Quando Sophie mi vide per la prima volta ero sul palcoscenico. Irina, una ragazza con cui vivevo all’epoca, aveva organizzato una serata di storie raccontate dal vivo in un locale di Bushwick, e dopo un paio di settimane passate a guardare decisi che volevo raccontarne una anch’io. Non ero come gli altri ragazzi che si esibivano lì dentro; non avevo mai dato per scontato che sarei diventata un’attrice, una scrittrice o qualcosa di creativo. Quand’ero più piccola tutti pensavano che sarei rimasta a Burnsville, nel West Virginia, e avrei fatto bambini. Eccomi invece a New York, e per dieci minuti ero in grado di fare in modo che il pubblico mi ascoltasse e mi trattasse come se fossi importante. Il tema della settimana era “storie da incubo in campeggio”. Indossavo l’unico abito carino che possedessi, un prendisole azzurro dalla gonna ampia comprato per sette dollari in un negozio vintage, e salii sul palco dopo che un’altra ragazza aveva parlato per venti minuti del fatto che aveva visto un opossum. Ecco la storia che raccontai, quella che per me e per Sophie fu l’inizio di tutto.
Nella mia scuola c’erano dei bravi ragazzi, ragazzi cristiani, ragazzi che si sposavano a diciotto anni per poi cominciare a sfornare marmocchi. La mia famiglia però era composta al cento per cento di gentaglia da cinque generazioni, e non mi ero integrata molto bene con il gruppo che frequentava la chiesa. Invece passavo tutto il tempo con un tizio che si chiamava Bean.
Bean aveva un paio d’anni più di me, aveva piantato la scuola superiore per vendere erba e faceva abbastanza soldi da affittare metà di una vecchia fattoria malandata fuori città. Era gentile, condivideva sempre l’erba, soprattutto con le ragazze, e mi offriva un posto dove dormire quando a casa le cose si mettevano male. Ma aveva un lato oscuro: suo padre era un marine e gli aveva insegnato un trucchetto per spezzare il collo a una persona con un solo gesto. E Bean ti faceva sempre sentire così cool, parte del suo club privato al quale apparteneva solo lui, e volevi fare esattamente quello che diceva per poter rimanere nel club per sempre.
Non avevo mai visto una ragazza dire di no a Bean fino a quando lui decise che gli piaceva Stacey Ashton. Stacey era la mia unica amica che fosse una brava ragazza. Era membro del club di francese e non si faceva canne e un giorno voleva andare alla Emory, aveva anche una felpa di quell’università eccetera.
Forse era per questo che piaceva a Bean, perché era tanto diversa. Ma a lei non interessava. Lui attaccava bottone a una festa e lei si limitava a essere educata, poi se ne andava e si metteva a parlare con un altro. Questo mandava Bean in bestia. Non l’avevo mai visto arrabbiato prima; in genere le cose gli andavano molto bene. Ma adesso tutte le volte che Stacey gli volgeva le spalle, gli si dipingeva in viso quell’espressione che rivela una tensione sempre più forte.
Bean mi convinse a parlare con Stacey da parte sua, disse che forse sarebbe uscita con lui se fosse stata un’uscita a quattro. Non mi piaceva quello strano Bean pieno di rabbia, e volevo far tornare il Bean felice. Oltretutto mi promise una bella scorta di erba. Non fu facile convincere Stacey; continuava a ripetere che Bean le faceva venire la pelle d’oca, che in lui c’era qualcosa di strano. Le risposi che era pazza, tutti gli volevano bene; comunque io e Tommy, questo tizio con cui più o meno uscivo all’epoca, saremmo stati sempre con loro. Alla fine le dissi che se non si fosse divertita le avrei comprato ’sti orecchini a forma di farfalla che le erano tanto piaciuti al centro commerciale. Stacey andava pazza per tutte quelle stronzate femminili.
Quindi Bean arrivò quel venerdì e lui e Stacey e io e Tommy andammo in macchina nel campeggio dove di solito ci rifugiavamo a bere e pomiciare lontano dagli scocciatori. Quell’estate giravano un sacco di voci su ’sto serial killer, non nella nostra zona ma in Virginia e nel North Carolina. Usava un coltello da caccia per ammazzare le sue vittime, soprattutto ragazzine adolescenti o poco più che ventenni. Il giornale lo chiamava “L’accoltellatore di Charlottesville”, ma noi lo chiamavamo “Lametta”, e tutte le volte che andavamo nel bosco ci prendevamo in giro a vicenda e ci dicevamo che Lametta ci avrebbe fatti secchi. In macchina non feci che punzecchiare le costole a Stacey per farla strillare, poi urlavo: “Lametta!”. Quando arrivammo, arrostimmo würstel e bevemmo birra e ci divertimmo, e mi resi conto che Stacey si stava rilassando. Bean le si avvicinò e lei non si scostò, poi le passò un braccio intorno alla vita e lei non lo fermò. Si stava facendo freddo, e lei gli si rannicchiò contro, appena appena. A quel punto Bean mi fece l’occhiolino, e io mi girai e mi misi a baciare Tommy, e sentii Bean dire: “Andiamo a fare una passeggiata per lasciarli un po’ soli”. Poi li sentii andare tutti e due a piedi verso il ruscello.
Non amavo Tommy ma mi piaceva scoparmelo, e visto che vivevamo tutti e due in case piene di bambini e patrigni eravamo abbastanza abituati a farlo per terra al campeggio o sul cassone di un pick-up o su campi da football o dovunque riuscivamo a prenderci un minuto per noi. Quindi eravamo tutti sudati e felici e ci stavamo rivestendo quando Bean sbucò dai cespugli solo, con un’espressione in faccia che non gli avevo mai visto prima.
“Dobbiamo andarcene,” disse.
“Perché?” chiesi. “Cosa è successo? Stacey dov’è?”
“È andata a pisciare,” rispose, “poi non sono più riuscito a trovarla. L’ho chiamata mille volte. Ho guardato dappertutto.”
“Non possiamo andare via così,” dissi.
Cominciai a chiamare Stacey.
Bean mi prese per un braccio. Mi guardò, e per la prima volta gli lessi la paura negli occhi.
“Credo che dobbiamo chiamare la polizia,” disse. “Sì, insomma, sono sicuro che si è solo persa o qualcosa di simile, ma non si sa mai…”
Non finì la frase, ma capii cosa intendeva. Nessuno di noi voleva tirar fuori lo stupido soprannome dell’Accoltellatore. Dissi a Bean di darmi un altro minuto, e mi allontanai solo di qualche passo dal campeggio, ma cominciai ad avere una gran paura, e andammo tutti insieme in macchina alla centrale di polizia dove raccontammo la nostra storia all’agente Gray, che passava gran parte del suo tempo a mettere fine alle nostre feste o ad arrestare il mio patrigno quando cercava di tornare a casa in macchina ubriaco dal Red’s il martedì sera.
La polizia setacciò la zona con i cani per chilometri intorno al campeggio, ma non trovarono il suo corpo. A volte una cosa del genere rafforza i legami, ma in questo caso distrusse il nostro gruppetto. Io e Tommy non ci vedemmo più dopo quella notte. Bean non venne più alle feste della scuola, poi si trasferì altrove senza dirlo a nessuno e senza nemmeno salutare. L’Accoltellatore uccise un’altra donna, questa volta nel South Carolina. Sentivo che dentro di me si prosciugava la gioia. Non finii le superiori, lasciai le mie sorelle e mio fratello a cavarsela da soli e accettai un lavoro come cameriera in un ristorante di Charlottesville che serviva pasta.
Ci lavoravo da circa sei mesi quando lessi sul giornale che avevano ritrovato il corpo di Stacey. Era ricomparso sulle rive del lago Moncove, a circa ottocento metri dal campeggio. La polizia affermò che probabilmente era opera dell’Accoltellatore, visto che Stacey rientrava nel profilo delle altre sue vittime. Però notarono un cambiamento nel suo modus operandi: a Stacey aveva spezzato il collo.
Passò un altro anno. Compii vent’anni. Stavo solo vivacchiando. E poi – ricordo che era venerdì, il ristorante traboccava di studenti che ordinavano caraffe del nostro disgustoso vino – ricomparve. C’era una donna con lui, una ragazza carina e molto magra dai capelli color rame. Era ben vestita, curata, con una bella pelle e scarpe costose. Aveva l’aspetto che hanno le persone in quel momento di una relazione in cui sono assolutamente sicure che l’altra persona le ama e non hanno ancora cominciato a disamorarsi di quella persona. La direttrice di sala li fece accomodare a uno dei miei tavoli, e andai a chiedere cosa desiderassero bere. Non pensai nemmeno di scappare. Volevo vedere cosa ordinava Bean, sentire il suono della voce della sua ragazza. Era più che curiosità, mentre mi avviavo verso di loro ebbi la sensazione di mettere fine a qualcosa.
E a quel punto lui mi vide, e ci guardammo dritto negli occhi per un solo istante, e non mi sembrò affatto spaventato. La sua faccia non aveva nessuna espressione. Per un attimo pensai che forse avrebbe fatto finta di non conoscermi, invece mi rivolse un gran sorriso ed esclamò: “Allison! È passata una vita”.
