Introduzione | Il contributo di Jean Piaget allo studio dello sviluppo intellettuale |
Guido Petter |
Quest’opera di Piaget, dedicata alla rappresentazione che il bambino si dà del mondo, comparve per la prima volta in lingua francese nel 1926. Piaget aveva allora appena trent’anni, e aveva alle spalle una considerevole esperienza di ricercatore presso l’Istituto J.-J. Rousseau che Édouard Claperède aveva fondato a Ginevra allo scopo di rendere possibile un ampio sviluppo degli studi dedicati alla vita mentale del bambino e condotti con procedimenti scientifici. Prima della pubblicazione di questo libro, Piaget ne aveva scritti altri due: Il linguaggio e il pensiero del fanciullo (1923) e Giudizio e ragionamento nel bambino (1924); ed esso fu seguito, a un anno di distanza, da La causalità fisica nel bambino (vedi qui bibliografia a p. XXXI, NN. 8, 9, 10).
Queste opere, di cui quella qui presentata è indubbiamente la piú importante, ebbero subito una vasta risonanza, sia in Europa che in America. E i temi trattati, o altri temi a essi piú o meno strettamente collegati, hanno poi costituito l’oggetto delle ulteriori ricerche dello psicologo ginevrino che si sono venute sviluppando sino a oggi, in una forma sistematica che non trova confronti nel campo della psicologia infantile.
Da dove deriva l’importanza che fu subito riconosciuta a questo lavoro? E in che senso, a partire dai temi in esso discussi e dai risultati in esso presentati, si è sviluppata l’ulteriore attività scientifica di Piaget?
1. Per comprendere quale significato ha avuto questo libro è necessario tenere presente il seguente fatto. Prima dello sviluppo della moderna psicologia infantile, era opinione diffusa che le innegabili differenze esistenti fra la vita mentale del bambino e quella dell’adulto fossero sostanzialmente solo delle differenze di ordine quantitativo.
Si era cioè generalmente inclini a ritenere che il bambino fosse una sorta di “uomo in miniatura”, che fosse presente in lui una struttura psichica molto simile a quella dell’adulto, e che le differenze consistessero essenzialmente nel fatto che egli conosce meno cose di un adulto, ha un vocabolario meno ricco, ha un minor numero di abilità specifiche, un patrimonio di esperienze ancora estremamente limitato, una assai minore capacità di sostenere uno sforzo prolungato come richiede lo svolgimento di un vero lavoro.
Il comportamento concreto degli adulti nei confronti del bambino era chiaramente influenzato da questo modo di vedere: mentre da una parte si evitava di parlare al bambino di certi argomenti, nella convinzione che egli non li avrebbe capiti per la mancanza di un sufficiente contesto di esperienze e di notizie, dall’altra si trascurava di valutare in modo adeguato certi aspetti tipici della vita del bambino, per esempio il giuoco o la fabulazione, considerandoli – in un senso sostanzialmente negativo – come un indice della sua debolezza, e gli si proponevano spesso, sul piano scolastico, delle attività prive di un qualsiasi interesse immediato, nella convinzione che potessero agire anche in lui quelle motivazioni che in un adulto portano ad affrontare un lavoro ingrato, che troverà solo in forma indiretta e a distanza di tempo la sua ricompensa.
Questa difficoltà di vedere le profonde differenze qualitative fra il nostro modo di pensare e quello di un bambino, è spesso presente ancora oggi, per lo meno sul piano del senso comune. Essa trova la sua origine nel fatto che nel momento stesso in cui noi veniamo a contatto con dei bambini, parliamo con loro e ci veniamo formando un’opinione intorno al loro modo di pensare, o di vedere e valutare la realtà, compiamo senza rendercene conto degli errori sistematici, tutti nel senso di un’indebita esaltazione e generalizzazione degli elementi di identità che possono esistere fra noi e i nostri interlocutori.
Uno di tali errori può facilmente avere luogo sul piano del linguaggio verbale. Accade frequentemente che un bambino, ascoltando le conversazioni degli adulti, senta certe parole o espressioni e le utilizzi poi nella stessa forma, attribuendo però loro un significato piú o meno diverso e largamente “personale”. Per esempio, un bambino che ascolta un’espressione come “i nemici erano il doppio” può utilizzare a sua volta quest’espressione, dandole tuttavia il significato di “i nemici erano in numero maggiore”, oppure quello di “i nemici erano moltissimi” e intendendo dunque dire in entrambi i casi, pur con le stesse parole, cose alquanto diverse. L’identità di forma maschera molto facilmente, in casi come questi, la diversità di significato: questa emerge solo se l’adulto cerca ogni volta di controllare che cosa il bambino abbia compreso o abbia inteso dire, o se questi viene a trovarsi per caso in una situazione cruciale nella quale l’uso inadeguato di un termine porta a scegliere un’alternativa sbagliata.
Un altro errore sistematico può derivare dalla nostra tendenza a dare una struttura razionale ai fatti che osserviamo, a colmare le eventuali lacune che essi presentano e a collegarli fra loro in un modo che sia esente da contraddizioni, introducendo dunque inavvertitamente nel comportamento del bambino una coerenza e un’organicità di cui noi avvertiamo l’esigenza, ma che esso molte volte non ha affatto. Anche la costatazione che noi e i nostri bambini viviamo tutti nello stesso ambiente fisico può essere all’origine di un errore sistematico: può indurci infatti a presupporre una sostanziale somiglianza fra il nostro ambiente fenomenico e quello del bambino, a ritenere cioè che quest’ultimo giunga piú o meno come noi a prendere nota delle cose che compongono l’ambiente fisico, o degli eventi che vi si svolgono, a cogliere compiutamente come noi i rapporti spaziali che esistono fra le sue diverse parti, a viverne come noi le dimensioni temporale e spaziale.
