DA SCRITTI SUL CINEMA DI BEN MARTIN
VITA E MORTE DI SOPHIE STARK
Non avevo alcun desiderio di comparire in Vita e morte di Sophie Stark. Quando ho saputo della sua morte ho provato – con più intensità, mi vergogno a dirlo, del dolore – una sensazione mista di sensi di colpa e imbarazzo. Mi sono sentito in colpa per avere scritto una recensione negativa del suo film e per aver contribuito, in qualsiasi modo, a quello che provava alla fine della sua vita. Al tempo stesso, mi vergognavo di pensare che qualsiasi cosa facessi potesse importarle. Non volevo parlare di Sophie Stark con nessuno; volevo che mi lasciassero in pace.
Da quasi un anno prima di quel che accadde mi preoccupava l’idea che stessi sprecando la mia vita. Mi ero sempre sentito liberato dalla sensazione che nessuno prestasse davvero attenzione a ciò che scrivevo; non importava se le mie opinioni erano stupide, perché non avevano alcun peso. Poi, alla fine, mi ero ritrovato in una posizione in cui le mie opinioni avevano un peso, e mi sentivo il peggiore degli impostori. Scrivere di film è sempre stata fonte di divertimento per me, un modo di giocare con le idee, una fuga dai momenti di solitudine e di insoddisfazione della mia vita. Sapevo di poter vedere il medesimo film in due giorni diversi ricavandone due opinioni diametralmente opposte, e che quello che pensavo parlava più di me che del film e di quanto stanco o arrabbiato o nostalgico fossi quando entravo nel cinema. Poi, all’improvviso, diventai il critico cinematografico dello “Star”. Continuai a scrivere le mie opinioni inaffidabili, del tipo forse-sarebbe-stato-diverso-se-avessi-fatto-una-colazione-più-appetitosa, ma ormai venivano citate sui poster dei film o addotte come prova che la carriera di qualcuno stava andando a rotoli. Entrambe le cose mi facevano sentire un mostro. Soprattutto la mia recensione di Isabella mi infastidiva, avevo cercato di psicanalizzare Stark, ed è risultato chiaro dopo la sua morte che non sapevo assolutamente nulla di lei. Ma tutte le mie recensioni, verso la fine, mi disgustavano. Chiesi di essere trasferito alla sezione esteri, e generosamente i miei redattori accettarono la mia richiesta.
Ero a Città del Messico quando ricevetti l’email di Robbie. Mi scioccò che Sophie mi volesse in un film sulla sua vita, poi l’idea mi turbò: se verso la fine stava pensando a me, non potevano essere cose positive. Mi chiesi se fosse una specie di trucco, un modo per riuscire a umiliarmi. Mi chiesi se fossi pazzo a pensarlo. Alla fine rifiutai; ero all’estero, gli dissi, e non sarei riuscito a tornare in tempo per le riprese. Gli dissi anche che avevo lasciato la critica cinematografica, sperando che sarebbe servito come modo di chiedere scusa.
Nel corso dei mesi successivi, però, continuai a tormentarmi. Mi sentivo colpevole: ecco un modo per fare qualcosa per lei, e lo stavo respingendo. Inoltre, ammetterò che ero curioso, Sophie Stark mi aveva fatto desiderare di guardare film per guadagnarmi da vivere, tanto per cominciare, ma sapevo di non averla del tutto capita né come regista né come essere umano. Pensai che se avessi acconsentito a prendere parte al film, se avessi conosciuto tutte le persone che l’amavano e avessi parlato con loro, forse sarei riuscito a farmi un’idea più chiara di quello che succedeva dentro la sua testa.
Tuttavia, avrei potuto rimandare la faccenda all’infinito se non fossi andato a una festa in onore di un giornalista che aveva deciso di ritrasferirsi negli Stati Uniti. C’erano moltissimi americani laggiù; una donna riconobbe il mio nome e volle parlare di Sophie Stark.
“È triste,” disse, “ma era destino che succedesse.”
In genere mi scusavo e me ne andavo se si cominciava a parlare di Stark, come succedeva di tanto in tanto, visto che la sua morte aveva considerevolmente aumentato la sua fama. Ma avevo bevuto un paio di birre e gustato dell’ottimo ceviche, e mi sentivo generoso.
“Cosa intende dire?” chiesi.
“Beh, vedeva la gente con tanta chiarezza, sa? Si capisce dalle opere. Vedeva le persone per come sono realmente, e secondo me se si è tanto perspicaci, proprio non si riesce a vivere a lungo in questo mondo.”
Pensai che forse se fossi stato zitto si sarebbe fermata. Bevvi un altro sorso di birra.
“Ci pensi,” proseguì la donna. “Vedere la verità della vita come faceva lei… potrebbe diventare insopportabile.”