“Sì,” risposi. Non sapevo cos’altro aggiungere. Non avevo pensato a nulla se non avvicinarmi al tavolo, guardare Bean e vedere cosa faceva.
“Quando stavo a Burnsville, Allison era la mia migliore amica. Allison, questa è la mia fidanzata, Sarah Beth.”
Sarah Beth tese la mano e vidi l’anello che luccicava sull’altra. Bean si era fatto strada nel mondo. Indossava maglione e camicia. Sembrava che avesse smesso di spacciare.
“Cosa ci fai qui?” gli chiesi.
“Io e Sarah Beth abbiamo appena comprato una casa a Sunflower Court,” rispose. “Lavoro alla Alton Kenney.”
La Alton Kenney era la più grande agenzia immobiliare di Charlottesville. Guardai Sarah Beth e poi di nuovo Bean e pensai: suocero danaroso, lavoro, casa, moglie, vita. Non fui disgustata: ebbi solo la sensazione di essere scivolata in un altro universo, uno in cui c’era ancor meno giustizia di quello in cui ero cresciuta. Mi parve di avanzare nell’acqua. Presi le ordinazioni delle bevande e dissi loro quali erano i piatti del giorno e mi ricordai addirittura di sorridere. Bean mi restituì il sorriso. Me ne andai e tornai con le bevande – vino bianco per lei, rosso per lui –, presi l’ordinazione di quello che volevano mangiare e portai loro i piatti di pasta, poi andai in cucina e rimasi in piedi per un attimo a fissare la parete.
Fu così che Bean mi trovò. Mi toccò il gomito – piano, non lo ghermì, solo un colpetto – e mi chiese se potevo uscire con lui per un momento. Mi chiesi se avrebbe ammazzato anche me, spezzandomi il collo come aveva spezzato quello di Stacey, ma non pensai che l’avrebbe fatto con la fidanzata così vicina, che sorseggiava il vino e lo credeva una persona normale. E volevo sentire quello che aveva da dirmi. Lasciai che mi conducesse nel parcheggio.
“Sai perché non mi sono sorpreso di vederti?” mi chiese.
“Perché?”
Rimasi con la schiena appoggiata alla porta della cucina per poter rientrare in fretta e furia se ce ne fosse stato bisogno.
“Perché ho seguito le tue tracce. Ho saputo quando ti sei trasferita qui, e sapevo dove lavoravi, e sono venuto qui per vederti.”
“Perché?” chiesi di nuovo.
“Perché volevo tu sapessi che posso trovarti sempre.”
Poi allungò la mano dietro di me, aprì la porta e rientrò nel locale.
Questo è successo tre anni fa. Ho mollato quel lavoro, ho cambiato nome, mi sono trasferita qui. Ma mi guardo ancora dietro le spalle tutte le volte che entro nel mio appartamento. Ho ancora un attacco di panico tutte le volte che vedo qualcuno alto come lui, con la stessa corporatura. Non ho mai raccontato questa storia a nessuno. Continuo a sperare che la dimenticherò, suppongo, ma non la dimentico mai.
Dopo che ebbi finito applaudirono tutti. Una ragazza bionda dai denti perfetti venne da me a dirmi quant’ero fantastica. Un tizio che sostenne di essere il proprietario di una rivista mi porse un biglietto da visita fatto in casa e mi disse di mandargli la storia. All’epoca andavo a letto con un tipo che si chiamava Barber, che faceva parte di una band e che secondo tutti avrebbe fatto strada; mi passò un braccio intorno alle spalle, mi baciò sulla testa e mi disse: “È stato davvero intenso, ragazza”.
Sophie aspettò che fossi sola; Barber e Irina erano andati a prendere da bere quando venne da me. Era minuscola, indossava una camicia button down da ragazzo e un paio di jeans arrotolati sulle caviglie sottilissime. Aveva i capelli tirati indietro e il viso pallido, appuntito, con occhioni enormi. Dimostrava sedici anni.
“Non è una storia vera,” fu la prima cosa che mi disse. “Giusto?”
“Come, prego?” risposi. Ma aveva ragione.
Bean era davvero il mio migliore amico alle superiori. Lo chiamavano tutti così perché in terza elementare gli si era infilato un fagiolo nel naso che non usciva più ed era dovuto andare al pronto soccorso; suo padre gliene aveva date così tante che era stato costretto a rimanere in piedi in fondo alla classe per una settimana invece di sedersi. Era alto un metro e novantatré e magro come un insetto stecco, con una disperazione esistenziale così profonda dentro che parlava tanto in fretta da trasformare le parole in suoni senza senso, o da comparire a casa mia nel cuore della notte così su di giri e agitato a proposito di zombie, o di razzismo o della terrificante infinità dell’universo che ero costretta a urlare per calmarlo.
Era vero che a volte quando io e Bean andavamo in giro in macchina di notte sulla sua Buick color oro, con il tergicristallo che stava dritto come un orologio che segna la mezzanotte, mi sentivo sul serio come se fossimo le uniche due persone al mondo, soprattutto dopo che si era calmato un po’ e cominciava a parlare più lentamente, e io potevo ascoltare la sua voce e guardare il buio che ci sfilava accanto come fosse una coperta che ci avrebbe avvolti e protetti. Ma naturalmente alla fine doveva riaccompagnarmi a casa, e il mio patrigno stava urlando per via di uno dei suoi incubi o cercava di dimenticarli bevendo seduto al tavolo della cucina con la faccia come un pallone sgonfio, o magari la mia sorellina di quattordici anni stava facendo sesso con il suo ragazzo che ne aveva ventidue; a mia mamma lui piaceva perché ogni tanto portava hot dog o arance che prendeva da Kroger, il supermercato dove lavorava, o la mia sorellina di undici anni dormiva nel mio letto perché aveva paura di qualcosa a cui non sapeva dare un nome che viveva sulle colline dietro casa nostra ed entrava di notte per stendersi su di lei, invisibile e terribilmente pesante, cercando di spezzarle il respiro dentro i polmoni.
Avevo visto il vero Bean arrabbiato sul serio un sacco di volte. L’avevo visto inveire contro suo padre che cercava di trasformarlo in un duro prendendogli la testa sotto il braccio nella presa di sottomissione del wrestling e chiamandolo femminuccia quando non riusciva a liberarsi, contro la nostra stupida scuola dalla quale non vedeva l’ora di fuggire, contro i duri che giocavano a football e sparavano ai cervi con il fucile del padre e gli scrivevano CHECCA sull’armadietto. Contro il fatto che tutte le ragazze volevano uscire con quelli come loro e non con lui. Le furie di Bean non facevano paura; se mai mi rattristavano. Era come un cane che correva in cerchio fino a sfinirsi; era come un bambino senza più fiato per il gran piangere perché ha appena scoperto che il mondo è ingiusto.
Non c’erano nessun Tommy e nessuna Stacey. Non c’era nessun Accoltellatore. Eravamo solo io e Bean nel bosco quella notte. Ci andavamo quando lui era esagitato al massimo, perché gli alberi e il silenzio e l’odore dei falò spenti da chissà quanto lo rallentavano, lo calmavano. Ma quella sera era davvero fuori di sé: lui e suo padre avevano litigato di brutto a causa dell’immondizia, e suo padre gli aveva dato una spinta per poi mettersi a ridere quando era caduto. Bean continuava a camminare in cerchio come un matto, e finalmente lo convinsi a sedersi e gli strofinai un po’ la schiena come si fa con il petto di un bambino che ha un brutto raffreddore. Lo avevo fatto alle mie sorelle in autunno e in primavera, quando il catarro si bloccava loro in gola e si fermava nei polmoni e mi supplicavano per avere un tè al limone e le pastiglie Vicks per la tosse, e qualcuno che stesse accanto a loro la notte e cantasse. Ma le mie sorelle non si erano mai girate per baciarmi con violenza sulla bocca. Le mie sorelle non mi avevano mai stretta forte quando avevo cercato di scostarmi e non mi avevano chiuso la bocca con la lingua quando avevo cercato di gridare. Le mie sorelle non mi avevano mai sbattuta per terra e non mi avevano sbottonato i pantaloni.
Per tutto il tempo, mentre Bean mi stava violentando, tenni gli occhi chiusi e cercai di far finta che fosse qualcun altro. Non qualcuno che desideravo, qualcuno con cui avevo accettato di fare sesso, ma una persona malvagia e cattiva che potevo odiare con tutta me stessa. Non funzionò. Quando venne, aprii gli occhi e vidi Bean che ansimava, un terribile senso di colpa che nasceva nei suoi occhi, e lo presi tra le braccia e lo tenni stretto per un sacco di tempo, perché sembrava importantissimo fargli capire che non mi aveva persa, che sarei stata ancora sua amica.
Io e Bean non ci evitammo dopo che mi ebbe violentata. Invece c’era una strana energia tra noi, una vivacità. Ridevamo troppo forte alle battute dell’altro e discutevamo ad alta voce su cose da niente e ci facevamo le imboscate abbracciando forte l’altro da dietro. Altri miei amici mi chiesero se avevamo cominciato ad andare a letto insieme. Poi lo facemmo.
