In un certo senso suppongo di aver dimenticato Sophie. È vero che non ho pensato molto a lei per parecchio tempo, ci sono stati anni in cui probabilmente il suo nome non mi è neppure venuto in mente. Ma non era il genere di dimenticanza di quando si perde qualcosa per sempre, come le capitali di tutte le nazioni del Sud America; in questo caso se volete saperle di nuovo dovete imparare tutto da capo. Era il genere di dimenticanza in cui qualcosa si nasconde per un po’ sotto la superficie, ma è lì. Lo so perché nel 2008 il suo film Marianne fu trasmesso dal canale dei film indipendenti, e mia moglie Lauren e io lo guardammo. In quel periodo stavamo provando un sacco di cose nuove. A Lauren il film piacque e lo trovò bellissimo ma difficile da capire. Le dissi che era piaciuto anche a me, ma mi diede veramente sui nervi. Non era tanto la trama quanto l’atmosfera generale: tutto era chiuso, rinchiuso in se stesso, come quando Marianne era tappata in casa con la sua famiglia e non poteva prendere una boccata d’aria fresca o avere abbastanza spazio da stendersi senza problemi, nemmeno questo. E l’unica volta in cui c’è una tregua è proprio alla fine, quando pugnala Bean e poi si vedono tutto il parcheggio vuoto e gli alberi e la strada, nemmeno un’anima da nessuna parte.
Quella sensazione perdurò in me e mi infastidì, quindi alla fine controllai il film su Internet e fu lì che riconobbi il nome di Sophie. All’inizio fui semplicemente così sorpreso da sentire il bisogno di raccontarlo a qualcuno a tutti i costi, quindi chiamai Lauren.
“Guarda,” le dissi, “siamo andati a scuola con lei.”
Lauren non ricordava. “Come l’abbiamo conosciuta?” chiese.
“Era quella ragazza alternativa con la videocamera. Adesso è diventata regista.”
Lauren mi guardò in modo strano. “Non ricordo nessuno con una videocamera,” commentò.
In quel momento ricordai che Lauren non poteva aver conosciuto Sophie, che io la conoscevo solo perché aveva fatto quel film su di me e poi eravamo usciti insieme – ci eravamo messi insieme, veramente – per un paio di settimane al terzo anno, prima che io cominciassi a frequentare Lauren. E questo a Lauren in realtà non potevo dirlo, perché all’epoca stavo mettendo le corna a CeCe. Ho trattato di merda CeCe, sono disposto ad ammetterlo; gliel’ho fatta alle spalle con così tante ragazze che adesso non le ricordo nemmeno tutte. Continuavo a ripetermi che avrei smesso, ma tutte le volte c’era una ragione nuova per continuare, soprattutto il fatto che CeCe non l’avrebbe mai scoperto, e quindi sarebbe stato come se non fosse successo. Invece lo scoprì, ed era successo davvero. Non avevo mai tradito Lauren in sette anni di matrimonio, ed ero riuscito a impedirle di conoscere quel lato di me. Quindi mi limitai a dire: “Aveva una cotta per me al terzo anno”.
“Davvero?” fece Lauren. “Tu ricambiavi?”
“No,” risposi in fretta, e non era del tutto una bugia: all’inizio Sophie non mi piaceva. Indossava abiti strani e non era carina, o perlomeno non quel genere di carina che mi piaceva allora, tipo com’era CeCe e com’era – ed è – Lauren. E che lo crediate o no, non gradivo molto le attenzioni. Non fraintendetemi… mi piaceva stare in campo, il tifo del pubblico, le ragazze che flirtavano con me. Ma qualcuno che mi faceva domande su di me con una videocamera in mano: questo no, non lo volevo. Non volevo che mi ascoltasse con tanta attenzione, fissandomi con quei grandi occhi. In seguito mi era piaciuta, più di quanto sapessi cosa fare di quell’attrazione, ma questo a Lauren non lo dissi.
“Era molto strana,” commentai invece.
“Come il suo film,” sottolineò Lauren, e io risi e annuii, ma stavo pensando all’altro film, quello che aveva girato su di me. Non l’avevo mai visto, e adesso desideravo di averlo fatto. Volevo sapere che figura ci facevo.
Quella sera Lauren andò a letto presto. Prima facemmo sesso; dopo l’incidente avevo temuto che non avrebbe più voluto farlo, ma non appena smisi di prendere gli analgesici più forti cominciò a cercarmi, forse per provare a entrambi che riusciva a farlo. Sapevo che forse aveva paura della mia gamba sinistra, del moncherino sotto il ginocchio che mi mandava ancora fuori tutte le mattine quando mi alzavo dal letto. Non lo guardava e non lo toccava mai, ma comunque non volevo che lo facesse. Ero contento che continuasse a toccare il resto di me. Ma a volte mi sembrava di essere molto, molto lontano quando facevamo sesso, quasi che non potessi sentirlo come una volta. Quella notte non riuscivo a prendere sonno, quindi rimasi alzato di fronte al computer a leggere blog sportivi.