Quando poi, invece di limitarci a osservare i bambini che ci stanno intorno, noi tentiamo di vivere dall’interno i loro processi di pensiero cercando di riportarci al periodo in cui eravamo noi stessi bambini, può venire facilmente compiuto un altro errore sistematico. Può cioè molto facilmente determinarsi in noi l’impressione di avere sempre posseduto certe nozioni estremamente elementari (come quella di numero intero, di distanza, di misura, ecc.), e pertanto anche l’impressione che esse siano presenti in tutti i bambini: mentre è chiaro che, data l’impossibilità per chiunque di conservare dei ricordi abbastanza organici relativi alle età precedenti i 5-6 anni, non siamo piú in grado né di rappresentarci il periodo in cui non possedevamo ancora tali nozioni, né di ricostruire il processo attraverso il quale le abbiamo acquisite.
Fu lo psicologo americano Granville Stanley Hall, uno dei pionieri della moderna psicologia infantile fra la fine del secolo scorso e l’inizio di questo secolo, a richiamare per primo l’attenzione su alcuni di questi errori sistematici, e a mostrare come essi impediscano a un adulto di penetrare nel mondo mentale del bambino e di coglierne senza deformarle le caratteristiche specifiche. Il pensiero dell’adulto, egli osservava, può essere paragonato a una sorgente di luce, la quale non può conoscere le ombre, perché le annulla con la sua stessa presenza. Il mondo mentale del bambino è dunque una realtà di cui l’adulto non conosce realmente i tratti essenziali o conosce solo qualche caratteristica saliente. E uno dei compiti che lo Stanley Hall riteneva dovessero essere affrontati al piú presto dalla psicologia era quello di compiere, sia pure in modo anche solo sommario, una prima sistematica esplorazione di questa realtà.
Egli stesso diede concretamente inizio a questa esplorazione sistematica. In una famosa ricerca volta a stabilire “il contenuto della mente dei bambini al momento del loro ingresso a scuola”, compiuta nel 1881 a Boston, mise in luce, da una parte, che l’ambiente psicologico di ogni singolo bambino è spesso assai piú ristretto di quanto l’adulto tenda a ritenere (per esempio, risultò che una percentuale elevata dei bambini di 6 anni non aveva mai compiuto esperienze che pur sembrano universali, come quella del veder sorgere il sole); dall’altra, mise in evidenza la frequenza con la quale può avere luogo l’interpretazione essenzialmente personale del significato di certi termini verbali o sono presenti certe convinzioni singolari (per certi bambini, per esempio, “collina” significava “il monticello della spazzatura” che avevano piú volte veduto in un certo luogo; “mucca” era il nome di un animale alto alcuni centimetri, e cioè tanto quanto lo era la figura di una mucca che avevano veduto sul loro libro; alcuni bambini credevano che la lana crescesse sulle pecore in matassine, o che il burro, butter in inglese, fosse prodotto dalle farfalle, butterflies).
Questa esplorazione del mondo mentale infantile fu continuata dallo Stanley Hall attraverso una numerosa serie di ricerche che furono pubblicate, fra il 1880 e il 1910 circa, sulle due piú antiche riviste americane di psicologia, il “Pedagogical Seminary” (ora “Journal of Genetic Psychology”) e l’“American Journal of Psychology”. Esse ebbero come temi i diversi aspetti della vita mentale infantile: le credenze e l’atteggiamento dei bambini nei confronti degli oggetti del mondo inanimato (gli astri, l’acqua, il fuoco, gli alberi, le pietre, ecc.) o nei confronti del mondo animato (gli animali domestici come il cane o il gatto, gli animali selvatici, gli insetti, ecc.), l’atteggiamento nei confronti delle punizioni, le paure infantili, le manifestazioni di collera, certi comportamenti tipici come il giuoco della bambola, l’attività del collezionare, i giuochi con la terra e con l’acqua, e cosí via.
Senonché queste ricerche dello Stanley Hall, pur avendo il grande pregio di essere le prime ricerche sistematiche compiute in questo campo, presentavano un grosso vizio d’origine. Il metodo di lavoro scelto da questo autore non era tale da garantire l’attendibilità dei risultati raggiunti. Tale metodo è stato detto “dei questionari” e può essere cosí descritto. Fissato un certo aspetto della vita mentale infantile (per esempio, “le paure nel bambino”), esso veniva suddiviso in diversi punti fondamentali (per esempio, paure connesse con eventi atmosferici, paure provocate da animali, paura delle punizioni, paura della malattia o della morte, ecc.) e ciascuno di tali punti si articolava in una serie di domande “aperte”, cioè tali che la risposta poteva essere sviluppata nel modo e nella misura ritenuti opportuni. Questi questionari venivano poi diffusi a una rete di collaboratori i quali davano le loro risposte fondandosi sui ricordi della loro infanzia, o (nel caso fossero dei genitori o degli insegnanti) sulle osservazioni compiute sui loro figli o allievi.