Telefonai a Robbie appena tornato a casa. Se fossi riuscito a impedire alla gente di ridurre Sophie Stark a una sorta di profetessa magica di qualche tipo – tendenza alimentata, fino a un certo punto, dai miei scritti giovanili – ero pronto a fare qualsiasi cosa.
Non sono sicuro di esserci riuscito. Chi ha visto il film sa che si tratta essenzialmente di un documentario. Stark aveva lasciato istruzioni dettagliate sull’illuminazione (quelle per illuminare e truccare Allison Mieskowski riempiono parecchie pagine), gli esterni e il montaggio, e aveva indicato alcuni eventi che voleva che noi – io, Robbie, Allison, Jacob O’Hare, Daniel Vollker e il produttore diventato regista George Campos – raccontassimo. Io, in quella che avrebbe potuto essere una barzelletta crudele, ricevetti il compito di leggere le mie recensioni dei film di Stark a voce alta davanti alla cinepresa. Cercai di rendermi il compito un po’ più facile offrendo un commento su Stark e sul mio rapporto con i suoi film, gran parte del quale George (o Robbie, che si attribuì svariati compiti registici, anche se sua sorella non gli aveva chiesto di farlo) scelse di tagliare. Le parti del film in cui compaio io mi risultano insopportabili da guardare; ne riguardo spesso altre.
Nel complesso il film non ha cancellato l’idea che Stark fosse una profetessa; rimane però fin troppo diffusa, soprattutto tra i fan più giovani. E non credo nemmeno che il film permetta allo spettatore di capire Stark. Sono apparso nella pellicola, ho passato mesi a parlare con le persone che Stark amava di più, e continuo a non capirla, nel senso che non credo di sapere cosa pensasse in nessun momento della sua vita. E questo mi turba ancora: quando guardo i suoi film adesso sono sempre alla ricerca di indizi.
Ho cercato di rintracciare la fotografa dalla quale, perlomeno stando a Campos, Stark ha preso il nome. Non ho avuto un briciolo di fortuna. Immagino sia possibile che si sia inventata tutta la storia. Stark non disdegnava di alimentare il suo stesso mito quando le risultava utile, e potrebbe aver creato una storia finta dell’origine del suo nome tanto per depistare. O forse inventare una finta omonima le rendeva più facile accettare la piega che aveva preso la sua vita. Che l’abbia fatto intenzionalmente o no, Emily Buckley ha inventato un personaggio che era Sophie Stark, e quel personaggio, pur avendo girato film geniali, ha anche causato moltissimo dolore. Forse voleva scaricare addosso a qualcun altro almeno la responsabilità del nome.
Alla fine, però, credo alla storia della fotografia, anche se non sono riuscito a trovare alcuna prova. Sono convinto che Stark abbia detto la verità a Campos; soprattutto con il passare degli anni credo che volesse essere conosciuta.
E nonostante i suoi limiti, sento che Vita e morte di Sophie Stark sia servito a uno scopo. Costringere i tuoi cari a raccontare la tua vita dopo che ti sei uccisa sembra, a prima vista, un gesto di imperdonabile sadismo, e da un certo punto di vista lo era. Ma credo sia stato anche un atto di generosità. Molto spesso Stark veniva accusata – in molti casi a ragione – di rubare le storie degli altri, e adesso ci permetteva di raccontare la sua. In un certo senso ci ha lasciato se stessa.
In retrospettiva gran parte dei tagli di Robbie al mio commento sono stati una decisione giusta. Ma c’è una storia che vorrei avesse lasciato, la storia dell’ultima volta che vidi Sophie. Era il 2016, dopo l’uscita su “Conversation” del mio profilo su di lei, prima di Isabella. Stark era al Sundance, da sola, beveva whisky ed era tutta vestita di bianco. Ero in piedi proprio dietro di lei, stavo cercando di pensare a qualcosa di beneducato da dire, quando lei si girò di colpo e pronunciò il mio nome.
“Come faceva a sapere che ero qui?” balbettai.
A quelle parole sorrise, l’unica volta che l’ho vista farlo di persona. Si picchiettò la coda dell’occhio con un dito.
“La mia vista è sovrumana, ricorda?”
All’inizio non capii a cosa si riferisse, poi mi resi conto che aveva letto il mio articolo dedicato a lei e stava prendendo in giro la mia idea che forse potesse vedere più di tutti gli altri. Sul momento provai un grande imbarazzo, addirittura risentimento. Adesso è uno dei miei ricordi più cari. Sono convinto che Sophie soffrisse del fatto che gli altri la capissero così poco, del fatto che riuscisse così male a farsi capire, del fatto che fosse tanto facile trasformarla in un angelo o in un mostro. Sono contento di sapere che lo trovava anche divertente.