Fu dopo le due di notte che mi venne l’idea di mandare un’email a Sophie. Non ero ubriaco – non bevevo mai molto, soprattutto dopo l’incidente – ma ero di quello strano umore che a volte viene a notte fonda, come se il mondo non fosse reale e nulla di quello che si fa avesse importanza. Quando cominciai a cercarla su Google fu facile trovare il suo sito web. C’era un fotogramma del film – Marianne che guarda fuori del finestrino dell’autobus all’inizio – e quando cliccai su BIOGRAFIA vidi una foto di Sophie. Indossava un completo da uomo, aveva i capelli lisciati all’indietro con il gel e la fronte libera, ma il suo viso era proprio come lo ricordavo: mento in alto, che ti sfidava a osare di romperle le palle. Era così a scuola quando aveva cominciato a piacermi, il motivo per cui iniziai a incuriosirmi. La seconda e terza e quarta volta che venne da me, dopo che le dissi che non la volevo e non l’avrei mai voluta, aveva quel viso: che puntava quel mento contro di me, quegli occhi. Mi ricordava un bambino che avevo preso a pugni una volta in quarta elementare. Non ero un bambino cattivo, ma qualche volta qualcosa di brutto si impossessava di me. Vedevo un bambino così piccolo e magro e mi prendeva questa rabbia feroce, questo bisogno. E il bambino, Eldon, se l’andava sempre a cercare: si sedeva nel mio posto sull’autobus e si rifiutava di spostarsi. La prima volta avevo aspettato che fossimo scesi dall’autobus e gli avevo dato una strattonata alle mutande, tirandogliele su fino alle scapole o giù di lì, davanti a tutti. Mentre gli altri ridevano, il suo faccino si era fatto tutto rosso e furioso, ma non aveva pianto. Il giorno dopo si era rimesso nello stesso posto come se nulla fosse successo, quindi lo avevo scaraventato nella grande buca davanti alla scuola, piena di lubrificante e acqua gelida. La terza volta stavo cominciando a temere che mi facesse fare la figura dell’idiota, quindi lo avevo trovato durante la ricreazione, gli avevo dato due pugni nello stomaco e un calcio nelle palle. Gli avevo detto che se si fosse seduto di nuovo al mio posto gli sarebbe toccato ancora, ma sarebbe stato due volte peggio. Aveva funzionato, dopo quella volta non si era mai più seduto al mio posto ma aveva fatto qualcosa che era quasi peggio: era gentilissimo con me. Mi salutava sempre in corridoio, mi chiedeva come stavo, mi offriva un pezzo della sua merenda alla gelatina di frutta. E sempre con la stessa espressione, testa alta, occhi spalancati, come se in realtà non l’avessi picchiato. Eravamo arrivati a un punto che mi faceva quasi paura, poi alla fine dell’anno la sua famiglia si era trasferito e non lo avevo rivisto mai più. Ma mi era rimasto impresso, e quando Sophie cominciò a venire a casa mia comportandosi come se non l’avessi appena trattata come una merda, ripensai a lui.
“Sophie Stark è sceneggiatrice e regista del film Marianne,” diceva la sua biografia. “Ha ottenuto un James Award e una borsa di studio Cleveland First Feature. Al momento sta lavorando al suo secondo film. Vive a Brooklyn con il marito, il musicista Jacob O’Hare.”
Lo cercai su Google Immagini. Era più brutto di quanto mi aspettassi, piuttosto sovrappeso, con una barba ridicola. Non riuscii a trovare nessuna foto di loro due insieme, quindi non potei vedere come fossero insieme: se si amavano, se si tenevano per mano, se avevano quell’espressione un po’ stupita che a volte vedevo nelle mie foto con Lauren, come se all’improvviso ci avessero lasciati in un posto del tutto sconosciuto.
Il sito non forniva l’email di Sophie, solo un modulo per i contatti con grandi spazi bianchi. Pensai che forse non leggeva nemmeno ciò che la gente vi scriveva – probabilmente le capitavano un sacco di sciroccati che pensavano che il suo film spiegasse tutto di loro – e forse per questo cominciai a scrivere invece di provare imbarazzo e andarmene a letto.
Ciao Sophie,
come va? Sono il tizio sul quale hai fatto un film al terzo anno di università, Daniel Vollker. Volevo dirti che ho visto Marianne lo scorso fine settimana, e non sapevo nemmeno che fosse tuo. Adesso ovviamente lo so. Ho pensato che fosse molto interessante, ma non ho capito perché Marianne non ha cambiato nome quando è andata a New York e perché abbia rimesso la tinta per capelli nel negozio, a meno che non volesse essere scoperta.
Comunque so che sei molto impegnata; se hai un secondo però scrivimi uno di questi giorni. Mi piacerebbe molto sapere cosa stai combinando e di cosa parla il tuo nuovo film, se puoi parlarne.
A presto (forse)
DANIEL
Ogni giorno della settimana successiva mi alzai tutto eccitato, sperando di avere sue notizie. Mi eccitavo perfino quando ricevevo un’email di gruppo da Sophia Clayburn, la capa del mio capo, perché per un secondo pensavo che forse era lei. Stavo controllando un sacco di email in quel periodo, perché non ero ancora tornato al lavoro, quindi era facile farsi venire una specie di ossessione. Era una sensazione strana, era passato molto tempo dall’ultima volta in cui avevo aspettato qualcosa con ansia.
Ero al centro di fisioterapia quando vidi Sophie in tv. Ne avevano una sopra la macchina per le gambe, e la stavo guardando per distrarmi dal fatto che avrei dovuto portare una gamba di plastica con scarpa finta per il resto della mia vita, e ancora non sapevo nemmeno come usarla.
“Conosco quella ragazza,” dissi a Phil.
Phil era il mio fisioterapista. Non mi piaceva perché era un po’ imbranato e parlava molto di energia positiva, e perché era chiaramente in forma migliore di quanto non fossi stato io anche quando avevo due gambe. Da quando mi ero fatto male al ginocchio ed ero stato costretto a chiudere con il basket non avevo più avuto voglia di fare esercizio; andare in palestra non era la stessa cosa che giocare.
“Chi?” mi chiese, e poi guardò la porta per vedere se era entrato qualcuno, cosa che lo rese ancora più odioso ai miei occhi.
“No, in tv. Quella regista. La conosco.”