Oggi risulta evidente la debolezza di questo metodo; le ricerche della scuola psicoanalitica e le ricerche di psicologia della testimonianza hanno messo in evidenza, in anni successivi a quelli in cui Stanley Hall ha compiuto il suo lavoro, che molti ricordi d’infanzia (specialmente quelli relativi ai primi anni di vita) subiscono facilmente delle deformazioni o vanno perduti, cosicché la costruzione di una psicologia infantile fondata su ciò che di tale periodo ricordano gli adulti è un’impresa impossibile. Inoltre, le ricerche di psicologia infantile hanno dimostrato che l’osservazione del comportamento di un bambino richiede una preparazione specifica che coloro che collaboravano con lo Stanley Hall non potevano ancora avere; una preparazione che permetta di giungere anzitutto a vedere, e poi a registrare senza deformarle, certe caratteristiche del pensiero infantile – come, per esempio, la insensibilità alla contraddizione o la tendenza a sviluppare dei ragionamenti di carattere transduttivo – le quali sono in netto contrasto con le caratteristiche del pensiero di un adulto. Tali ricerche ci hanno anche dimostrato quanto sia difficile porre a un bambino delle domande senza esercitare su di lui un’azione suggestiva che condizioni il contenuto delle sue risposte.
2. Piaget ha ripreso in questo libro alcuni dei temi toccati dallo Stanley Hall, sviluppando tuttavia la ricerca in modo molto diverso ed evitando le difficoltà che i procedimenti utilizzati dallo psicologo americano avevano sollevato.
Egli ha anzitutto studiato direttamente le convinzioni presenti nei bambini, rinunciando quasi completamente all’utilizzazione dei ricordi di adulti.
Un secondo importante elemento di novità consiste poi nel metodo con il quale la ricerca è stata condotta. Tale metodo è da Piaget designato come “clinico”, e all’analisi delle sue caratteristiche e dei vantaggi che esso presenta sia rispetto al metodo dei questionari, sia rispetto a un metodo di semplice registrazione del comportamento verbale spontaneo di un bambino, è dedicata l’importante introduzione che egli ha premesso all’esposizione dei dati raccolti. Qui basti dire che il metodo clinico, se caratterizza la presente opera e in parte anche quella immediatamente successiva dedicata allo sviluppo della nozione di causa, non è invece stato utilizzato nelle ricerche che Piaget ha compiuto in seguito e per le quali egli ha impiegato un metodo da lui stesso definito “critico”, un metodo, cioè, che pur lasciando ampio spazio a un colloquio condotto secondo uno schema non rigido, come il metodo clinico, prevede normalmente anche l’utilizzazione di materiale concreto e la creazione di un certo numero di situazioni critiche o cruciali.
Vi è poi, in queste ricerche di Piaget, un terzo importante elemento di novità rispetto a quelle dello Stanley Hall. Esse non sono piú solo delle ricerche condotte “a scopo esplorativo”, compiute cioè senza avere in mente nessuna ipotesi precisa, e destinate solo a porre in luce i tratti essenziali di un mondo mentale ancora pressoché ignoto; sono invece ricerche impostate e condotte sulla base di alcune ipotesi, le quali derivano dai precedenti lavori di Piaget e costituiscono i motivi conduttori di tutto il libro. Tali ipotesi riguardano le caratteristiche fondamentali del pensiero del bambino, e sono quelle del realismo e dell’egocentrismo infantile.
Per realismo Piaget intende una tendenza molto viva nei bambini ad accordare ai dati percettivi un certo primato sui dati rappresentativi, a dare cioè un maggior peso agli aspetti concreti, visibili, di una certa realtà per rapporto ad altri aspetti che non hanno tale carattere. Per esempio, mentre per un adulto un qualsiasi proverbio (poniamo: “quando non c’è il gatto i sorci ballano”) ha nel contempo un significato letterale (vi si parla del “gatto”, dei “sorci”, del “ballare”) e un significato simbolico (sta cioè a indicare tutta una classe di situazioni nelle quali i rapporti fra i personaggi sono dello stesso tipo di quelli che esistono fra il gatto e i sorci), per un bambino il solo significato compreso è il primo, che si riferisce ad aspetti intuibili della realtà (il gatto del proverbio è allora solo un gatto, i sorci sono solo dei sorci, ecc.). In questo caso si ha la riduzione di una realtà complessa a certi aspetti di tale realtà, e in particolare a quelli che hanno un carattere percettibile (vedi bibliografia, 9). Un processo analogo si verifica in quei casi in cui un bambino, invitato a valutare il valore morale di un’azione, attribuisce ai risultati concreti, tangibili di tale azione un’importanza maggiore di quella da lui concessa alle intenzioni, cosicché, per esempio, giudica degno di una punizione piú grave un bambino che rovescia involontariamente e rompe quindici bicchieri mentre corre per ubbidire prontamente alla mamma, rispetto a un bambino che, contravvenendo a una disposizione della mamma, ne rompe uno solo (vedi bibliografia, 11).
Le opinioni che i bambini molto piccoli sembrano avere intorno alla natura delle parole, dei nomi in genere, del pensiero o del sogno, e che sono studiate in questo libro, sono esse pure permeate di ralismo. Essi tendono ad attribuire una certa materialità al pensiero, alle parole, alle immagini del sogno, e perciò anche a localizzare in qualcosa di visibile (nella bocca, nelle orecchie, oppure nelle cose denominate, o nei luoghi dove si sta dormendo) queste “realtà” che per un adulto hanno un carattere immateriale e un’origine soggettiva.
Per egocentrismo Piaget intende invece una tendenza, presente in misura particolarmente intensa nei bambini molto piccoli, a non rendersi facilmente conto che il punto di vista dal quale essi osservano la realtà è, in sostanza, solo un punto di vista, accanto al quale possono esisterne altri; che la loro esperienza della realtà è solo una delle tante possibili, che le cose che essi conoscono possono anche non essere note a coloro con i quali stanno discorrendo. Consideriamo, per esempio, la situazione seguente: a un bambino viene spiegato il funzionamento di un meccanismo; viene poi chiamato un secondo bambino e il primo è pregato di trasmettere al secondo la spiegazione ricevuta. Il primo bambino si comporta, in casi come questo, come se un certo numero delle cose che dovrebbero essere da lui chiarite fossero già note all’altro, e trascura dunque di parlarne. Un indice di questa ridotta capacità di “entrare nei panni degli altri” è l’uso dei pronomi, i quali dovrebbero essere introdotti solo dopo che si è detto a quale elemento del meccanismo essi sono riferiti, e che invece il bambino utilizza talvolta fin dall’inizio senza preoccuparsi di chiarirli, comportandosi dunque come se fosse evidente anche per gli altri ciò che è già chiaro per lui.