All’inizio pensai fosse un modo per cancellare quello che era successo. Pensai che far sì che fosse okay andare a letto con lui adesso avrebbe avuto un effetto retroattivo, rendendo accettabile anche quel primo episodio. Ma non andò così, e quando me ne resi conto il sesso diventò violento. Sbattevo il mio corpo contro di lui, gli mordevo il petto, gli conficcavo le unghie nella schiena fino a farlo sanguinare. Anche lui ci andava pesante con me: mi teneva ferma, mi afferrava i capelli e mi strattonava la testa all’indietro. Mi ricordava la prima volta e mi spaventavo, ma non gli dissi mai di smettere. Pensavo che tutto quello che facevamo fosse giusto, da un certo punto di vista: in qualche modo, comportandoci così, avremmo regolato i conti. Dopo non stavamo abbracciati. Stavamo stesi fianco a fianco sudando e ansimando, come pugili.
Quando si avvicinò il momento del diploma cominciai a temere che avrei fatto qualcosa per fare male sul serio a Bean, tipo ficcargli le unghie negli occhi mentre scopavamo, strappargli le labbra con i denti. Qualcosa di spaventoso si era risvegliato dentro di me e volevo fare in modo che tornasse a dormire. Comprai un biglietto della corriera per New York con i soldi rubati dal portafogli del mio patrigno nel corso di un mese, e dissi alla mia sorellina di quattordici anni dove avevo intenzione di andare e che adesso toccava a lei badare a tutto. Poi vidi Bean un’ultima volta.
Non so perché gli dissi dove stavo andando. Sapevo che volevo scappare da lui, quella notte nel mio letto il mio corpo fremeva per il desiderio di partire. Eppure la nostra scopata fu meno furibonda del solito, quasi tenera, e venni, e dopo mi tenne tra le braccia e provai non un senso di pace, ma una specie di calma. Il giorno successivo lasciai la città per sempre.
I miei primi giorni a New York furono come un brutto sogno. Mi trasferii in un appartamento seminterrato senza pavimento, solo terra battuta sotto i piedi, cosa che i miei tre coinquilini trovavano divertente. Erano uno studente della New York University i cui genitori a suo dire l’avevano tagliato fuori, ma continuavano a telefonare tutti i giorni chiedendo di parlargli, una restauratrice di opere d’arte part-time che si chiamava Lady, e un quarantenne di nome Charles che faceva lavoretti occasionali e forse era uno spacciatore, ma non uno bravo, perché non aveva mai il becco di un quattrino. Charles aveva adottato una gatta con la mascella fratturata, ma non poteva permettersi di portarla dal veterinario, quindi le schiacciava il cibo mescolato a un po’ d’acqua facendo un pappina, che le colava sempre dalla bocca mentre mangiava e per un po’ anche dopo che aveva finito, così che quando ti si sedeva in grembo ti ritrovavi sempre con goccioline di sputo e di cibo per gatti ridotto a poltiglia sui pantaloni. Nessuno che conoscessi giù a casa viveva in quel modo, nemmeno i Masterson, la cui madre era schizofrenica e li costringeva a portare mascherine chirurgiche a scuola tutti i giorni per evitare le sostanze chimiche. Lavorai in una tavola calda fino a quando il direttore cominciò a rubarmi le mance, poi come cameriera in un locale fino a quando un cliente cercò di seguirmi fino a casa, e poi in una drogheria in una zona abitata per lo più da ispanici dove dovetti rimanere perché non avevo più idee, anche se il proprietario mi strofinava sempre il pacco contro il sedere quando mi passava dietro, e me ne diceva di tutti i colori perché non vendevo cibo scaduto. Avevo la sensazione di essere arrivata in un luogo per gente che non sapeva comportarsi come fanno gli esseri umani, e se mi trovavo lì senz’altro neanch’io sapevo come essere una persona.
Dopo un paio di settimane cominciai ad aspettarmi che Bean mi telefonasse. Non gli avevo dato il mio numero di telefono ma mia sorella ce l’aveva, gliel’avrebbe potuto chiedere senza problemi. All’inizio volevo solo che mi chiamasse e mi parlasse come se non fosse successo niente, come se fosse solo un vecchio amico che mi ricordava da dove venivo, che una volta avevo avuto un pavimento vero e un cane invece di un gatto ridotto da schifo e una vita che, anche se non era particolarmente facile o felice, aveva comunque ancora un po’ di senso. Quando fu passato un mese senza che chiamasse, cominciai a volere che dicesse che gli mancavo. Volevo che mi dicesse che era stato uno stupido a lasciarmi partire, che voleva rivedermi e che pensava che potevamo sistemare tutto. Mi sentii uno schifo per tutti i due mesi o poco più in cui pensai queste cose, e al tempo stesso mi immaginavo a dirgli che anche lui mi mancava, e sì, sì, sì.
Poi cominciai a volere che si scusasse. A quel punto ero riuscita a trovare un lavoro da cameriera in un posto decente a Williamsburg, e stavo guadagnando abbastanza soldi da trasferirmi in un appartamento con Irina: anche questo era sporco, affollato e pieno di gatti, ma almeno aveva pavimenti veri. Cominciai a sentirmi un po’ più padrona della mia vita, e mi ritrovavo in piedi sul binario della metropolitana o a percorrere a piedi Atlantic Avenue o a portare una fetta di torta di compleanno a un cliente, riparando con la mano la fiammella della candelina, e a desiderare all’improvviso, con una forza con cui non avevo mai desiderato niente in vita mia, che Bean mi chiedesse scusa. Non volevo spiegazioni, non volevo che mi dicesse che mi amava o sentiva la mia mancanza o desiderava che la situazione fosse diversa: volevo solo che mi chiedesse scusa per poi non rivolgermi la parola mai più.
La sera in cui raccontai la storia avevo lasciato Burnsville da quasi due anni, e ancora non l’avevo sentito. Era diventata più debole, ma avevo ancora la sensazione che lui avesse qualcosa di mio che mi doveva assolutamente restituire, e che non avrei trovato pace fino a quando non l’avesse fatto.
Forse fu per questo che raccontai la storia su Bean quella sera, invece di un’altra di quelle che avrei potuto raccontare; aveva ancora un potere su di me, e mamma e papà e le mie sorelle e il mio patrigno no, o perlomeno in quel periodo della mia vita pensavo che non ce l’avessero. Ma non avevo intenzione di raccontare quello che era successo davvero e spiattellare a tutti i fatti miei, e immagino di aver pensato di poter ingannare il pubblico; di solito i ragazzi di Brooklyn credono a qualsiasi cosa gli racconti sul West Virginia. Non mi aspettavo questa minuscola sconosciuta in piedi di fronte a me che si comportava come se sapesse qualcosa della mia vita.
“Quando la gente mente sul proprio passato,” mi disse, “spinge il petto in fuori e drizza la schiena, come se qualcuno li stia sfidando.”
“E io lo stavo facendo?”
Lei annuì. “Ma qualcosa di vero c’era,” proseguì, “perché qualche volta il tuo corpo si rilassava completamente, come se tu conoscessi la storia per filo e per segno.”
Ero arrabbiata con lei per avermi inquadrata così bene. Raccontavo un sacco di piccole bugie sulla mia vita a Barber e a Irina, alla gente che incontravo, facendo sembrare la mia famiglia e la mia città meglio o peggio di quanto fossero realmente a seconda della situazione. Non mi aveva mai sgamata nessuno, ed ero felice di potermi creare il mio passato facendo in modo che gli altri lo accettassero. Ma a volte speravo che qualcuno mi scoprisse, così avrei sentito che mi conoscevano davvero. E la prima persona a farlo era una ragazza che non mi conosceva per niente.
“Cosa sei,” le chiesi, “una specie di psicologa?”
“Faccio film sulla gente,” mi rispose, “e vorrei che tu comparissi in uno.”
A quel punto pensai che mi stesse prendendo per il culo. I ragazzi che conoscevo fissati con l’arte organizzavano spettacoli in locali schifosi o facevano siti web con qualche vignetta; nessuno faceva film. O era uno scherzo, pensai, o era una di quelle persone che hanno sempre un progetto folle e non concludono mai niente. Oltretutto Barber tornò proprio in quel momento con una birra per me e mi passò un braccio intorno alla vita in modo da sfiorarmi il seno sinistro.
“Certo,” risposi. “Comparirò nel tuo film, come vuoi.”
“Bene,” fece lei. “Passerò la settimana prossima.”
Non sapevo il suo nome e non le avevo detto dove abitavo, e pensai che non l’avrei vista mai più. Invece comparve alla mia porta il lunedì seguente.
“Sono Sophie,” disse, e si piazzò a sedere sul mio letto senza chiedere il permesso.
Si tolse le scarpe da ginnastica con un calcio, i piedi erano senza calzini, lunghi e magri e aggraziati. Aveva un buon odore, come le valli scure di casa mia, fresche perfino d’estate e traboccanti di felci.
“Cominciamo a girare fra tre settimane,” annunciò. “Ho bisogno di mettere insieme un altro po’ di soldi, ma so già dove li troverò.”
“Okay,” dissi. Cominciai a prenderla un po’ più sul serio. I miei amici con i loro spettacolini e i loro siti web parlavano raramente di raccogliere fondi.