Stavano intervistando Sophie su un canale via cavo, ma non c’era il sonoro, quindi dovevo leggere i sottotitoli.
FACCIO FILM PERCHÉ NON SO… recitava il sottotitolo, ma si bloccò come succede sempre, e anche se la sua bocca continuava a muoversi non comparvero altre parole. Non ricordo che Sophie avesse mai spiegato perché voleva fare film, ma del resto non aveva parlato molto di sé nel periodo in cui eravamo insieme. In quel momento desiderai di averle fatto più domande.
Adesso Phil stava guardando la tv.
“La conosci?” chiese.
“È stata la mia ragazza all’università,” risposi.
Non appena lo dissi immaginai come sarebbe stato se fosse stato vero. Una cosa che so di Lauren, e di qualsiasi persona che conosci quando sei piuttosto giovane e che riesci ad amare e con cui riesci a stare, è che hanno un influsso sul genere di persona che diventi. Lauren ha decisamente fatto di me un uomo migliore: più lavoratore, più umile, più capace di pensare agli altri. Mi chiesi che uomo sarei diventato se invece negli anni della prima gioventù fossi stato con Sophie. Era come cercare di immaginare di avere genitori diversi: tutto si azzera, e là dove dovrebbe esserci la tua faccia rimane un punto interrogativo. Ricordavo però che Sophie mi guardava sempre, non mi fissava solo quando mi toglievo la maglia, ma anche quando facevo noiosissime cose normali come allacciarmi le scarpe. Era come se riconoscesse qualcosa di grande in me, e forse se fossimo rimasti insieme quella grandezza sarebbe emersa.
“Mhm,” borbottò Phil, come se non fosse colpito. La sua reazione mi fece arrabbiare, anche se gli avevo appena mentito.
“Adesso è molto famosa,” insistei. “Potrebbe vincere un Oscar.”
“Sì?” chiese lui. “Vi sentite ancora?”
“Per email,” risposi.
Quella notte riscrissi a Sophie:
So che probabilmente non avrai molto tempo per le email, ma mi rendo conto che non ti ho detto molto di me l’ultima volta, quindi ho pensato di aggiornarti. Non sono diventato un giocatore di basket professionista, cosa che forse non ti sorprenderà, ah, ah. Invece ho preso un master in comunicazione e adesso lavoro per un’azienda che produce macchinari agricoli. So che forse ti sembrerà noioso, però il mio lavoro mi dà la possibilità di viaggiare in tutto il Midwest e di parlare con i contadini. In questo periodo non lavoro perché mi sono ferito in un incidente stradale, ma non vedo l’ora di tornare presto al lavoro.
Ho una moglie meravigliosa (Lauren) e una splendida figlia (Emma) che ha cinque anni e secondo me sta rivelando di avere la stoffa della grande campionessa di calcio. Sono state fantastiche ad aiutarmi a riprendermi dall’incidente e sono la gioia più grande della mia vita. Beh, più o meno queste sono tutte le cose importanti che mi sono successe. Se hai occasione di rispondere, mi piacerebbe tanto sapere come stai e se ricordi i bei momenti che abbiamo passato insieme, come quando mi hai mostrato la tua collezione di fotografie. Penso ancora a quelle foto, sempre.
A presto, spero,
DANIEL
Sophie mi aveva mostrato quelle foto la prima volta che ero andato nel suo appartamento. Mi seguiva ossessivamente con la videocamera da settimane a quel punto, e poi all’improvviso smise. Pensai che forse stava facendo la preziosa – mi era già capitato che alcune ragazze mi tagliassero fuori in quel modo solo perché le chiamassi – ma dopo un paio di giorni mi mancava davvero. Mi scoprii a eccitarmi quando la vedevo con la coda dell’occhio, e poi a rimanere deluso quando si trattava di un’altra ragazza più normale. Scoprii dove abitava da una ragazza di nome Andrea che conoscevo e che usciva con il fratello. Quando bussai alla porta pensai che non sarebbe stata in casa, e fui un po’ sorpreso perfino del fatto che vivesse in un appartamento. L’avevo sempre immaginata in una vecchia casa bizzarra, o in una tenda, o qualcosa del genere. Invece rispose, e parve sorpresa e in fondo un po’ seccata di vedermi, ma quando le chiesi se potevo entrare rispose di sì.
La sua stanza sembrava il nido che il criceto di mia sorella aveva l’abitudine di ricavarsi con la carta fatta a striscioline. Il letto era coperto di abiti, quegli abiti strani che aveva l’abitudine di indossare, e jeans e magliette e mutandine bianche normalissime che sembravano quelle di una bambina. C’erano documenti e vecchi involucri di cibo e riviste dalle pagine stracciate su tutto il pavimento, a parte un sentierino piccolo piccolo che conduceva al letto. L’unica cosa che non fosse totalmente sommersa dalle schifezze era la scrivania, sulla quale c’era una specie di diagramma, o una striscia a fumetti, e null’altro. Appena entrai, Sophie lo sbatté dentro un cassetto.
“Ultimamente non ti ho vista in giro,” esordii. Stavo cercando di sembrare indifferente.
“Il film è finito,” rispose.
“Questo non significa che non puoi venire a salutarmi di tanto in tanto,” le dissi.
“Non mi sembra una buona idea,” rispose. Si passò una mano sul cranio, i capelli stavano appena cominciando a ricrescere. Avevo sentito di cosa le era successo alla festa, almeno in parte; un paio di ragazzi mi avevano raccontato che le avevano fatto uno scherzo, le avevano rasato la testa. Seppi solo molto tempo dopo che aveva partecipato anche CeCe; immagino che quei due la stessero coprendo. Dissi loro che secondo me avevano fatto una cosa schifosa, ma si limitarono a rispondermi che era stato solo uno scherzo e che cazzo, non è che Sophie mi piaceva per caso? Lasciai perdere. In quel periodo sopportavo la gente che si comportava in modo stronzo; lo facevamo tutti. Non ne vado fiero.