Le convinzioni infantili intorno alla natura e all’origine degli elementi del mondo naturale (gli astri, le montagne, i laghi, i fiumi, gli alberi, ecc.), o intorno alla dinamica di certi eventi naturali macroscopici (la pioggia, il tuono, il fulmine, il movimento degli astri o delle nubi, il vento, le onde, la caduta dei gravi) rivelano tutte il loro carattere di convinzioni che si sono venute formando nel quadro di un pensiero fondamentalmente egocentrico. L’animismo e il finalismo (e cioè la tendenza ad attribuire la qualità di “vivente” a ogni cosa che si muova, e ad assegnare al suo movimento una certa intenzionalità) non sarebbero che la manifestazione di una tendenza a estendere anche agli altri elementi della realtà fisica le caratteristiche di un’esperienza personale molto comune, quella che il bambino vive quando nota che i movimenti da lui compiuti sono accompagnati da consapevolezza e da intenzionalità. Analogamente, ciò che Piaget chiama artificialismo infantile (e cioè la tendenza a ritenere che gli astri, le montagne, i laghi, la pioggia, ecc., siano il risultato diretto di un’attività compiuta dagli uomini o da Dio) è un tipo di spiegazione che deriva dalla generalizzazione, a tutto il mondo della natura, di certe esperienze che il bambino compie quando osserva la costruzione di oggetti, o giunge egli stesso a costruire degli oggetti, nel corso delle sue attività ludiche.
Vi è, in quest’opera di Piaget, un quarto elemento importante: il tentativo di istituire un rapporto fra la psicologia infantile e altre discipline in apparenza molto diverse, come l’antropologia culturale o la storia della scienza. Questo tentativo è stato ripreso in seguito su una base piú ampia, e costituisce uno dei motivi conduttori dell’opera che Piaget ha svolto a partire dal 1953.
Se egocentrismo e realismo sono tendenze che caratterizzano i primi livelli dello sviluppo mentale, tali tendenze dovrebbero essere ancora largamente presenti in quelle forme di cultura che non hanno raggiunto il livello al quale è pervenuta la cultura media dei popoli civilizzati di oggi, dunque nella cultura dei primitivi di oggi, o in quella dei popoli antichi. In realtà, dalle ricerche degli etnologi (in particolare, da quelle di Tylor e di Lévy-Bruhl, che Piaget ha presenti), risulta che nelle culture primitive sono operanti tendenze molto simili a quelle che caratterizzano le convinvinzioni infantili e che sono esposte in questo libro; in particolare, una tendenza ad attribuire un carattere di materialità a certe realtà che sono di natura puramente soggettiva (come i nomi o i sogni), a considerare come dotati di un’anima simile a quella umana molti degli elementi della realtà naturale (si veda il tentativo di Tylor di utilizzare il concetto di animismo come principio di interpretazione delle culture primitive), ad attribuire agli eventi del mondo fisico un’intenzionalità, a ricorrere con frequenza a spiegazioni pre-causali di tipo magico, finalistico, artificialistico.
Analogamente, la storia della scienza ci rivela che nella rappresentazione del mondo naturale e nelle convinzioni circa la dinamica degli eventi che in esso hanno luogo, presenti nella cultura dei popoli antichi, sono operanti, sia al livello del senso comune che a quello del pensiero scientifico, tendenze analoghe al realismo e all’egocentrismo infantili. Ne è un esempio la tendenza a considerare il proprio paese come il centro fisico dell’universo, a popolare la realtà di entità ritenute direttamente responsabili degli eventi fisici di maggior rilievo, ad attribuire un valore assoluto al contenuto di certe percezioni (per esempio, quella secondo la quale gli astri sembrano rotare intorno alla terra immobile), a localizzare la causa di certi eventi (come la caduta dei gravi, o il movimento della fiamma verso l’alto) nella natura di certi oggetti, invece che nei rapporti fra tali oggetti e i vari aspetti della situazione nella quale essi si trovano.
Nel loro insieme, i risultati esposti in questo libro costituiscono una dimostrazione dell’esistenza di profonde differenze qualitative fra il pensiero del bambino e quello dell’adulto che vive in un ambiente culturale simile al nostro: differenze che riguardano sia il modo di funzionare del pensiero (realismo, egocentrismo), sia il suo contenuto (le convinzioni espresse, le spiegazioni date). Ma quale grado di generalità possiamo accordare a tali differenze? La considerazione di questo particolare problema ha portato Piaget a estendere la sua ricerca a piani diversi da quello sul quale si era mosso sino a questo momento e che era in sostanza quello delle convinzioni espresse verbalmente dal bambino. Egli è cosí giunto a scoprire altre profonde differenze qualitative fra bambino e adulto, che erano sino ad allora sfuggite. Vediamo in che modo si è verificato questo sviluppo della ricerca.