“Sarai la protagonista, quindi dovrai esserci praticamente tutti i giorni.”
“Aspetta un momento,” dissi. Nel fine settimana Barber mi aveva detto che dovevamo avere una relazione aperta, perché lui e la bassista della sua band, una bionda alta che si chiamava Victoria, dovevano fare sesso.
“Non è nemmeno una cosa fisica,” mi spiegò. “È un’artista talmente meravigliosa.”
Non me ne fregava granché della relazione aperta, non mi ero nemmeno accorta che avessimo una relazione. Ma ero gelosa del fatto che la tizia avesse fatto tanto colpo su di lui; dopo la mia storia ero tornata in fretta a essere insignificante.
“Non sono un’attrice,” dissi a Sophie. “Non posso fare la protagonista di un film.”
Fece un gesto vago con la mano, come se stesse scacciando una mosca.
“Non importa,” disse. “Sei quella che voglio.”
Mi fissava. Mi ricordò i ragazzi che mi piacevano alle superiori, i ragazzi carini e intensi con la loro spavalderia costruita, le loro bocche morbide. Scrivevano canzoni orrende e le cantavano bene, e le loro ragazze parlavano amorevolmente di quanto fossero fuori di testa, di come avrebbero dovuto nascere in un altro luogo, in altri tempi. Avevano sempre una ragazza; quelli non erano mai stati i ragazzi a cui piacevo.
“Di cosa parla il film?” chiesi.
“Della tua storia,” rispose.
Fui lusingata, ma ricominciai a preoccuparmi; pensai che nessun vero regista fa un film dopo avere ascoltato una bugia di dieci minuti raccontata da una sconosciuta. E, parlando in termini pratici, questo significava che probabilmente non aveva nemmeno un copione, non ancora. Forse era tutto uno scherzo, un modo di prendermi per il culo facendomi credere di essere importante.
“Non ha senso,” dissi. “I film non si fanno così.”
Scrollò le spalle. “Io li faccio così,” disse. “I film sono il mio modo di conoscere le persone.”
Scoppiai a ridere; sembrava così presuntuosa. “E come sta andando?” chiesi.
“Abbastanza bene finora.”
“Per te o per la gente che compare nei film?” chiesi.
“Per entrambi,” rispose.
Dopo quella volta venne da me tutti i giorni, così potevamo lavorare al copione. Sempre da me, mai da lei; non so nemmeno dove abitasse quell’anno. Si sedeva sempre vicino a me sul mio letto, ma la volevo più vicina. Non ero nemmeno sicura che fosse un’attrazione sessuale all’inizio: volevo solo sentire la vicinanza dei suoi capelli lisci e lucidi, delle sue ossa minute. Il suo corpo sprigionava un calore incredibile, come un topo campagnolo, un animale che deve sopravvivere in luoghi selvaggi. Volevo sapere com’era fatta sotto i suoi abiti da ragazzo, immaginavo qualcosa che non era né maschio né femmina, qualcosa che non avevo mai visto prima.
La terza sera che lavorammo insieme mi chiese la storia vera di quello che mi era successo a casa. All’improvviso la stanza mi parve troppo piccola, e decisi che avremmo fatto una passeggiata. Era estate, dopo mezzanotte, caldo come un bagno turco. Williamsburg era ancora un posto orrendo in quel periodo, mentre parlavo i gatti randagi si acquattavano sui marciapiedi, tutti con la testa piccola e le spalle ossute. Mi sentivo così lontana da casa.
Quando ebbi finito non parlammo per un po’. Mi sentivo un buco in mezzo al petto. Tornammo indietro, e quando arrivammo vicino a casa sentii che Sophie mi fissava. Evitai di guardarla negli occhi. Pensai che forse avrei chiamato Barber: raccontare quella storia mi faceva sentire sola, e volevo qualcuno nel mio letto. Ma Sophie si fermò fuori della porta, mi posò la mano sul braccio. Sul suo viso comparve un’espressione che non avevo mai visto prima: serissima, ma piena di una tenerezza che lottava per emergere, come se mostrarla facesse quasi male. Come il cavaliere di un vecchio film, pensai in seguito, un eroe.
“Voglio che tu sappia una cosa,” disse.
“Cosa?” Non ero sicura che potesse dirmi qualcosa in grado di farmi sentire meno smarrita.
“Non ti farei mai una cosa simile,” disse. “Non farei mai nulla che tu non vuoi.”
All’inizio mi venne voglia di ridere. Chi era per dare per scontato che avrebbe avuto quella possibilità? Non sapeva nemmeno se mi piacevano le ragazze, non lo sapevo nemmeno io. E anche se mi fossero piaciute, cos’avrebbe fatto con me quel topolino, visto che ero più alta di lei di dieci centimetri, e con una ventina di chili in più? Poi mi prese il polso destro. Le sue mani erano forti e mi ipnotizzò con quegli occhi enormi, e pensai che forse dopotutto sarebbe stata in grado di farmi male. Feci un passo verso di lei.
Non importava molto se non ero mai stata con una donna prima. Il suo corpo era così diverso dal mio; le ossa del bacino aguzze, il sedere da ragazzino, seni che si potevano coprire con un cucchiaio. E poi mi scopò come un uomo, non come i ragazzini con cui ero stata, ma come gli uomini che avevo conosciuto in seguito, che avevano imparato a leggere il corpo di una donna e sapevano senza chiederlo che volevo che mi tenessero ferma. Sapeva sempre fino a dove spingersi e quando baciarmi sulla fronte o allentare la presa sui polsi in modo che non mi spaventassi troppo. Ogni tanto qualcosa mi sorprendeva: quant’era delicato il suo aspetto nel sonno, il fatto che quando faceva la doccia e metteva il deodorante aveva esattamente il mio stesso odore. E sapevo che mia madre si sarebbe messa a piangere se l’avesse saputo, e avrebbe detto che era colpa di mio padre perché ci aveva abbandonati. Ma quando cominciai a passare tutto il mio tempo con Sophie, non pensavo ad altro che a noi. Quell’estate lei fu come un vento rovente che mi sospingeva per le vie della città.
Per un po’ dopo che ci fummo messe insieme, il film sembrò al tempo stesso reale e irreale. Ne parlavamo senza sosta, e aiutavo Sophie con il copione. Lo presentò per ottenere borse di studio e sovvenzioni, era professionale e organizzata, sapeva già cosa fare. Scoprii che aveva ventitré anni, più vecchia di me, che aveva già girato un cortometraggio intitolato Daniel e aveva frequentato per un anno un importante corso di cinematografia, che conosceva un sacco di persone che lavoravano in film e programmi veri. Le chiedevo sempre di farmi vedere Daniel, e lei diceva che l’avrebbe fatto, ma chissà come non accadde mai. Tutto ciò che ne sapevo era che parlava di un ragazzo con cui aveva frequentato l’università – cosa che mi incuriosiva e mi rendeva gelosa – e che secondo lei aveva un sacco di problemi tecnici.
“Questo sarà migliore,” affermò. “Adesso so come fare un film.”
Mi piaceva questo lato di lei, che parlava di una cosa complicata come se fosse semplice e chiedeva alla gente migliaia di dollari come se sapesse che avrebbero detto di sì. E al tempo stesso, non pensai mai che il film l’avremmo fatto davvero. Pensavo che ci avremmo lavorato per sempre, noi due sole, un progetto che ci tenesse vicine, e tutte le altre cose che adesso so essere parte di un film sembravano così strane e lontane che pensavo non sarebbero arrivate mai.
Poi venne novembre e Sophie ottenne un finanziamento. Non era sufficiente a fare il film ma bastava per iniziare, e all’improvviso si mise a cercare esterni, a chiamare macchinisti che conosceva, e a insegnarmi cosa significa la parola “macchinista”. A quel punto cominciai ad avere paura. Avevo creato tutta la trama del film da un evento terribile, e temevo che in qualche modo sarei stata punita. Tutti i membri della mia famiglia credevano ai fantasmi, e mia nonna diceva che non diventavano fantasmi solo le persone cattive, ma anche le cattive azioni. Temevo di avere ingigantito la brutta azione di Bean.
Sophie disse che il mondo non funziona così. E aggiunse che anche se fosse stato così, avrebbero dovuto punirci se non avessimo fatto il film, perché avremmo privato qualcosa di grande della possibilità di esistere. Non dubitava mai di sé in quel periodo. Era sicura di tutto quel che diceva, più di quanto io fossi mai stata sicura di qualcosa. Alla fine la convinsi a cambiare almeno il nome del mio personaggio; scelsi Marianne perché avevo sempre pensato che fosse un nome perfetto, semplice ma anche abbastanza di classe. Dissi a me stessa che questo trasformava un film basato su di me in un film non proprio su di me, e quel pensiero mi fece sentire meglio, per un po’.
Stavo ancora lavorando nel locale in quel periodo, e Sophie si occupò dell’assegnazione di tutte le parti senza di me. Quindi non conobbi il tipo che aveva scelto per interpretare Bean fino al primo giorno delle riprese. Non era venuto alla lettura del copione; l’aiuto regista di Sophie, una ragazza presuntuosa di nome Susan che mi stava già antipatica, aveva letto la sua parte con una vocetta da maestrina. Ma ecco che comparve il primo giorno, nel centro ricreativo che doveva essere la mia scuola, con una T-shirt bianca che sembrava fosse stata immersa nel piscio.
