e legati con del nastro adesivo. Su quel piano c’erano in tutto quindici camere da letto e due stanze da bagno. I bacili erano di porcellana bianca e blu. In due delle camere c’era un lavandino.
«C’è anche il piano mansardato», disse lui. «Ma forse per oggi ne hai avuto abbastanza».
«Oh no! Voglio vedere tutto».
Così salirono ancora di un piano.
«Immagino che sia tuo anche l’intero contenuto della casa». Si stava chiedendo se c’era la possibilità che sua madre tornasse e si prendesse tutte le cose più belle.
«Oh, sì. Ogni singolo oggetto». L’ironia con cui lo disse le strappò quasi una risata.
Le mansarde erano evidentemente adibite ad alloggi per i domestici, che dovevano essere stati tanti a giudicare dal numero di stanze. In una di queste, però, fecero una scoperta. Ed erano stati sul punto di non andarci, perché la luce cominciava a scendere e le stanze erano tutte uguali. Gerald aveva suggerito di tornare di sotto a prendere il tè, ma ne erano rimaste solo due da visitare, perciò Polly disse: «Meglio finire il lavoro, no?».
La prima era in tutto e per tutto identica alle altre: una finestrella affacciata sui merli della torre, e dunque nascosta a sguardi indiscreti, il letto di ferro senza materasso, una sedia dallo schienale alto, un cassettone riverniciato, una lampadina solitaria appesa al soffitto, la carta da parati a fiori scolorita, il focolare mai utilizzato...
«L’ultima», disse Polly aprendo la porta. Era uguale alle altre anche questa, tranne che per un dettaglio. Le pareti erano tappezzate di piccoli acquerelli, tutti montati in cornici ampie, dorate, identiche tra loro. Un ritrovamento così singolare che Polly si avvicinò a osservarne uno. Era un tramonto su un tratto di costa selvaggio, e aveva un che di familiare. Diede un’occhiata anche agli altri. Raffiguravano tutti cielo e luce in diverse ore della giornata: paesaggi marini e collinari, il tempo e le stagioni, estati luminose, sobri autunni. Recavano tutti l’impronta della stessa mano. Ne staccò uno e si avvicinò alla finestra. J.M.W. Turner, si leggeva chiaramente nell’angolo in basso a destra.
«Vieni a vedere!».
«Non è male, eh?», disse. «A mia madre non piacciono gli acquerelli, a meno che non li abbia fatti lei, perciò li avrà stipati tutti nella camera della cameriera, così da non vederli».
«Hai notato la firma?».
Lui la guardò e poi si voltò verso di lei. «Misericordia! Lo stesso che ha dipinto i quadri che abbiamo visto alla Tate! Ma è incredibile!».
«Li avevi mai visti?».
«No davvero! Deve essere un secolo che sono qui dentro. E meno male, perché se mia madre se ne fosse accorta li avrebbe venduti in un battibaleno. Ogni volta che le servivano soldi vendeva un quadro di quelli buoni». La guardò rimettere a posto il quadro, poi disse: «Immagino siano tutti di Turner».
«Potresti portarne uno a Londra per scoprirlo. Se è autentico uno, lo saranno anche tutti gli altri».
«Quanti sono?».
Li contarono insieme.
«Quarantotto», disse Gerald.
«Cinquantadue. Ce ne sono quattro dietro la porta».
«Devono valere molto», disse lui. Era frastornato.
«Sì».
«Perciò se li vendo ne ricaverò del denaro?».
«Ma certo! Solo... non ci sarà da pagare l’imposta di successione?». Aveva sentito suo padre parlarne quando era morto il Generale.
«Non credo. Quando Mr Crowther ha letto il testamento, è venuto fuori che mio padre aveva lasciato tutto a mio fratello e, se fosse morto, a me. Non ce lo aveva mai detto. E comunque è tutto vincolato a quella maledetta clausola: non posso venderla, né farla saltare per aria, niente. Questi quadri però varranno migliaia di sterline, giusto?».
«Migliaia, sì».
«Abbastanza per rimettere a posto la casa, secondo te?».
«Questo non saprei dirlo. Credo di sì, però».
«Ma probabilmente non così tanti da ristrutturarla e poterci vivere».
Mentre uscivano dalla stanza, all’improvviso disse: «Prendine uno!».
«Di che?».
«Un quadro. Scegline uno. Anzi, no. Fallo domani, che ci sarà più luce. Prendi quello che ti piace di più. Dopotutto li hai scoperti tu».
«Non posso, davvero. È molto gentile da parte tua», replicò Polly. «Ma non credo che tu abbia capito quanto valgono. E i soldi ti servono».
«Hai ragione. Una parte di me venderebbe i Turner, comprerebbe una casetta per Nan e chiuderebbe a chiave questa casa per non tornarci mai più. Che te ne sembra?». Erano arrivati alle scale. Gerald disse: «Ti dispiacerebbe molto se ci sedessimo qui sul primo gradino e ti parlassi di una cosa? Se andiamo di sotto, Nan verrà a interromperci con i suoi dolci».
«Va bene».