3. I risultati comunicati da Piaget nelle opere che abbiamo citato all’inizio hanno avuto, come si è detto, un’immediata risonanza e hanno suscitato consensi e critiche. Alcune di tali critiche consistevano appunto nell’osservare che a certe affermazioni non poteva essere accordato quel grado di generalità che lo psicologo svizzero sembrava volesse dare loro. Per esempio, dalle ricerche descritte in questo volume e in quello dedicato alla nozione di causalità fisica emergeva, secondo Piaget, la tendenza dei bambini piú piccoli ad attribuire a tutte le cose in movimento una sensibilità e un’intenzionalità, e a utilizzare normalmente, per rendere conto del verificarsi degli eventi fisici, spiegazioni precausali di tipo animistico, magico, finalistico, dinamico (fondate cioè sull’idea di “forza”, senza tuttavia alcuna analisi del modo di operare di tale “forza”).
Ma queste tesi non sembravano trovare una piena conferma nelle ricerche compiute da alcuni autori, con tecniche diverse e in relazione a fenomeni fisici pure diversi. Per esempio, dalle ricerche di Zeininger, che per studiare le spiegazioni infantili di fenomeni fisici molto comuni aveva utilizzato un metodo molto simile a quello impiegato da Piaget (vedi bibliografia, 24), o da quelle di Huang, che aveva posto i suoi soggetti di fronte a fenomeni fisici insoliti e di apparenza paradossale (vedi bibliografia, 2), o da quelle della Isaacs, che aveva scelto il metodo della osservazione diretta della libera attività di bambini di varia età (vedi bibliografia, 4), risultò che le spiegazioni di tipo magico, animistico, finalistico, dinamico, che secondo Piaget caratterizzano le età inferiori a quella dei 6-7 anni, non si presentavano con quella frequenza che ci si sarebbe potuto attendere, e che numerose erano invece le spiegazioni di tipo fenomenistico (post hoc, ergo propter hoc) e quelle di tipo “naturalistico” (anche se spesso erronee).
Questa diversità di risultati poteva venire spiegata solo tenendo conto del fatto che il tipo di eventi fisici intorno al quale il bambino viene invitato a esporre le proprie convinzioni (fenomeni in cui sono presenti connessioni causali che egli stesso utilizza quotidianamente, o invece fenomeni atmosferici che egli può solo osservare, o fenomeni insoliti e di esito inatteso) ha un’importanza notevole nel determinare la forma della spiegazione; secondo Zeininger, per esempio, le spiegazioni di tipo magico sono piú numerose in relazione a quei fenomeni che sono poco conosciuti, o non si prestano a un’osservazione accurata. Un’importanza pure molto grande avrebbero sia il modo in cui è presentato l’evento che il bambino ha il compito di spiegare (solo verbalmente, oppure in forma concreta), sia il modo in cui il bambino manifesta le proprie convinzioni (con parole, e cioè in un modo che permette di esprimere credenze presenti in forma riflessa e consapevole, o invece attraverso il comportamento concreto, e cioè in un modo che rivela l’esistenza di certe convinzioni presenti solo in forma “pratica”, non consapevole).
Risultava chiara l’impossibilità di compiere delle generalizzazioni, di ritenere cioè che un tipo di spiegazione che un bambino ci dà di un certo evento fisico possa caratterizzare tutto il suo modo di pensare, venga cioè da lui applicato anche a tutti gli altri eventi, indipendentemente dal modo in cui egli ne compie l’esperienza. In particolare, risultava evidente la necessità di distinguere un piano del pensiero verbale, quello sul quale il bambino si muove quando viene invitato a esprimere mediante parole le sue convinzioni intorno a certi eventi di cui non può avere un’esperienza diretta o sufficientemente analitica (per esempio, l’origine degli astri o delle montagne, la causa del movimento delle nubi, ecc.), e un piano del pensiero concreto, quello sul quale il bambino si muove quando compie delle manipolazioni su oggetti, dà avvio a fenomeni fisici che si sviluppano indipendentemente dalla sua azione.
Piaget stesso ha per proprio conto riconosciuto questa necessità, e nel periodo successivo a quello durante il quale erano comparse le opere sin qui considerate ha sviluppato una vasta attività di ricerca consistente nell’analisi delle operazioni mentali che il bambino compie quando non deve limitarsi a manifestare verbalmente un’opinione intorno a eventi che non sono in quel momento direttamente osservabili o non sono per lui suscettibili di un’analisi accurata (come accade in genere nelle ricerche qui esposte), ma è chiamato a valutare qualche aspetto di una situazione che sta direttamente sotto i suoi occhi e che egli può concretamente modificare mediante delle manipolazioni.
Questa nuova serie di ricerche si è rivelata altrettanto feconda quanto quella di cui abbiamo sin qui parlato. Piaget ha ripreso lo studio dell’attività mentale a partire dalle sue forme piú semplici. Ha studiato, mediante una paziente e accurata osservazione dei suoi tre bambini, dalla nascita fino all’età dei 4 anni, lo sviluppo della prima forma di comportamento intelligente, l’intelligenza percettivo-motoria. Questa si presenta fra i 12 e i 18 mesi, ed è strettamente simile a quella che Köhler ha studiato nelle scimmie antropoidi (vedi bibliografia, 6). Un atto di intelligenza percettivo-motoria può consistere, per esempio, nel trovare il modo di entrare in possesso di un oggetto non direttamente accessibile, attraverso la scoperta della possibilità di utilizzare come strumenti uno o piú oggetti percettivamente presenti nello spazio entro il quale il bambino può liberamente muoversi, e che posseggono certe proprietà funzionali, quale quella di trasmettere a distanza un movimento del braccio (vedi bibliografia, 12). Correlativamente Piaget ha studiato il processo attraverso il quale si viene gradualmente costituendo, per il bambino, un ambiente obiettivo formato da oggetti che psicologicamente continuano ad avere esistenza anche quando cessano di essere da lui percepiti, che possono essere tra loro collegati mediante rapporti di causalità meccanica, e sono tutti contenuti in un unico spazio, nel quale si unificano i diversi spazi (tattile, visivo, auditivo, cenestesico) dei primi mesi di vita (vedi bibliografia, 13). E ha studiato il processo mediante il quale, a partire dai 18 mesi, si sviluppa una vivace attività rappresentativa (consistente nel rievocare o nell’immaginare una realtà diversa da quella che sta sotto gli occhi), mediante la quale il bambino giunge a superare i limiti ristretti dell’ambiente percettivo, giungendo cosí, tra l’altro, a utilizzare in funzione di strumenti anche oggetti che non sono percettivamente presenti e che egli va allora a cercare nei luoghi dove li ha veduti precedentemente. Anche certe attività che occupano in misura molto grande il bambino fra i 18 mesi e i 4 anni (l’imitazione “differita”, il giuoco simbolico, l’attività verbale e la fabulazione) sono state da lui studiate proprio per la funzione che esse hanno nel favorire lo sviluppo di tale attività rappresentativa (vedi bibliografia, 14).