“Ti presento Peter,” disse Sophie.
Tesi la mano, ma lui si limitò a fare un cenno del capo. Non assomigliava a Bean, ma assomigliava al Bean inquietante e sfacciato che avevo inventato per la storia. Non era alto, ma aveva le braccia nerborute e le mani grandi, mani da lottatore. Il suo volto era di quella bruttezza che attira molte ragazze, spigoloso, con gli occhi a fessura. Aveva l’atteggiamento di chi non si fida degli altri.
Nella prima scena di quel giorno doveva chiedermi di Stacey. Nel centro ricreativo c’era un corridoio con tetri armadietti verde oliva che assomigliava molto al corridoio di una scuola superiore; togliemmo i cartelli destinati ai gruppi di anziani, e Sophie fece appoggiare Peter a uno degli armadietti come se mi stesse aspettando. Non mi piacque il modo in cui allungò la mano per fargli abbassare la spalla sinistra. Non piacque neanche a lui; scostò la spalla da lei e le scoccò uno sguardo feroce da cane da guardia di una discarica. Lei non fece marcia indietro, però. Invece disse: “Non sei arrabbiato in questa scena. Sei rilassato”.
“Questo è l’aspetto che ho quando sono rilassato,” ribatté lui.
“Beh, non è l’aspetto che ha Bean quando è rilassato. Voglio che tu abbassi quella spalla.”
La fissò per un minuto intero, e quando lei non abbassò lo sguardo lui abbassò la spalla, ma lentamente, come fosse un favore. Poi la cinepresa fu pronta; Sophie fece prima camminare lungo il corridoio una coppia di adolescenti che avevamo pagato dieci dollari per fare le comparse, e io li seguii con uno zaino sulle spalle. Dicono sempre tutti che sono un’attrice “naturale”, come se in realtà non avessi alcuna capacità acquisita e fossi spuntata fuori così, come un pomodoro pregiato. Ma devo davvero concentrarmi moltissimo sempre, perché non sono mai andata a scuola di recitazione. A lezione di arte drammatica si imparano un sacco di cose che io ho dovuto imparare da sola. Soprattutto a quell’epoca pensavo in continuazione, perché volevo assolutamente dimostrare a Sophie che non era stata una stupida a scegliere me, e anche perché volevo che tutti vedessero quant’eravamo fantastiche tutt’e due, come lavoravamo bene insieme. Quel giorno nel corridoio stavo pensando a com’ero alle superiori, scontrosa e impaziente ma divorata dal desiderio di piacere, dal desiderio che qualcuno mi cercasse attivamente per passare tempo con me, non perché avrei preparato loro la cena o accomodato la loro bambola rotta o detto loro che no, non avevano trasformato la loro vita un casino. Pensavo a com’era camminare lungo il corridoio e vedere il vero Bean, prima che mi facesse male, al piacere di imbattermi in qualcuno con cui non dovevo fare alcuno sforzo e a come avrebbe potuto essere vedere il finto Bean, che doveva essere cool e mettere paura e sul quale avrei voluto fare colpo, e cercai di mescolare tutte quelle sensazioni sul mio viso e nel mio corpo e nel modo in cui camminavo. Mi parve lunghissima quella camminata nel breve corridoio con le cineprese puntate su di me per la prima volta in vita mia, e quando raggiunsi Peter fui sollevata.
Ma lui aveva in faccia un’espressione strana, come se si fosse perso o qualcosa del genere, e invece di pronunciare la sua battuta ringhiò: “Cosa stai guardando?”.
“Buona!” gridò Sophie. “Però la tua battuta in realtà è ‘Vieni qui un attimo, Marianne’.”
Cosa c’era di buono in quella scena? Avrei voluto chiedere.
Ma Peter si limitò a dondolarsi sui talloni e a cacciarsi i pollici in tasca e a dire: “Lo so. Stavo solo prendendo in giro Allie”.
Odio che mi chiamino in quel modo, ma pensai che Peter cercasse di farmi uscire dai gangheri e non volevo permetterglielo. Sapevo anche che stava succedendo qualcos’altro. Peter sembrava nervoso. Tirò fuori la mano dalla tasca per grattarsi il naso. Mi chiesi se fosse drogato. Rifeci la camminata, e questa volta disse la battuta giusta e io replicai: “Come va?” – che era la mia battuta – e poi lui si limitò a dire “Così”, e io guardai Sophie perché neanche quella era la battuta giusta; avrebbe dovuto dire: “Conosci bene Stacey Ashton?”.
Il ragazzino secco che era il nostro assistente di produzione allungò a Peter un copione, e a quel punto lui fece qualcosa di molto strano. Lo sfogliò tutto per un minuto, senza nemmeno fermarsi un istante sulla nostra scena.
“Okay,” annunciò. “Sono pronto.”
Rifacemmo tutto, e stavolta invece di menzionare Stacey disse: “C’è una cosa di cui devo parlarti”.
Sophie si stava innervosendo.
“Attieniti al copione,” disse. “Non c’è bisogno che improvvisi.”
Ma io sapevo che Peter non stava improvvisando. Avevo visto quell’espressione smarrita, sulla difensiva, sulla faccia di Arnie Phelps, che alla fine era stato promosso in prima media perché era troppo grosso per le sedie della scuola elementare. Peter non sapeva leggere.
Aveva di sicuro capito che lo sapevo, perché lasciò cadere per terra il copione e mugugnò: “Chissefrega, sono tutte cazzate”, s’avviò lungo il corridoio e uscì dalla porta.
Sophie rimase in piedi nel corridoio a bocca aperta. Sembrava persa come lui.
“Ma cosa è successo?” mi chiese.
“Non sa leggere,” risposi.
“Non ha senso,” ribatté Sophie. “Stava leggendo il copione.”
“No che non lo stava leggendo,” dissi. “Faceva finta. Ma dove l’hai scovato?”
“Lavorava in una panetteria dove vado sempre,” rispose. “Mi piaceva il suo aspetto. Ma perché una persona dovrebbe far finta di saper leggere?”
“È imbarazzato,” le spiegai. “Non vuole che nessuno lo scopra.”
“Perché?” insisté Sophie. “ Chissenefrega se non sa leggere!”
Stavo imparando in fretta che, anche se a volte Sophie sembrava capirmi tanto bene, c’erano cose che non capiva per niente. Quel giorno non mi andava di spiegare che alla gente normale importa di quello che gli altri pensano di loro, o che se non eri bravo a scuola ti sentivi sempre nervoso con quelli che invece lo erano, come se a ogni secondo potesse capitarti di dover dimostrare che eri intelligente come loro.
“Pensa che tu lo prenderai per un deficiente,” fu tutto quel che dissi.
Sophie aveva un’abitudine quando si sentiva frustrata: si passava le dita tra i capelli e se li tirava forte lontano dal viso. Così sembrava un falco in picchiata.
“È tutto okay,” disse più a se stessa che a noialtri, che le stavamo intorno con l’aria confusa.
“Non c’è problema. Gli spiegheremo la storia e lo lasceremo improvvisare.”
Fece un cenno della mano all’assistente di produzione. “Chris, vieni qui, prepareremo qualche appunto. Allison, per favore, vuoi uscire e andare a prendere Peter?”
Non volevo. Non mi piaceva Peter, e non mi piaceva che a Sophie piacesse. Non mi piaceva che le piacesse il suo aspetto, secco secco e muscoloso là dove io ero morbida. Non avevamo parlato molto di uomini ma sapevo che lei era stata con alcuni, e pensai che forse quello che le piaceva in loro era il contrario di tutto quello che ero io. Temevo che un giorno andasse con un uomo e gli dicesse che ero disgustosa: il mio culone, il modo in cui mi sottomettevo a lei senza fiatare. L’amavo di quell’amore impetuoso che rende le persone gelose, ansiose e avide.
Ma amarla significava anche che l’amavo quando era forte e padrona delle situazioni, quando sapeva ciò che voleva e se lo prendeva, perfino da me. E voleva che Peter fosse nel nostro film.
“D’accordo,” dissi.
Peter era fuori, appoggiato al muro sporco del centro ricreativo, e fumava una sigaretta. Dall’altra parte della strada c’era un parco dove l’erba era morta per via dell’inverno, e alcuni storni la stavano beccando. Lui li guardava.
“Ehi,” dissi.
Fece un sobbalzo, e mi piacque il fatto di essere riuscita a spaventarlo.
“Che c’è’?” mi chiese.
“Sono venuta a dirti che non devi leggere le battute dal copione,” dissi. “D’ora in poi puoi improvvisare. Sophie ha detto che non ci sono problemi.”
Lasciò cadere la sigaretta sul marciapiedi e la spense sotto una suola. “No,” rispose. “Ho chiuso con queste cagate. Gliel’ho detto che non sono un attore.”
C’era una panchina di legno spinta contro il muro vicino a dove se ne stava in piedi, e mi misi a sedere. Volevo dimostrargli che non mi faceva paura.