«Per prima cosa, voglio davvero che tu prenda uno di quei quadri. Se non lo scegli tu, lo farò io e di certo sceglierò male».
Senza darle il tempo di rispondere disse: «In secondo luogo, che ne pensi di quello che dicevo prima? Abbandonare la casa eccetera?».
«Io credo che...», esordì lei lentamente, sforzandosi di mettersi nei suoi panni, «...dipende dai tuoi sentimenti. Perché se ci sei affezionato e la lasci andare così, dopo potresti soffrirne».
«Se l’avessero lasciata a te, cosa ne faresti?».
«Oh, be’, io credo che proverei a viverci. Ne renderei abitabile almeno una parte e poi vedrei come vanno le cose».
«Davvero?».
Polly si ricordò di avergli sentito dire quella stessa parola, nello stesso identico tono, al telefono. Stavolta però lo vedeva in faccia. La fissava, tutto serio e tenero. «E se facessi il grande salto, tu lo faresti con me? Vorresti sposarmi e trasferirti qui con me? Potresti pensarci?».
«Non devo pensarci», disse, scoprendo lei stessa solo in quel momento di non averne alcun bisogno. Non aveva il minimo dubbio.
«Ho desiderato sposarti dal primo momento che ti ho vista», le disse. «E poi più ti vedevo e più ne ero convinto. Solo che non credevo di avere speranze. Infine, proprio quando stavo cominciando a credere che forse potevo sperarci, ecco che mio padre muore e mi arriva tra capo e collo questo posto e non ho un soldo... ho pensato che dovessi vederlo. E poi i Turner!».
«Ti avrei sposato anche senza nemmeno l’ombra di un Turner».
«Davvero?».
Quando la baciò – un bacio dolce, lungo – e poi si allontanò un poco, Polly vide che la felicità lo trasformava tutto.
«I tuoi occhi sono come stelle, come gli zaffiri che hanno una stella in fondo».
Trascorsero sui gradini un lasso di tempo indefinito, in uno stato di estasi euforica, senza dirsi molto, finché divenne scuro e furono interrotti dall’eco distante di un gong.
«Questa è Nan che ci chiama per il tè». La prese per mano e la condusse con cautela giù per le scale, poi attraverso la porta che si apriva sul corridoio, dove tastò il muro alla ricerca di un interruttore. Una debole luce gialla illuminò l’andito che portava nella stessa stanza dove avevano pranzato.
Nan comparve immediatamente, come per magia. «Mi sono permessa di chiamarvi perché, come tutti sappiamo, le focacce calde non aspettano nessuno», disse. Dopo aver rivolto ai due un’occhiata sghemba, dispose sul tavolo un piatto coperto e una teiera d’argento.
Gerald guardò a lungo Polly e poi disse: «Stiamo per sposarci, Nan, e tu sei la prima a saperlo».
La donna drizzò la schiena e si asciugò la mano sul grembiule. «Lo sospettavo», disse e poi strinse la mano a Polly. «Vi auguro tanta felicità». Poi aggiunse: «Lo conosco da quando è nato e le assicuro che in lui non c’è l’ombra di un vizio».
«Adesso mi fai sembrare un cavallo!».
«Non dica sciocchezze!», replicò Nan. «La sua signorina lo vede benissimo che non è un cavallo». Si voltò verso Polly: «Beva il suo tè, se sua signoria si degna di versarglielo. Chiamatemi quando avrete finito».
«Le piaci, Polly cara... a proposito, posso chiamarti Polly?».
«A meno che tu non voglia chiamarmi Miss Cazalet, o magari...». Si divertì a pensarlo per la prima volta. «O magari Mrs Lisle, quando sarà il momento».
«Oh, ecco. Un’altra cosa. Non ti chiamerai Mrs Lisle, temo, ma Polly Fakenham. Se deciderai di metterti con me in via permanente, ti toccherà il titolo di Lady».
«Mi stai dicendo che sei un lord? Nan non scherzava quando ti chiamava sua signoria?».
«Possiamo farci chiamare Lisle, se preferisci. Essere un lord può rivelarsi molto dispendioso, e come tu ben sai io non ho il becco d’un quattrino. Posso offrirti solo la sempiterna devozione di un uomo-rana».
«No, mi piace l’idea di essere Lady Fakenham. Sembra un personaggio di una commedia di Oscar Wilde!».
«Il titolo e la casa fanno parte dello stesso pacchetto. Quando siamo soli, comunque, puoi chiamarmi Gerald».