Ma ricerche anche piú estese e complesse sono state dedicate, da Piaget e dalle sue collaboratrici (come Inhelder e Szeminska) ai progressi che hanno luogo sul piano intellettuale fra i 3-4 e gli 8-9 anni, e che riguardano la capacità di compiere le operazioni mentali indispensabili per l’acquisizione di quelle nozioni elementari che formano la struttura del pensiero comune.
La formazione della capacità di riconoscere certi valori inva rianti, e cioè certe quantità spaziali o fisiche che nel corso della trasformazione percettiva di una situazione restano inalterate (la distanza tra due punti, fra i quali vengano interposti degli oggetti, la lunghezza complessiva di una striscia che venga suddivisa in parti, l’area di una superficie le cui parti vengano spazialmente disposte in modo diverso; il volume o il peso di un oggetto sottoposto a deformazioni o a sezionamenti); la formazione delle nozioni relative ai rapporti spaziali topologici, euclidei, proiettivi, alle coordinate “naturali” (verticale, orizzontale) o all’unità di misura; la formazione delle nozioni di durata e di età, di spostamento e di velocità; o delle nozioni di classe, di inclusione fra classi, di seriazione semplice e moltiplicativa, di numero intero (cardinale e ordinale); di fortuito, di probabilità, e di altre ancora (vedi bibliografia, 22, 18, 19, 15, 16, 21, 23, 20), costituiscono di volta in volta l’oggetto di ricerche nelle quali la sistematicità si unisce con la fantasia (con quel tipo di fantasia che è necessario per tradurre in situazioni sperimentali scientificamente feconde, e ricche di interesse per il bambino, problemi talvolta difficili e astrusi).
Le ricerche appartenenti a quest’ultimo gruppo sono sempre condotte mediante l’impiego di materiale concreto, sul quale il bambino è invitato a compiere delle manipolazioni o esprimere delle valutazioni. La presenza di situazioni cruciali, vale a dire di punti obbligati nei quali il soggetto è costretto a scegliere fra due o piú alternative concrete, e un colloquio che accompagna lo svolgimento delle prove, e che è condotto secondo uno schema non rigido, permettono di cogliere in modo chiaro la struttura del processo mentale in atto, di analizzare gli errori compiuti e la natura delle difficoltà incontrate.
Come già si è detto, queste ricerche hanno messo in luce un altro carattere fondamentale del modo di pensare di un bambino, che sta alla base di una differenza qualitativa delle piú importanti tra bambino e adulto: l’irreversibilità del pensiero infantile. Che significa dire che il pensiero dell’adulto è un pensiero reversibile? Significa che l’adulto è in grado di rappresentarsi un evento tenendo nel contempo mentalmente presenti e coordinando fra loro fasi che appartengono a diversi momenti del tempo, anche quand’esse sono, sul piano fisico, mutuamente esclusive.
Consideriamo una situazione sperimentale che riguarda la nozione di “spostamento”: due veicoli, A e B, vengono fatti partire da due punti diversi di un percorso e si muovono nella stessa direzione; B, che sta dietro, è piú veloce e si avvicina gradualmente ad A; ma i due veicoli si fermano prima che il congiungimento abbia avuto luogo, cosicché A resta, seppure di poco, ancora davanti a B. Quale dei due ha percorso piú spazio? Un adulto non esita, in questo caso, a riconoscere che è B il veicolo che ha fatto piú strada; benché i due veicoli siano ormai giunti al punto di arrivo, e benché questo fatto sia incompatibile con il fatto di essere ancora al punto di partenza, egli è in grado di coordinare le posizioni spaziali che essi occupano dopo la fine del movimento con quelle che essi occupavano prima del suo inizio. Come si comporta invece un bambino di 4 o 5 anni? Egli è in grado di indicare, separatamente, sia i punti di arrivo che quelli di partenza; ma quando pensa ai punti di arrivo non riesce a tenere contemporaneamente presenti anche quelli di partenza, e giunge cosí ad affermare che il veicolo che ha percorso piú strada è A, che si trova davanti all’altro.
Ovvero consideriamo una situazione sperimentale che riguarda il rapporto di inclusione fra due classi. Una fila di 20 perle di legno è composta da 18 perle nere e da 2 perle bianche. Vi sono piú perle nere o piú perle di legno? Ovvero, data la classe includente B, composta dalle classi incluse e complementari fra loro A e A’, A è maggiore o minore di B? Un bambino di 5 anni, che pure sa indicare, separatamente, tutte le perle di legno, tutte le perle nere e tutte le perle bianche, afferma tuttavia che “le perle nere sono di piú delle perle di legno”. L’“irreversibilità” del pensiero gli impedisce di considerare le perle nere, che ha separato da quelle bianche per costruire la sottoclasse “perle nere”, come ancora unite alle bianche nella classe superordinata delle perle di “legno”.