“Senti,” attaccai, “io non ti conosco. Non so se sai recitare o cosa. Ma Sophie ti vuole nel film, e lei sa quel che fa.”
Peter non rispose.
“Un giorno diventerà qualcuno,” aggiunsi.
A questo non avevo pensato prima di dirlo, ma mi resi conto che era vero. Proprio in quell’istante immaginai il giorno in cui avrei parlato di Sophie al passato, quando mi avrebbero fatto domande su di lei. Sperai che avrei detto: Quello fu l’inizio della nostra vita insieme. Ma Peter non chiese niente. Si passò le dita tra i capelli unti. Fu così che vidi il tatuaggio grigioverde sulla parte interna del braccio. Era opera di un dilettante: una tigre con la testa molto più grande del corpo, e una zampa lunga e sinuosa come un serpente coperto di pelo. I contorni stavano diventando sfocati; ancora dieci anni e il tatuaggio sarebbe sembrato un livido.
“Dove te lo sei fatto?” gli chiesi.
A quel punto mi guardò; la sua bocca cattiva si era un po’ addolcita, e mi resi conto che non era molto più vecchio di me, forse sui venticinque. Non rispose, ma ebbi la sensazione che avrebbe voluto, più o meno.
“In prigione?” chiesi.
Scrollò le spalle. “Riformatorio.”
“Cos’avevi fatto?”
Scrollò di nuovo le spalle.
“Mio padre è stato in prigione,” gli dissi.
Peter accese un’altra sigaretta.
“Lui cos’aveva fatto?” chiese.
Di solito mi inventavo delle storie su papà, tipo che rapinava banche o contrabbandava armi o faceva il killer di professione. Ma non credevo che a Peter quelle storie sarebbero piaciute, quindi gli raccontai la più stupida e la più triste, che era la verità.
“Ha rubato una macchina fuori Richmond e voleva portarla a casa da mia mamma e da me per farci una sorpresa. Poi però si è perso e si è fermato a un distributore per chiedere indicazioni, ma il distributore era davanti a una centrale di polizia e i poliziotti hanno riconosciuto la macchina e l’hanno arrestato.”
Peter scosse la testa. “Tuo padre era un fesso.”
Mia madre lo diceva di lui quando non c’era, da quando avevo tre anni a quando ne ebbi sette. Quando tornò, però, si mise a piangere e si abbarbicò a lui con le gambe, e per un po’ cercarono di far funzionare le cose ed ebbero perfino una delle mie sorelle. Ma gli mancava quello che permette alla gente di cavarsela in questo mondo, e si metteva sempre nei guai senza ragione: si faceva sbattere fuori da McDonald’s perché cercava di fumare, e si faceva licenziare perché non si presentava al lavoro per tre giorni di fila, solo perché gli andava. Non era cattivo, e nemmeno particolarmente stupido; era solo un disastro quando si trattava di rispettare le regole, e alla fine ci abbandonò e si trasferì nel deserto, dove diceva che non c’erano regole di nessun genere. Però queste cose a Peter non le raccontai. Dissi solo: “Già”. Non volevo pensasse che mi aveva fatta arrabbiare.
“Io non avevo fatto niente,” disse. “Dei ragazzini più grandi vendevano erba e io facevo il palo, tutto qui.”
“Quanto sei stato dentro?” gli chiesi.
“Beh, una volta che ci sono finito ho continuato a cacciarmi nei guai per altre storie. Risse. Quindi sei mesi e poi ancora sei mesi, e poi mi hanno trasferito e poi due anni. Quindi tre anni.”
“È molto,” dissi, poi decisi di rischiare un po’. “Scommetto che ti sei perso un sacco di scuola.”
“Già,” rispose. “E allora?”
“Senti,” dissi. “Dove sono cresciuta le scuole erano una merda, e un sacco di bambini non ci andavano comunque. Conoscevo un sacco di gente che non sapeva leggere.”
“Non trattarmi come un deficiente, cazzo,” sibilò a voce bassa, infuriato. “So che Sophie pensa che sono un ritardato del cazzo, e non c’è bisogno che tu me lo spieghi.”
La sua faccia s’irrigidì come succede ai ragazzi quando cercano di non mettersi a piangere. In quel momento capii che, anche se non gli importava molto di recitare, ci teneva a fare una buona impressione a Sophie. Mi chiesi se tutti quelli del cast e della troupe fossero persone come noi, persone che amavano Sophie un pochino o moltissimo ed erano disposte a fare qualsiasi cosa dicesse. Mi fece ingelosire; volevo essere la sola. Ma mi fece anche provare un certo calore nei confronti di Peter; eravamo nella stessa barca.
“Sophie non lo sapeva nemmeno che non sai leggere. Ha pensato che stessi semplicemente facendo lo stronzo, e non gliene importa niente. Se voleva degli attori shakespeariani con il pedigree li avrebbe potuti avere. Ha voluto noi. E questo dovrebbe farti contento.”
“Perché te ne importa così tanto di ’sta storia?” mi chiese Peter. “Non è che ti sto molto simpatico.”
“Amo Sophie,” risposi, “e voglio renderla felice.”
Era vero, ma c’era qualcos’altro che non dissi: capivo che altra gente cominciava a frapporsi tra me e Sophie, e se fossi riuscita a controllare Peter, forse sarei riuscita anche a farlo con il prossimo. E se a tirare le fila fossi stata io, forse non sarebbero riusciti a mettersi troppo in mezzo e non sarei stata troppo male.
A quel punto Peter mi rivolse un sorrisetto, si portò due dita davanti alla bocca e dimenò la lingua.
“Quindi voi due siete lesbiche?” chiese.
In quel momento mi fu quasi simpatico; sembrava un dodicenne.
“Già,” risposi strabuzzando gli occhi e prendendolo in giro. “Facciamo proprio così.” E anch’io dimenai la lingua tra due dita.
Si mise a ridere. Poi fece sbucare dal pacchetto due sigarette con un gesto secco, e me ne porse una senza chiedermi niente. Non sono mai stata una grande fumatrice, ma mi feci una sigaretta con lui e osservai gli storni, poi rientrammo insieme.
I tre-quattro giorni successivi furono eccitanti. Eravamo sempre in ritardo con le riprese, e l’assistente di produzione ci piantò in asso, e il macchinista diciannovenne lasciò cadere una delle luci e sparse vetri rotti su tutto il pavimento, e la ragazzetta figlia di papà che interpretava Stacey si tagliò un piede e si mise a parlare di denunce, ma Sophie affrontò tutto quanto con una grinta incredibile, con una specie di gioia che metteva un po’ paura. Mangiava appena e le sporgevano le clavicole e i suoi occhi erano enormi. Una notte mi tirò forte i capelli, ringhiò e mi morse sulla coscia, e il giorno dopo indossai una minigonna in modo che tutti vedessero il livido.
Visto che Peter improvvisava cominciammo a farlo un po’ tutti, e riuscimmo a trovare un certo ritmo tra noi, soprattutto io e Peter. Ormai scherzavamo in modi sempre più pesanti sul nostro starci sulle scatole reciprocamente. Una volta, durante la ripresa di una scena in cui Bean diceva a Marianne che sapeva spezzare il collo di una persona, scoppiammo a ridere senza alcun motivo, e Sophie si precipitò verso di noi gridando come una pazza, chiedendo cosa ci fosse di tanto divertente. Non riuscimmo a spiegarlo. Vedevo che era un po’ gelosa, e non mi dispiaceva. Peter cominciò a flirtare con me – mi chiese se ero mai uscita con dei ragazzi, e se le ragazze avevano trucchetti speciali, e se potevano insegnarli a un uomo o se erano cose che solo una donna potrebbe fare – e non mi dispiaceva neanche questo. Continuavo a pensare che Peter non fosse bello, ma in lui c’era qualcosa di sensuale e subdolo che mi piaceva. Puzzava sempre di sudore, e mi piaceva anche quello.
Il giorno in cui avremmo dovuto girare la scena cruciale al ristorante era il primo febbraio. La nostra versione non finiva com’era finita la mia storia; invece di lasciarlo andare via, avrei piantato un coltello nella pancia di Bean. Eravamo in un parcheggio dietro un ristorante turco di Bay Ridge il cui proprietario andava matto per il cinema. All’interno rendemmo il locale luminoso e kitsch, con tovaglie a scacchi e menu che stampammo a casa della mamma del direttore della fotografia, ma il parcheggio era ancora sporco e deserto, un posto triste in cui ritrovarsi. Mi misi in posizione, con la schiena contro la porta d’un rosso sbiadito. Peter era in piedi di fronte a me. La truccatrice, che era la sorella maggiore del macchinista diciannovenne, gli aveva fatto la barba, e con la polo, i pantaloni color cachi e le scarpe di pelle sembrava uno sconosciuto. La fede che avevamo preso in prestito dall’altro macchinista gli stava a pennello, come fosse davvero sua.
“Pronto?” gli chiesi, sorridendo, cercando di sentirmi a mio agio.
Annuì, ma aveva lo sguardo fisso oltre la mia spalla, sulla porta malandata. Sophie fece il conto alla rovescia.
“Sai perché non mi ha dato fastidio incontrarti oggi?” mi chiese.