“Mi dispiace per quello che ti hanno fatto i ragazzi,” dissi. “Si comportano da stronzi con tutti, ma non fanno sul serio.”
Mi fissò senza aprire bocca. Non sapevo cosa dire, quindi sparai la prima cosa che mi passò per la testa, che fu: “Perché hai fatto un film su di me?”.
Non esitò nemmeno un secondo. “Perché avevo una cotta per te.”
“Fai film su tutti quelli per i quali hai una cotta?”
Mi guardò come se fosse una domanda stupida. “No,” rispose. “Ho imparato a fare film solo quest’anno.”
“E prima cosa facevi?”chiesi.
Mi resi conto che stavo flirtando con lei. Non ero sicuro che mi piacesse, ma nella mia voce udivo quel tono che usavo con altre ragazze quando decidevo che volevo che venissero a casa con me. Ma una cosa diversa c’era: portavo sempre le ragazze in camera mia, pur sapendo che CeCe poteva arrivare all’improvviso e beccarci. Ma mi piaceva essere nel mio letto, con il mio poster di Michael Jordan alla parete e il mio giubbotto sullo schienale della sedia e tutte le altre mie cose nei posti dove mi piaceva tenerle. Mi dava la sensazione di poterle lasciare facilmente. Mi sembrava che se fossi andato nella loro stanza avrebbero potuto esercitare un certo controllo su di me. Non entravo nella stanza di una ragazza che non fosse quella di CeCe dalle superiori. Non sapevo come comportarmi. Mi sedetti sul bordo del letto, poi mi rialzai.
“Se era un ragazzo,” disse, “gli facevo un pompino. E se era una ragazza mi limitavo a fissarla e fissarla.”
Lo disse nello stesso modo in cui diceva tutto, solo fatti. Non avevo mai sentito una ragazza dire “pompino” in quel modo; non era sexy, solo normale. La maggior parte delle ragazze non usava mai quella parola; ti baciavano la pancia sempre più giù fino a quando la loro bocca era lì, e tutto quello che dovevi fare era non fermarle. La maggior parte delle ragazze non ammetteva nemmeno di essere attratta da altre ragazze; qualche volta alle feste quando si faceva molto tardi due ragazze cominciavano a pomiciare sulla pista da ballo, ma in genere le vedevi che guardavano sempre di traverso per accertarsi che i ragazzi non le osservassero. Non riuscivo a immaginare Sophie che si comportava in quel modo. Mi resi conto di un’altra cosa che la rendeva diversa: mi parve che non le importasse di cosa pensavano gli altri del suo aspetto. Pensai alle sere in cui c’era la partita, all’imbarazzo che provavo se sbagliavo un tiro libero, pensando a tutte le ragazze che scuotevano la testa e si guardavano in giro alla ricerca di uno più bravo per cui fare il tifo. Non riuscivo a immaginare di essere come Sophie.
“Hai ancora una cotta per me?” chiesi.
Sapevo che davo l’impressione di sperare in quel pompino, ma non era così; perlomeno, non si trattava solo di quello. La sua voce incolore e la sua calda, strana stanza incasinata cominciavano a farmi effetto, e non sapevo nemmeno se volevo spogliarmi. Volevo sapere a tutti i costi cosa pensava di me.
“Non ne sono sicura,” rispose. E poi: “Sei stato gentile a venirmi a trovare”.
Suonava sbagliato detto da lei, una frase educata che dice la gente normale. Era il genere di cosa che CeCe avrebbe potuto dire a mia madre o a un’altra persona con cui doveva essere carina, ma quando lo disse Sophie sembrò che stesse leggendo un copione.
“Credo che tu sia bello,” proseguì, “e mi piace guardarti giocare a basket. Ma mi sa che non sono sicura che tu sia proprio molto interessante.”
Mi arrabbiai, naturalmente. Non avevo mai pensato di essere interessante prima, ma sentire Sophie dire che non lo ero mi fece pensare di essere uno zero assoluto, peggio di quando il mio allenatore delle superiori mi aveva detto che avevo istinti del cazzo o quando la prima ragazza con cui avessi mai fatto sesso mi aveva telefonato un anno dopo per dirmi che aveva appena avuto il suo primo orgasmo.
“Credo di essere abbastanza interessante,” ribattei.
Odiai il suono di quella frase, come se stessi supplicando, ma volevo che lei mi credesse.
“Sì?” rispose. “Dimostramelo.”
Ebbi la sensazione di partecipare a un gioco a premi e che il presentatore avesse appena fatto una domanda di cui non conoscevo la risposta, una domanda che non era nemmeno una domanda. Mi guardai intorno nella stanza, cercando disperatamente qualcosa che mi saltasse agli occhi. Vidi alcuni calzini appallottolati sul letto.
“So fare il giocoliere,” dissi.
“Non me ne importa,” disse. “Raccontami la cosa più paurosa che ti sia mai successa.”
Per un attimo ci fu il vuoto totale nel mio cervello. Pensai di dire: “Questo momento”, ma non volevo che Sophie sapesse quanto mi destabilizzava. Poi mi venne in mente una storia che potevo raccontare.