O ancora: accanto a 10 bottiglie sono collocati 10 bicchieri, ogni bicchiere vicino alla sua bottiglia, cosicché le due file sono di lunghezza uguale. Un bambino di 5 anni riconosce qui l’equivalenza numerica dei due insiemi; basta però che, sotto i suoi stessi occhi, i bicchieri vengano riuniti in un gruppo che occupa poco spazio, ed ecco che egli non riconosce piú l’equivalenza, e afferma senza esitazione che i bicchieri sono, ora, di meno. Ciò accade in conseguenza della sua incapacità di coordinare la situazione attuale con quella immediatamente precedente, e di rendersi cosí conto che la trasformazione che ha avuto luogo ha riguardato solo la posizione spaziale degli elementi di un insieme e non il rapporto di corrispondenza biunivoca fra i due insiemi (“per ogni bottiglia un solo bicchiere, e viceversa”) sul quale l’equivalenza numerica è fondata.
4. Rispetto ai processi di pensiero studiati nella presente opera, Piaget ha dunque (soprattutto fra il 1930 e il 1950) sviluppato sistematicamente le sue ricerche verso il basso, e cioè nella direzione di quei piani di pensiero che sono strutturalmente piú semplici di quello del pensiero verbale (piú semplici, nel senso che uno stesso problema, posto in termini concreti, viene risolto dal bambino con qualche anno di anticipo rispetto al momento in cui è risolto se posto in termini esclusivamente verbali).
Verso la fine di questo periodo, tuttavia, l’analisi sperimentale dello sviluppo del pensiero è stata orientata, da Inhelder e da Piaget, anche verso l’alto, e cioè verso un tipo di pensiero che presenta un grado di difficoltà maggiore di quello che caratterizza le situazioni considerate in questo libro, e che si manifesta a un’età superiore a quelle sino allora studiate: il pensiero ipotetico-deduttivo, o formale. Questo tipo di pensiero rappresenta la conquista principale che ha luogo, per quanto riguarda lo sviluppo intellettuale, negli anni della preadolescenza e dell’adolescenza (vedi bibiografia, 3).
In che senso il pensiero formale è un tipo di pensiero che presenta difficoltà superiori? Lo sviluppo del pensiero sembra seguire una linea che parte dalle situazioni nelle quali, per il compimento di certe operazioni, pratiche (al livello dell’intelligenza percettivomotoria) o mentali (al livello del pensiero concreto), è indispensabile la base d’appoggio costituita da una realtà concreta e percettivamente presente. Tale linea di sviluppo passa poi attraverso le situazioni nelle quali la realtà su cui il pensiero “opera” può anche non essere percettivamente presente ed essere solo evocata mediante parole (come accade in quasi tutte le situazioni considerate in questo libro), restando però sempre una realtà costituita da fatti che il bambino ha potuto osservare (il movimento del sole, lo scorrere dei fiumi, ecc.). Questa linea ha il suo punto d’arrivo nelle situazioni in cui si tratta di ragionare su semplici ipotesi il cui contenuto è costituito da una realtà puramente possibile, non ancora sperimentata dal bambino oppure molto diversa da quella che egli conosce, e di trarre da esse certe conseguenze solo in base all’utilizzazione di certi rapporti formali.
Questo progressivo affrancamento del pensiero dai legami con le situazioni concrete, con i fatti di esperienza, diviene dunque molto accentuato quando l’individuo si pone in grado di sviluppare con rigore un ragionamento deduttivo partendo da ipotesi che sono in contrasto con la sua esperienza, quindi da una realtà che è da considerare come puramente possibile; o diviene capace di svolgere un ragionamento induttivo giungendo a scoprire e a dimostrare l’esistenza di un rapporto di dipendenza tra due fatti (poniamo, fra la lunghezza di un pendolo e la frequenza delle sue oscillazioni). Anche un ragionamento induttivo che voglia essere rigoroso esige che ci si rappresenti una certa realtà puramente possibile; esso richiede, per esempio, l’anticipazione mentale di tutte le combinazioni teoricamente possibili fra i supposti fattori di un evento e il suo prodursi, e la successiva verifica sperimentale di ciascuna di tali combinazioni (nel caso di un pendolo: “varia la lunghezza – varia o non varia la frequenza?”, “varia il peso – varia o non varia la frequenza?”, ecc.). E tale affrancamento delle situazioni concrete è completo quando un individuo giunge a cogliere nella sua essenza un certo tipo di rapporto (l’implicazione, l’incompatibilità, ecc.) che potrebbe esistere fra due eventi qualsiasi, i quali possono essere simboleggiati da semplici lettere; quando, cioè, ciò che viene preso in considerazione è solo la forma del rapporto fra i due eventi, e non piú il loro contenuto concreto.
Con questi studi sui progressi che hanno luogo nella formazione delle strutture mentali fra gli 11 e i 16 anni, l’analisi delle varie tappe dello sviluppo intellettuale, dalla nascita sino all’adolescenza, risulta cosí completa.
5. Il presente libro è dunque, come si è veduto, uno dei primi elementi di un’ampia e organica costruzione che si è venuta sviluppando attraverso oltre quarant’anni di ininterrotta attività scientifica. La sua lettura, oltre a permettere una diretta conoscenza di certi importanti aspetti del mondo mentale infantile, può costituire anche un adeguato punto di partenza per un piú ampio studio dell’opera di Piaget.