Ore dopo era coricata in un letto sorprendentemente comodo in una delle molte stanze per gli ospiti, con una vecchia camicia da notte bianca a maniche lunghe procuratale da Nan e un recipiente di terracotta per l’acqua calda stretto al petto, e pensava a quella giornata straordinaria in cui erano successe tante cose e la sua vita era cambiata. Mentre era stesa al buio la mente le si affollava di ricordi di quel giorno e del lontano passato, per esempio la volta in cui lei e Louise erano sdraiate sul prato in Lansdowne Road e Louise le aveva detto che probabilmente avrebbe sposato uno dei suoi pretendenti solo per compassione. Per anni aveva temuto che questo accadesse davvero, e invece adesso eccola con Gerald, e la compassione non c’entrava proprio niente. E poi quella volta che papà, mentre erano a cena insieme al suo club, le aveva detto che un giorno si sarebbe innamorata e poi sposata, ma che doveva uscire, vedere gente, per trovare finalmente quello giusto. E poi era andata a quella festa, anche se non ne aveva voglia, e l’aveva incontrato! L’indomani avrebbe telefonato a papà per dirgli che voleva fargli conoscere una persona, lui avrebbe capito al volo il perché e sarebbe stato felice e sollevato di conoscere Gerald e vedere che persona meravigliosa fosse. Allora le venne in mente che sua madre invece non lo avrebbe mai saputo, e il dolore che credeva di aver sepolto per sempre si alzò dalla sua tomba. Mi sono solo abituata alla sua assenza, pensò, ma lei mi mancherà sempre. Sono molto più fortunata di Wills, perché io ho tanti ricordi di lei. Poi tornò a pensare a Gerald, per consolarsi. Pensò a quanto era divertente quando si sentiva a suo agio. Quella sera, poi, i commenti personali non erano mancati, anzi... lui la riteneva molto più bella, interessante e affascinante di quanto fosse in realtà. Che cosa ne avrebbe detto Clary? Adesso capiva che la cugina non poteva essere davvero innamorata di Noël: era stata troppo infelice e nervosa per tutta la durata della relazione, per non parlare poi del modo in cui era finita. Dopo l’aborto, quando era sprofondata in quello stato apatico, Archie l’aveva mandata a stare in una casa in campagna che aveva avuto in prestito da certi amici, perché si dedicasse al suo libro. Ci andava nei fine settimana per tirarla un po’ su e spronarla, o almeno questo era ciò che Polly immaginava, dal momento che quando le aveva proposto di andare a trovarla, Clary le era parsa riluttante. Si erano allontanate, e Polly temeva che il contrasto tra le loro attuali situazioni potesse allontanarle ancora di più. Non succederà, no, pensò. Le voglio troppo bene. Quella sera aveva raccontato a Gerald di Clary – tutta la storia – e lui era stato sinceramente dispiaciuto. A Clary Gerald sarebbe piaciuto, e sarebbe venuta a passare qualche giorno da loro. Certo la casa l’avrebbe fatta ridere: era così diversa da quella che Polly aveva immaginato e descritto in tutti i dettagli fin da bambina, quasi il contrario. Si tratta di una sfida, pensò sempre più insonnolita. Tutte quelle stanze, ci avrebbe impiegato probabilmente l’intera vita... pensò alle cose che aveva appena saputo sul conto di Gerald. Suonava il piano ed era un cavallerizzo provetto. Glielo aveva detto Nan, ed erano state le uniche due occasioni in cui era tornato ad arrossire, cosa che peraltro non era più capitata. «Ero così in soggezione con te!», le aveva spiegato. «Sei una tale meraviglia, tu... è come osservare da vicino le ali di una farfalla... ogni dettaglio è perfetto».
L’indomani si sarebbero dedicati agli esterni. C’era un lago, le aveva detto Gerald, soffocato da ninfee e malerbe, e poi un roseto che però non veniva sfrondato da anni ed era invaso dalle erbacce. C’erano quattro serre che cadevano a pezzi e un orto protetto da mura (chiamato in causa quando avevano cominciato a parlare della possibilità di coltivare asparagi per guadagnare qualcosa), un boschetto di campanule e terreni vari, ma la gran parte della terra era stata venduta. La madre di Gerald aveva dato via, senza troppe remore, tutto ciò da cui poteva ricavare del denaro. La cosa era stata evidente quando Nan, con la parlantina sciolta per via dello champagne, era arrivata con un pacchettino di carta marrone che aveva fatto cadere davanti a Gerald.
«Lo so, non erano affari miei», disse. «Ma io credo che esistano cose giuste e cose sbagliate, e che non tutti le sappiano riconoscere. Quando Lady ha mandato i gioielli di famiglia a Londra per venderli, non sopportavo l’idea che andasse perduto anche questo. Era di sua nonna, e come lei sa io sono andata a servizio da lei che avevo tredici anni. Sua nonna lo diede a suo padre, perché lo regalasse a sua madre in occasione del fidanzamento, ma era troppo piccolo per Lady, e in fondo non le importava poi molto. Lo avrebbe dato via senza pensarci troppo... Se non si fosse fidanzato, Mr Gerald caro, glielo avrei dato lo stesso, e lei ne avrebbe fatto quel che meglio credeva».
L’involucro di carta racchiudeva una scatolina di cuoio blu scuro al cui interno, adagiato su un fodero di velluto bianco sporco, c’era un anello con uno zaffiro stellato ovale circondato di diamanti. Polly lo aveva accarezzato con le dita pensando a quel che le aveva detto Gerald dopo averla baciata, e fu invasa da una felicità tale che sentì di amare non solo Gerald, ma il mondo intero.