Un giorno, quando avevo undici anni, stavo giocando con le mie sorelle e mio fratello giù a Gormans’ Pond. Lo stagno era infestato dalle alghe, e la nostra mamma ci faceva sempre promettere di limitarci a giocare sulla riva, di non entrare mai in quell’acqua disgustosa. Ma io dovevo sempre fare cose che le mie sorelle e mio fratello non avrebbero fatto, così tutti si sarebbero ricordati che ero il più grande e il migliore, e a undici anni cominciai a preoccuparmi perché mio fratello stava diventando alto e bravo a giocare a calcio, e mia sorella Cassie si stava facendo una reputazione da far paura perché rubava e picchiava le altre bambine. Quindi quel giorno dissi loro che il nuovo gioco sarebbe stato quello di saltare dritto nello stagno, presi la rincorsa e mi ci tuffai a bomba.
L’acqua mi irruppe nel naso e in bocca e aveva un sapore terribile, non un terribile “normale”, ma come di cose morte e putrefatte, e capii che la mamma aveva ragione a dire che quello era un posto in cui non dovevamo entrare. Cassie, Brian e la mia timida sorella più piccola, Emmeline, si tuffarono dopo di me, e mi sentii in colpa per averli costretti tutti a farlo, ma fui io l’unico che si ammalò. Cominciò con una febbre che mi fece sudare in tutto il corpo e vedere cose che non c’erano, poi quando la mamma mi chiamò da un’altra stanza mi resi conto che non riuscivo a muovere la testa. Quella sera mi portarono all’ospedale e, anche se il medico parlò con i miei genitori a voce bassa dietro una tenda, sentii “meningite” e che se non fossero riusciti ad abbassare la febbre sarei potuto morire o rimanere paralizzato a vita.
La prima eventualità non mi preoccupò più di tanto. Non stavo sveglio la notte a preoccuparmi della morte come Cassie, che doveva andare a incontri speciali con il nostro pastore perché non riusciva a credere nel Paradiso. Non pensavo a quel genere di cose. Ma già tutto quello che mi importava nella vita aveva a che fare con il movimento, con la necessità di essere forte e veloce, e sapevo che se non mi fossi più potuto muovere non avrebbe avuto senso essere vivo. Ero stranamente calmo, e mentre la mamma piangeva dietro la tenda architettai un piano. Se non fossi più riuscito a camminare non mi sarei potuto buttare giù dal ponte come lo zio di Trevor Dunston o non avrei potuto camminare sui binari come il figlio maggiore alcolizzato dei White. Ma sapevo che a mio padre piacevano i rasoi antiquati con le lamette sostituibili, e una volta in bagno (supposi che i miei genitori mi ci avrebbero dovuto portare con la sedia a rotelle) avrei chiuso a chiave la porta e mi sarei tagliato i polsi.
Dopo un paio di giorni la febbre mi passò, e dopo una settimana tornai a casa. I miei genitori erano sollevati, e in seguito nessuno parlò più della mia meningite, ma a notte fonda qualche volta ripensavo a quanto fosse stato facile decidere di mettere fine alla mia vita.
Mentre raccontavo la storia a Sophie cercai di capire se stavo superando il test, se ero interessante. Ancora non so quale sia la risposta, so che dopo si limitò ad annuire e a guardarmi fino a quando mi sentii in un tale imbarazzo che avrei voluto nascondermi in mezzo al mucchio di abiti sporchi sul suo letto, e alla fine mi alzai e dissi che dovevo andare. L’unico indizio che ottenni sul fatto che non mi trovava noioso o matto fu quando disse: “Puoi tornare domani se vuoi”.
Ora avrei una storia diversa da raccontarle. Una notte tornavo a casa in macchina dopo una riunione con certi fornitori e stavo pensando a cosa avrei scritto loro nella mia email post-riunione per ottenere un prezzo più basso. Ricordo che era una serata tersa di novembre, quel periodo dell’autunno in cui si sente l’odore dell’inverno alle porte. Ricordo che ero arrabbiato perché i fornitori avevano parlato con me come se non sapessi niente di manifattura, perché in effetti non sapevo molto di manifattura, e perché Lauren voleva che passassi più tempo con i suoi genitori anche se loro si comportavano sempre come se non fossi presente. Avevo la nuca irrigidita e mi ero messo a cantare come faccio ogni tanto per calmarmi. Poi vidi due fari che si muovevano come i fari non dovrebbero muoversi, scivolando verso il centro della carreggiata e allineandosi ai miei occhi.
In seguito mi spiegarono che probabilmente avevo avuto un episodio di amnesia retrograda, che ti fa perdere la memoria dei minuti o addirittura delle ore prima di perdere i sensi, ma non è esattamente vero. Ricordo il momento in cui seppi che stavamo per scontrarci, quando mi sentii stranamente, totalmente calmo. Ricordo una specie di stridore che sembrava non smettere mai. Ricordo di avere visto luci bianche che splendevano su di me da ogni parte, poi le luci diventarono rosse e mi resi conto di avere del sangue nell’occhio. Ricordo che qualcuno mi spostò dall’abitacolo caldo all’aria fredda e vidi una donna stesa sull’asfalto, ed era bella con la luce sui capelli, e un uomo era inginocchiato accanto a lei, le teneva la mano e urlava.
Poi per molto tempo ebbi la sensazione di nuotare in acque profonde, e qualche volta risalivo in superficie dove c’erano urla, una serie di bip e dolore, poi tornavo a immergermi. Finalmente una mattina mi svegliai davvero, e fuori cadeva la neve, e mi dissero che ero stato in coma. Vidi solo un moncherino dove avrebbe dovuto esserci la mia gamba, ma in quel momento non mi resi conto della situazione, non proprio. Non so come, era tutto così facile. Facevo quello che mi dicevano di fare – mangiavo, prendevo le pillole, facevo gli esercizi – e anche se non potevo camminare e qualche volta le parole che volevo pronunciare andavano perse chissà dove dentro la mia testa, più che altro era come essere un bambino a scuola, dove se segui le regole non ti può succedere niente di male.