La sua voce era diversa, sembrava spigliato, quasi educato. Per la prima volta mi resi conto che era bravo in questo, a essere qualcun altro.
“Perché?” chiesi.
“Perché sono venuto qui di proposito,” rispose. “Solo per vederti.”
Poi mi si avvicinò, com’era stato nelle prove, così vicino che sentivo il suo odore e percepivo il calore che si sprigionava dal suo petto. E poi venne ancora più vicino. Mi stava addosso, premeva su di me con tutto il suo peso. Lo guardai per farlo scostare un po’, ma i suoi occhi erano del tutto inespressivi. Guardai Sophie, ma stava fissando la nostra immagine nel mirino da dietro la spalla del direttore della fotografia. Peter spinse più forte, e sentivo il suo pisello contro la pancia, sotto quegli stupidi pantaloni cachi, e volevo urlare per farlo smettere, ma avrei rovinato la scena e tutti avrebbero capito quant’ero debole, che qualcuno poteva farmi paura solo fingendo.
“E perché venirmi a trovare?” gli chiesi, e la gente che adora il film mi ha confessato che è la loro sequenza preferita, con la paura e la rabbia nella mia voce così vere, così autentiche. Odio quando mi dicono così.
“Perché voglio che tu sappia che so come trovarti. Dovunque tu vada, io ci sarò.”
Poi mi afferrò il mento e mi premette la bocca sulla bocca.
Chi è stato violentato parla di flashback, e ci credo. Ma non è quello che sentii mentre Peter mi teneva ferma contro la porta e mi schiacciava le labbra con le sue. Quello che provavo era vergogna pura. Mi ero data tanto da fare per raccontare una bella storia sulla mia vita, una storia che fosse eccitante e non mi facesse fare brutte figure, e adesso cast e troupe e chiunque vedesse il film avrebbe visto l’altra storia comunque. Mi avrebbero vista mentre permettevo a Peter di fare qualcosa che non volevo; mi avrebbero vista piena di paura, disperata e in difficoltà. E anche se era solo un film, anche se io dovevo essere Marianne e lui Bean, Peter mi stava portando via la mia dignità e tutti lo sapevano.
Passò molto tempo prima che ricordassi che potevo mettere fine a quel momento, e mi sentii ancora peggio perché l’avevo dimenticato. Afferrai il coltello dalla lama retrattile che avevo nel grembiule e lo colpii alle costole, abbastanza forte da causargli un livido. Cadde all’indietro, spaccando le sacche di sangue finto che aveva sotto la polo; la vernice rossa sgorgò dal suo corpo, e desiderai che fosse tutto vero.
Quando le cineprese smisero di filmare mi chiese se stavo bene ma lo ignorai: lasciai il set e mi misi a camminare sulla strada; arrivai a un caffè. Ordinai un mocaccino, che ho sempre odiato, e mi sedetti al tavolo con gli occhi fissi sul bicchiere. Dopo un po’ entrò Sophie. Si sedette di fronte a me e mi posò la mano sulla mano che tenevo sul tavolino, ma mi ritrassi.
“Che c’è?” mi chiese.
“Niente,” risposi. “Sto bene.”
Odiavo le ragazze che fingevano di stare bene quando era ovvio che erano arrabbiate, ma se Sophie davvero non capiva perché ero sconvolta non pensavo che meritasse una spiegazione.
“Non è vero,” disse.
Scrollai le spalle. La panna montata sopra il mocaccino si stava sciogliendo. “Sei turbata per come Peter ha recitato la scena?”
Lo disse lentamente, con quel modo che aveva di arrivare a capire cose che sarebbero risultate ovvie a qualsiasi essere umano normale, e quella volta mi mandò in bestia.
“Ma va’?!” chiesi. “Pensi che possa non essermi piaciuto il modo in cui mi ha tenuta ferma e baciata senza nessun preavviso, davanti a tutti? Credi che potrei essere un pochino turbata per questo?”
In quel momento mi resi conto di non aver mai alzato davvero la voce con lei. Non sapevo cosa sarebbe successo. Forse mi avrebbe lasciata. Forse avrebbe pianto. Ero spaventata ma anche eccitata, come se mi fossi arrampicata su una montagna e stessi guardando giù. Ma non pianse e non si mise a urlare. Si limitò a guardarmi per un attimo, poi disse: “Mi dispiace. Non sapevo che l’avrebbe fatto. Avrei dovuto fermarlo”.
Quella era anche la prima volta in assoluto che mi chiedeva scusa. Parvero parole strane quando uscirono dalla sua bocca, come una lingua straniera, ma nell’udirle il mio cuore si schiuse un po’. Mi sembrò di vedere un lato di lei che non avevo mai visto prima, un lato che non era del tutto sicuro di avere sempre ragione, un lato capace di ammettere di aver fatto una cazzata. E vederlo me la fece amare più di quanto avessi fatto per tutto il tempo che avevamo lavorato al film, quando era parsa così perfetta e capace e impenetrabile.
“Non fa niente,” dissi. “Non è stata colpa tua.”
“Mi dispiace lo stesso,” ripeté. “Vorrei essere stata in grado di proteggerti.”
Questa volta fui io ad allungare la mano e a prendere la sua. “Non fa niente,” dissi. “Non lo sapevi.”
Avevamo ancora alcune scene da girare, e filarono lisce. Sophie promise di tagliare il bacio dal montaggio finale, e la sentii vicina come mai prima. Ormai si era trasferita nella mia stanza, nella casa che dividevo con Irina, e cominciammo a parlare di cosa avremmo fatto quando il film fosse finito, di come lo avremmo presentato a vari festival in cui tutti avrebbero visto quant’era meraviglioso. Parlammo di vincere a Cannes, di come saremmo salite insieme sul palco a ritirare il premio. Parlammo di come sarei stata bella nel mio abito da tappeto rosso.
Non rividi Peter fino a dopo la fine delle riprese. L’ultimo giorno avevamo girato varie cosette in quella che doveva essere Burnsville, scene di me seduta sulle gradinate o alla fermata dell’autobus. Mi fece ridere che assomigliasse così poco a casa; le telecamere sparate in faccia, la luce vivida, la città che faceva capolino dallo smog all’orizzonte. In seguito avrei visto il film e tremato per giorni perché tutto sembrava così reale, e per sempre nella mia mente il ricordo falso si sarebbe sovrapposto a quello vero, ricoprendolo. Ma quel giorno l’aria era dolce grazie all’arrivo della primavera, ed ero felice, e Peter passò a casa a trovarmi.
Ero nella nostra stanza, stavo bevendo vino da un barattolo di vetro e cercando di appendere la bella stoffa indiana che avevo appena comprato per trasformarla in una tenda. Sophie era in sala di montaggio, e avevo appena cominciato a chiedermi quando sarebbe rientrata. In quel periodo volevo che passasse tutto il tempo con me, a impigrirci nel letto, come immaginavo avrebbe fatto se fossi stata incinta. Ma era più come se il bambino l’aspettasse lei, e doveva lavorare moltissimo ogni giorno per accertarsi che nascesse perfetto.
Fu di sicuro una delle nostre coinquiline a fare entrare Peter. Sentii qualcuno sulle scale e corsi alla porta con il viso radioso, pronta per Sophie, e quando vidi Peter gli voltai le spalle. Mi metteva in imbarazzo farmi vedere così felice da lui, come se lo stessi aspettando.
“Ciao, Allison,” disse.
“Cosa vuoi?” chiesi.
Mia madre diceva sempre che le buone maniere sono per chi se le merita. Questo atteggiamento la metteva regolarmente nei guai, ma era una delle poche cose che avessi mai imparato da lei che mi andava a genio.
“Voglio parlarti,” rispose.
“Beh, io non ho niente da dirti.”
Non era vero. In verità volevo chiedergli perché, perché aveva pensato di potersi comportare in quel modo con me, spiaccicarsi contro di me senza preavviso quando avevamo già provato la scena. Temevo che ci fosse qualcosa in me, qualcosa che diceva: Fate quel che volete con questa, una specie di odore che avevo sulla pelle. Ecco perché quando Peter ripeté che voleva parlarmi e mi chiese se poteva entrare, mi feci da parte e lasciai che si sedesse sul bordo del letto. Rimasi in piedi, con il vino in mano, guardandolo dall’alto come se questo mi potesse dare in qualche modo un vantaggio.
“Per prima cosa,” attaccò, “voglio dire che mi dispiace.”
“Un po’ in ritardo,” commentai.
Proseguì. “Mi dispiace perché sapevo che ti saresti spaventata se ti avessi baciata, e l’ho fatto comunque.”
Parlava in fretta e senza emozione, come se si fosse preparato il discorso in precedenza, ed evitava il mio sguardo. Non volevo concedergli più potere di quello che già aveva; non volevo che sapesse quanto mi aveva sconvolta.
“Non ero spaventata,” dissi. “È stato solo un gesto di merda, ecco tutto.”
A quel punto mi guardò. “Sapevo che ti avrebbe spaventata,” disse, “perché Sophie mi aveva detto che sarebbe successo.”