I risultati delle ricerche qui esposte, e quelli delle ricerche che le hanno seguite e che in questo libro hanno direttamente o indirettamente la loro radice, hanno posto in evidenza, come si è già detto, un certo numero di differenze qualitative fra la vita mentale di un bambino e quella di un adulto: estrema povertà dell’attività rappresentativa, nel bambino di età inferiore ai 18 mesi; presenza di un’attività rappresentativa che non va oltre la semplice riproduzione mentale dei dati dell’esperienza percettiva, irreversibilità del pensiero, assenza di numerose nozioni che costituiscono un indispensabile strumento per il pensiero, scarsa sensibilità alla contraddizione, sincretismo, realismo ed egocentrismo, nei bambini di età inferiore ai 6-7 anni; incapacità di sviluppare un ragionamento deduttivo sulla base di ipotesi in contrasto con i dati di esperienza, o di svolgere in forma rigorosa un ragionamento induttivo utilizzando in modo corretto il procedimento consistente nella “variazione di un fattore, a parità di altre condizioni”, o di cogliere in modo riflesso la forma del rapporto che può esistere tra due fatti qualsiasi, nei bambini di età inferiore agli 11-12 anni.
Le ricerche di cui si è qui parlato hanno inoltre permesso di inserire la psicologia genetica in un sistema organico di rapporti con altre discipline e di arricchire cosí di nuovi significati gli studi sperimentali dedicati allo sviluppo mentale. Si è già detto dell’antropologia culturale e della storia del pensiero scientifico: il rapporto fra la psicologia genetica e queste due discipline è dato dal fatto che esse hanno come oggetto di studio certe fasi intermedie di un processo di sviluppo il quale sembra svolgersi con un notevole parallelismo sul piano della storia della cultura e su quello della storia dell’individuo.
Ma accanto a tali discipline può essere posta la logica, intesa con Piaget come un’“assiomatica della ragione”, e cioè come un modello di quello che dovrebbe essere un pensiero che avesse raggiunto un completo sviluppo e fosse del tutto esente da errori: modello dal quale il concreto modo di pensare dei bambini di diverso livello mentale (o anche quello dell’adulto medio del nostro ambiente culturale) si discosta in misura piú o meno grande. E può essere posta anche l’epistemologia di discipline come la matematica, la geometria o la fisica, e cioè l’analisi della natura e dei fondamenti del tipo di conoscenza che ciascuna di tali discipline ci offre. Se la logica può essere utile per gli studi di psicologia genetica perché può servire come un modello per l’organizzazione delle situazioni sperimentali intese a studiare appunto lo sviluppo delle strutture logiche, e a darci il senso e la misura di questo sviluppo, gli studi epistemologici possono trarre a loro volta un grande vantaggio da un’analisi sperimentale dello sviluppo mentale. Questa può infatti permettere di distinguere, nella struttura di una nozione che all’indagine epistemologica si presenta ormai come interamente formata, ciò che vi è di primario e ciò che vi è di derivato o di inessenziale, dando a tale struttura il necessario rilievo e permettendo di cogliere in modo piú completo le operazioni mentali dalle quali essa ha origine, o che essa implica.
Un esempio dell’utilità che un’analisi genetica può avere per gli studi di epistemologia può essere il seguente: da alcune ricerche sperimentali compiute da Piaget e Inhelder risulta che sul piano della rappresentazione dei rapporti spaziali i primi rapporti correttamente utilizzati da un bambino sono quelli di ordine topologico, e che solo con qualche anno di ritardo vengono utilizzati in modo corretto anche i rapporti euclidei; ai dati di quest’analisi genetica corrisponde perfettamente il fatto che, nella storia della matematica, la topologia si è sviluppata – come conoscenza sistematica e riflessa dei rapporti topologici – venti secoli dopo la geometria euclidea, in armonia con il principio secondo il quale si prende coscienza tanto piú tardi di certi rapporti quanto piú essi hanno nella nostra vita mentale un carattere primario, fondamentale.
Come Piaget stesso ha piú volte detto (vedi bibliografia 17), gli interessi iniziali che animarono la sua attività scientifica erano precisamente rivolti ai problemi di teoria della conoscenza, ed egli, nel periodo immediatamente precedente a quello in cui si sono svolte le ricerche qui esposte, aveva appunto pensato di dedicare “qualche anno” a un’analisi genetica di alcuni di tali problemi, per riprendere poi in condizioni migliori la loro analisi su un terreno epistemologico. Invece di qualche anno questo lavoro ha occupato qualche decina di anni, durante i quali egli ha raccolto una vasta messe di dati, di grande valore per la psicologia.
Ma gli interessi logici ed epistemologici iniziali hanno continuato a essere presenti, come testimoniano le diverse opere di carattere non psicologico, quali il Traité de logique (1949), o i tre volumi dell’Introduction à l’épistémologie génétique (1950), che sono il risultato di un decennio di insegnamento di storia della scienza. E tali interessi sono tornati in primo piano a partire dal 1953 e si sono manifestati nella fondazione, a Ginevra, del Centro internazionale di epistemologia genetica. Questo centro riunisce annualmente – per l’analisi di certi fondamentali problemi di teoria della conoscenza – psicologi, logici, matematici, epistemologi e studiosi di discipline affini, e periodicamente pubblica, negli “Études d’Épistémologie génétique”, i risultati di un lavoro che rappresenta un singolare esempio di collaborazione interdisciplinare e dà chiaramente il senso del cammino che ha percorso, con Piaget, la psicologia infantile.