Poi un giorno venne il momento di tornare a casa. Mi diedero un deambulatore, come se fossi un vecchio, e uscii dalla porta saltando su un piede solo. Lauren ed Emma mi avevano preparato un grande striscione lungo quanto la parete del salotto; Lauren cucinò spaghetti con polpette fatte in casa, e mangiai con un forchetta vera a casa mia; mi sembrava di essere a una festa in onore di qualcun altro. Quella domenica in chiesa il pastore fece un sermone sui miracoli, e tutti continuavano ad afferrarmi la mano, a guardarmi negli occhi, ad abbracciarmi troppo a lungo e troppo forte. Quelli che erano venuti a trovarmi quando ero in coma parlavano dell’aspetto terribile che avevo e del fatto che ero quasi morto, e finalmente riuscii a farmi dire da Lauren che l’altra automobilista, la donna dai capelli luminosi, era morta davvero, anche se i medici avevano tentato un’operazione sperimentale per decomprimerle il cervello. Si chiamava Annie, faceva l’insegnante di scuola elementare ed era la mamma single di un bambino di tre anni. La polizia aveva detto che forse si era addormentata al volante. Quando uscii dall’ospedale le avevano già fatto il funerale.
La volta successiva che mandai un’email a Sophie fu quando uscì il lungo articolo su “Conversation”. Di solito non leggevo quella rivista, ma avevo impostato un Google Alert sul nome di Sophie. Sapevo che forse era una cosa strana da fare, ma era l’unica persona che conoscessi che fosse diventata famosa, dissi a me stesso, e non era poi così strano che fossi interessato. L’articolo era accompagnato da una foto, più grande di quella sul suo sito web. Sophie indossava una camicia grigia, aveva i capelli pettinati all’indietro, e il suo sguardo era rivolto verso l’alto come se ci fosse qualcosa sopra la macchina fotografica. Grazie alla foto più grande mi resi conto che era invecchiata dai tempi del college – il suo viso era più magro e più stanco – e pensai a tutti i modi in cui da allora ero invecchiato anch’io. I miei capelli si stavano diradando sulla fronte, e avevo messo su peso in faccia e sulla pancia. A mio padre era venuto il doppio mento dopo i cinquanta, come a un vecchio cane, e temevo di essere avviato anch’io su quella strada. Mi chiesi se Lauren pensasse ancora che ero attraente o se faceva sesso con me solo per abitudine, o addirittura per pietà. Quel pensiero mi fece paura, e dissi a me stesso che avrei cominciato a mangiare in modo più sano per cercare di perdere qualche chilo.
L’articolo si intitolava Nella foresta con Sophie Stark, il giornalista era andato a casa di Sophie e aveva semplicemente parlato molto di come lei trascorreva la giornata. Diceva che Sophie e il marito vivevano in un appartamento “pieno di luce” a Brooklyn, e che quando era arrivato Sophie stava mangiando del pollo. Mi chiesi come sarebbe stato essere abbastanza famosi da avere qualcuno che viene a casa tua e scrive tutto su di te, perfino cosa hai mangiato per pranzo. Quando io e Sophie eravamo insieme non credo di averla mai vista mangiare. Non eravamo mai andati al ristorante, niente del genere. Mi dispiacque di non averla mai portata fuori a cena.
Quando il giornalista citava le parole di Sophie riuscivo quasi a sentire la sua voce come se fossimo di nuovo insieme. Sembrava più matura, ma anche la stessa. Parlava di come all’inizio si fosse innamorata dell’idea di fare film: “Ho cominciato a provare un enorme interesse per come la gente si muove, e non puoi mostrarlo veramente nelle foto; o meglio, si può ma è difficile, e si riesce a cogliere solo sprazzi di movimento. Quindi ho deciso che volevo fare film, e ho girato Daniel ”.
Leggere il mio nome mi fece rabbrividire, anche se era il titolo del film. Sperai che avesse pensato a me quando aveva detto quella frase al giornalista. Subito dopo le aveva chiesto di Allison Mieskowski, l’attrice che aveva interpretato Marianne. Disse che circolavano voci sul fatto che fossero state amanti e si fossero lasciate a causa del film. Cercai di immaginare Sophie con Allison, che secondo me non era bella ma sexy, con lo spazio tra gli incisivi, tutti quei capelli castano ramati. Era sempre stato difficile per me immaginare Sophie con una ragazza; una volta le avevo chiesto se lei faceva l’uomo o la donna, e si era limitata ad alzare gli occhi al cielo. Un’altra volta, sempre nei primi tempi, le avevo chiesto se era mai andata fino in fondo con una ragazza, e lei aveva risposto certo che sì. Più tardi non ne fui tanto sicuro. Mi ci vollero tre visite nella stanza di Sophie prima di trovare il coraggio di stendermi su tutte quelle schifezze sul suo letto e di baciarla sulla bocca. Quando lo feci, non si sciolse come altre ragazze ma mi respinse con forza e decisione, e sapeva di fumo come se dentro di lei ardesse un fuoco. Pensai fosse diversa perché era stata con delle ragazze o perché aveva un sacco di esperienza in generale. Ma quando tornai a trovarla la volta successiva, l’aiutai a spogliarsi, e fu forte e aggressiva fino a quando non entrai dentro di lei; allora strinse forte le palpebre e si aggrappò a me come se avesse paura. Continuava a ripetere che non le stavo facendo male, ma non riuscii a finire, e quando ci fermammo c’era del sangue all’interno delle sue cosce. Le chiesi se era la prima volta e lei disse no, erano solo le mestruazioni, ma la volta successiva e quella dopo sembrava che sentisse ancora male, e mi sono sempre chiesto se mi stesse mentendo.