A volte quando sta per succedere qualcosa di brutto ho questa sensazione travolgente, quasi simile alla gioia. In quel momento avrei voluto mettermi a saltare o scaraventare il mio barattolo di vino dall’altra parte della stanza. Invece mi sedetti sul letto accanto a Peter.
“Cosa ti ha detto?” gli chiesi.
Si mise a fissare il pavimento. Ero imbarazzata dalle magliette e mutandine e tappi di sughero di cui era ricoperto, tutte prove dei mesi in cui avevamo scopato e bevuto e dormito e amato in quella stanza, ma era troppo tardi per pulire.
“Ha detto che non le piaceva come stavano andando le cose. Voleva che l’ultima scena fosse diversa.”
“Cosa vuoi dire?” chiesi. “Cosa non le piaceva?”
Esitò. Mi resi conto che cercava le parole giuste e non gli veniva molto bene.
“Non è che non le piacesse come recitavi. Le piaceva. È solo che voleva qualcosa di più intenso per il finale.”
Sentii l’acidità salirmi in gola. Fin dall’inizio Sophie aveva avuto solo cose positive da dire sul mio modo di recitare. Non faceva che parlare di tutti i moltissimi altri film che avremmo fatto insieme. Volevo sbattere fuori Peter a calci, dirgli che non avevo idea di cosa stesse dicendo, ma volevo anche sentire il resto della storia.
“Quindi?” chiesi.
“Ha detto che dovevo aggredirti un po’ per migliorare la scena.”
“Aggredirmi?”
Si ficcò le dita tra i capelli, si guardò le scarpe. “Non mi ricordo come l’ha messa giù di preciso… ha solo detto che dovevo venirti vicino, addirittura baciarti forse. È stata lei a dirmi di farlo. A me da solo non sarebbe venuto in mente.”
Pensavo di aver capito che soggetto fosse. Faceva il duro, ma in realtà era uno di quei tipi che non sopportano di essere odiati da nessuno. Adesso che si era divertito ben bene a mandarmi in paranoia, voleva dare la colpa di tutto a Sophie e farci la figura dell’angioletto.
“Stronzate,” dissi. “Vattene.”
Si alzò. Mi alzai anch’io. Mi aspettavo che si mettesse a discutere, ma sembrava sconfitto, quasi sollevato.
“Okay,” disse.
Ma arrivato alla porta della nostra stanza si girò verso di me, e in quel momento sembrava spaventato.
“Mi ha detto anche un’altra cosa,” aggiunse. “Mi ha detto che per via di qualcosa che ti è successo era possibile che tu ti arrabbiassi un sacco se ti baciavo. Che potevi addirittura lasciare il set. Ma che non dovevo preoccuparmi perché faceva parte del gioco. Qualsiasi cosa ti sia successa – cosa non me l’ha detto – avrebbe migliorato il film.”
Dovetti rimettermi a sedere.
“Non ho chiesto di cosa si trattasse,” continuò. “Avrei dovuto farlo. Sapevo che ti stavamo facendo qualcosa di schifoso, e l’ho fatto lo stesso, e mi dispiace.”
A quel punto se ne andò davvero e rimasi sola; non sapevo se credergli, ma notai che stavo raccogliendo tutti i miei abiti dal pavimento, come se non volessi più che sfiorassero quelli di Sophie.
Sophie rientrò parecchie ore dopo. Avevo finito la bottiglia di vino e cominciato la vodka da quattro soldi di qualcuno presa dal congelatore in cucina, ed ero di un umore che mia madre definiva assetato di sangue. Volevo che Sophie mi chiedesse cosa c’era che non andava, ma entrò con un’aria di importanza, parlando della sua giornata, indossando una giacca nuova che si era comprata, e alla fine, quando si stese sul letto e cominciò a parlare rivolta al soffitto senza nemmeno guardarmi, persi la pazienza e la interruppi.
“Oggi è venuto a trovarmi Peter,” le dissi.
Non parve preoccupata. Non mi guardò nemmeno. Fissava ancora il soffitto come se lassù ci fosse scritto qualcosa.
“Pensavo che non gli rivolgessi più la parola,” commentò.
“Infatti,” confermai.
A quel punto Sophie mi guardò. Si rizzò sui gomiti e mi fissò con quegli occhioni enormi, ma ancora non sembrava arrabbiata o sconvolta. Sembrava solo concentrata, come se fosse in sala di montaggio a tagliare una scena difficile.
“Gli hai detto tu di baciarmi?” le chiesi.
“Te l’ha detto lui?” chiese Sophie.
“È vero?”
Volevo a tutti i costi che rispondesse qualcosa di sensato, qualcosa di semplice e ovvio che avrebbe chiarito che il bugiardo era Peter, non lei. Invece si alzò, si tolse la giacca, si passò le dita tra i capelli. Sembrava semplicemente che stesse pensando.
Mi misi a urlare. “Dimmi se è vero, cazzo!”
“Possiamo parlarne domattina?” mi chiese.
Mi tese la mano come faceva quando voleva che andassi a letto. La presi e le conficcai le unghie nella carne come quando mi faceva godere così tanto da provare quasi dolore.
“Hai detto tu a Peter di baciarmi?” chiesi di nuovo.
Distolse lo sguardo. “Sì,” ammise.
Scaraventai il mio barattolo di vodka contro la parete. Quando andò in frantumi, presi la bottiglia e scaraventai anche quella. Mi stavo guardando in giro alla ricerca di qualcos’altro da tirare quando Sophie cominciò a parlare con una voce nuova, alta e velata di panico.
“Allison, hai presente quando vuoi che qualcosa sia perfetto?”
“No!” gridai.
“Beh, hai presente quando io voglio che qualcosa sia perfetto?”
Mi volsi per fronteggiarla. Il sangue mi rimbombava nelle orecchie.
“Qualche volta lo voglio così tanto da non pensare a cosa succederà o a come si sentono gli altri, ecco. Non riesco a pensarci, anche se so che dovrei farlo.”
“Perché non ci riesci?” chiesi.
I suoi occhi erano umidi. Mi resi conto che adesso era spaventata come non l’avevo mai vista. Allargò le braccia in una silenziosa scrollata di spalle, e ricordai quant’era piccola, e fragile.
“Beh, devi imparare,” dissi. Non urlavo più. Avevo la voce roca. “Non puoi continuare a essere così per sempre.”
“Lo so,” rispose. Tese di nuovo la mano, e questa volta la presi e mi stesi sul letto insieme a lei. Ma tutta quella notte sognai di essere rincorsa da un cane che abbaiava e mi mordeva i calcagni.
Mia nonna e mio nonno si adoravano, e quando lui morì lei pianse per un giorno intero, mi raccontò la mamma, poi uscì e si trovò un secondo lavoro: fare il pane nel carcere femminile. Era intelligente e veloce, e presto venne promossa a chef de partie, poi responsabile di tutta la cucina; riuscì a lasciare il suo primo impiego in una fabbrica che produceva piatti di legno, e lavorò nel carcere fino alla morte. La mamma e io andavamo a trovarla quando avevo quattro o cinque anni, prima della nascita delle mie sorelle: nonna preparava il pane con un formaggio soffice all’interno, e continuavo a chiedermi quale magia usasse per mettercelo dentro. Un’altra donna abitava con lei in quel periodo, una signora che si chiamava Elma ed era stata una detenuta. Aveva un gran corpo squadrato e una faccia che aveva visto molto sole, e ricordo che mi insegnò a sbucciare le arance a spirale in modo che se ne ricavasse un serpente sinuoso e profumatissimo. Mi raccontò anche una storia sul suo nonno alla quale non credetti ma che mi piacque moltissimo. Disse che era un marinaio che era stato catturato dai pirati, e stavano per buttarlo in mare quando aveva fatto un segnale massonico speciale con la mano e visto che erano massoni pure loro, non solo lo avevano liberato ma gli avevano anche insegnato tutti i loro segreti di pirati, e codici e i modi di aggirare la legge. Elma aveva le guance tonde e rughe profonde agli angoli degli occhi, e quando sorrideva sembrava la moglie di Babbo Natale; glielo dissi e lei scoppiò a ridere.
Quella notte, mentre la nonna mi metteva a letto, le chiesi cos’aveva fatto Elma per andare in prigione. La nonna pensava che fosse sbagliato mentire ai bambini, quindi mi disse che il marito di Elma picchiava lei e la loro figlia, quindi una notte Elma l’aveva ucciso. Mi spaventai molto: non perché pensai che Elma ci avrebbe uccise ma perché temevo che la dolce signora alla quale avevo cominciato a voler bene in fretta come fanno i bambini fosse in realtà una persona malvagia e per questo avrei dovuto odiarla.
“Elma è una persona cattiva?” chiesi alla nonna.
“Quello che ha fatto è sbagliato,” rispose, “ma non sbagliato come permettere a qualcuno di farti male una, cento, mille volte senza fare niente.”
Sapevo che stava parlando di mio padre, e non era giusto, perché era solo un buono a nulla che non aveva mai picchiato nessuno in vita sua. Però ricordai questo per sempre, quanto giudicava male la mamma perché lei sopportava le cazzate di papà. E ci ripensai il giorno in cui feci le valigie mentre Sophie stava montando il film e mi trasferii in un nuovo appartamento dall’altra parte della città.