“Jacob vuole che assuma un addetto stampa che mi suggerisca come rispondere a domande di questo genere,” commentò Sophie quando il giornalista menzionò Allison. “Ma probabilmente dimenticherei la risposta e sbaglierei, e a quel punto si arrabbierebbero con me. Sì, insomma, quello che voglio che la gente sappia di Allison è che a volte incontri qualcuno e pensi: ‘Ecco, è la faccia giusta, è quello che cerco da tanto tempo’. E da quel momento qualsiasi cosa faccia la persona diventa interessante. Non è sempre la faccia, però; potrebbe essere il modo in cui si muove o sta in piedi, o perfino una sola delle sue caviglie. Provi un brivido inspiegabile quando incontri quella persona, come se la morte ti passasse accanto, e dopo quel primo momento si prova la sensazione più bella del mondo, come mettere insieme i pezzi di un puzzle.”
Il giornalista le aveva chiesto se stesse parlando di film o d’amore.
“Per me è difficile parlare d’amore,” aveva risposto. “Credo di farlo attraverso i film.”
Ricordai quando avevo detto a Sophie che l’amavo. Avevamo appena fatto sesso ed eravamo stesi sul suo letto a guardarci. Nuda sembrava un lottatore, era così magra, ma braccia e pancia e cosce erano muscolosissime. Stava usando le spanne per misurarmi il petto. Le sue mani erano rosse e piccole e screpolate, e avrei voluto tenerle tra le mie e farle guarire, ma lei le sottrasse alla mia stretta e continuò a misurare.
“Il tuo petto è più largo di tre spanne delle mie mani,” annunciò.
“Hai tre mani?” le chiesi, ma lei era seria.
“Ti fa sentire strano?” mi chiese.
“Cosa?”
“Ti fa sentire strano essere così grande?”
Non ci avevo mai pensato, però in retrospettiva ricordai com’erano cambiate le cose quando avevo tredici o quattordici anni, quando ero cresciuto. Non solo le attenzioni delle ragazze o gli amici di mio padre che scherzavano sul fatto che adesso avrei potuto batterli. Ricordai di essermi sentito diverso. Muovevo le braccia avanti e indietro quando ero solo, unicamente per sentire quant’erano diventate pesanti. Quando correvo sentivo la lunghezza nuova delle mie gambe. Mi sentivo pericoloso. Non sapevo come esprimere nessuna di queste sensazioni, quindi dissi solo: “Credo di sì all’inizio, un po’. Adesso mi sembra normale”.
“Alzati,” disse a quel punto.
Ero confuso. Pensai che forse c’era uno scarafaggio nel letto.
“Perché?”
“Voglio solo vederti.”
Allungai una mano verso i miei vestiti.
“No,” mi fermò lei. “Così.”
Quindi rimasi in piedi nudo davanti a lei. Erano passati anni da quando mi ero sentito in imbarazzo a spogliarmi di fronte a una ragazza; guardavo sempre loro, pensando a quello che avremmo fatto. Ma in quel momento ero imbarazzatissimo, mi sentii arrossire, e anche il petto diventò rosso. Ero preoccupato per come mi vedeva, le mie gambe pelose, le palle. Poi disse: “Sta’ dritto. Sei bellissimo. Sta’ dritto”.
Lì per lì mi offesi. “Bellissimo” mi fece pensare a un modello o qualcosa di simile, il genere di persona che mio padre non avrebbe rispettato. Ma del resto a mio padre non sarebbe piaciuto niente di Sophie; nessun membro della mia famiglia e nessuno dei miei amici avrebbe avuto niente da dirle. Avere qualcosa di cui nessun altro sapeva niente mi faceva sentire speciale. Sophie mi voleva in un modo che nessun altro avrebbe capito. E anche se non usò mai quella parola, pensavo che mi amasse. Tirai indietro le spalle, e non mi sentii più stupido. Mi parve di fare qualcosa di grande, anche se non stavo facendo assolutamente niente.
Quando tornai a letto con lei ero tutto un fremito. L’abbracciai e sentii la sua schiena contro lo stomaco, e sussurrai che l’amavo. Lei non disse nulla, quindi lo ripetei, più forte. La stanza si fece così silenziosa che udii il richiamo dei corvi nel parcheggio e i camion sull’autostrada. Poi si girò per guardarmi in faccia.
“La mia nonna è morta quando avevo undici anni,” disse. “E mio fratello non faceva che piangere e piangere. Io non piansi per niente. In seguito mio fratello mi chiese: ‘Non le volevi bene?’. E io risposi certo che le volevo bene, pensavo a lei in continuazione. E lui commentò: ‘Allora perché non sei triste?’. E non avevo una risposta da dargli. Fu come se qualcuno mi avesse chiesto come facevo a sapere che l’azzurro è azzurro. E da allora, immagino, ho paura quando la gente parla dei propri sentimenti. Non so mai se vogliamo dire la stessa cosa.”
Adesso sono convinto che dicesse la verità, che è più di quanto abbia mai fatto io con tutte le altre ragazze con cui ero stato prima di lei. Dicevo a CeCe che l’amavo tutti i giorni, anche quando andavo a letto con Sophie. Mi riusciva facile, dire alle ragazze che le amavo, ma non avevo mai pensato a cosa significasse. Non ne sono ancora sicuro.
Dopo aver finito di leggere l’articolo cercai su Facebook Annie, la maestra di scuola. Era bionda e aveva i denti un po’ storti e un’aria molto felice e normale. Il suo account era pubblico e quindi riuscii a vedere tutti i messaggi in bacheca, che dicevano che se n’era andata troppo presto e che sapevano che lei li stava guardando dal Paradiso. Non lessi tutti i messaggi; diedi solo un’occhiata e passai a quelli che aveva ricevuto da viva, del tipo: Mi sono così tanto divertita con te e TJ, e Sara adora la sua nuova Barbie! o Parlare con te è stato meraviglioso, non dimenticare che sei l’amica migliore del mondo, la più fantastica. Solo guardando le cose normali e sciocche che amici e familiari le dicevano mi resi conto che era stata una persona gentile, con una bella vita. Dopo aver letto e riletto tutti i suoi messaggi su Facebook scrissi a Sophie per la terza volta.
Cara Sophie,
non so se ricevi queste email. Forse hai qualcuno che le legge per te e ti dice quali sono importanti. Se è così non sono sicuro che la persona penserebbe che questa è molto importante. Ma se mi stai leggendo, voglio raccontarti un altro particolare della mia vita, e cioè che quest’anno sono rimasto coinvolto in un incidente stradale. Adesso sto molto meglio e probabilmente tornerò presto al lavoro, ma l’incidente mi ha fatto pensare alla mia vita da molti punti di vista. È difficile da spiegare ma suppongo che quello che sto chiedendo è: ricordi la prima volta che abbiamo parlato e tu mi hai chiesto di dimostrarti che ero interessante? Non so come dire, mi sto chiedendo cos’hai pensato e che genere di persona ti sei convinta che fossi. Secondo te ero una brava persona? So che è una domanda strana, ed è passato tanto tempo, ma se ci potessi pensare su per un minuto per me significherebbe molto.
A presto,
DANIEL
Lauren mi prese un appuntamento con uno psicologo. Disse di essere preoccupata per me, perché stavo alzato fino a tardi e passavo tanto tempo su Internet. Mi mostrò un opuscolo datole dall’infermiera quando mi avevano dimesso, nel quale si spiegava che le vittime di incidenti sono soggette alla depressione o allo stress post-traumatico. Aveva una pila enorme di opuscoli che non avevo mai visto prima, e questo mi fece sentire come un bambino, come se gli adulti parlassero di me dopo che ero andato a letto.
Non ero stressato. Non avevo più una gamba, e questo mi faceva sentire un fenomeno da baraccone, ma non mi rendeva nervoso. Non ero sicuro di essere depresso. Vedevo e rivedevo l’incidente con gli occhi della mente, in continuazione: i fari, la donna a terra illuminata da tutta quella luce, l’uomo che urlava. L’opuscolo sullo stress post-traumatico diceva che la terapia poteva impedire alle persone di rivivere l’evento traumatico, ma io non volevo smettere. Sapevo che era importante. Però dissi che sarei andato all’appuntamento perché Lauren voleva che andassi; volevo che fosse felice e non si preoccupasse.
Lo psicologo era un uomo gentile con la barba e il viso tondo. Nel suo ufficio c’erano una pianta e alcuni quadri che raffiguravano spiagge e barche a vela. Aveva acceso una di quelle candele profumate. Mi sentii grosso e goffo, come un elefante in una cristalleria.
Per prima cosa fece alcune domande su di me e sulla mia famiglia, poi me ne fece molte altre alle quali risposi di no. Avevo incubi? Pensavo con insistenza all’incidente? Avevo paura che succedesse ancora? Avevo attacchi di panico? Pensavo a fare del male a me stesso o a qualcun altro?
Poi mi chiese come mi sentivo riguardo all’incidente. Non seppi cosa rispondere perché stavo ancora cercando di capire come mi sarei dovuto sentire.
“Bene, immagino,” disse.
L’uomo annuì. Pensai che sarebbe stato un bravo presentatore di giochi a premi in tv, perché il suo viso non rivelava mai se eri sulla strada giusta o no. Poi appoggiò il suo taccuino e si protese verso di me.
“Sa,” disse, “incontro molte persone nel mio lavoro, e una cosa che ci crea davvero un sacco di problemi è esprimere i nostri sentimenti. Tendiamo a pensare di dovere essere forti e tenere tutto dentro, perché ci hanno cresciuti così, erano così i nostri padri. Ma non è l’unico modo di essere.”
Non capivo dove stesse andando a parare, ma annuii comunque. Non volevo che mi trovasse stupido.
“La verità è che ci sono molti modi di essere forti. Possiamo essere forti alla vecchia maniera, senza parlare mai dei nostri sentimenti, e questo presenta certi vantaggi. Per brevi periodi potrebbe rivelarsi più facile. Oppure possiamo riconoscere che un altro modo di essere forti è chiedere aiuto quando ne abbiamo bisogno e aprirci un po’ con la gente, anche se è una cosa che fa paura. Il più delle volte, se riusciamo a imparare a farlo, ci sentiamo ancora più in pace con noi stessi e siamo più bravi a prenderci cura delle persone che hanno bisogno di noi di quando cercavamo di essere forti e silenziosi. Capisce cosa intendo?”
Stavo pensando a mio padre. Non lo definirei forte e silenzioso, rideva molto, e qualche volta urlava, ma di sicuro non parlava molto dei suoi sentimenti. Pensai che se fosse stato seduto sul divano dello psicologo avrebbe probabilmente detto che non si stava tenendo dentro un bel niente. Avrebbe detto che se avesse sentito qualcosa di importante lo avrebbe detto a qualcuno di sicuro. E in realtà non credo che tenesse nascosti un sacco di sentimenti complicati quando stavamo crescendo, quando tornava a casa fischiettando dopo il lavoro al Grain Board, cenava, si faceva una birra e andava a letto. Ha sempre detto che ci assomigliavamo molto, io e lui, e in linea generale sono d’accordo.
“Suppongo di sì,” risposi.
Sapevo che non era ciò che voleva sentire, ma sorrise lo stesso. Sarebbe stato bravo anche a poker.
“Senta,” continuò. “Proviamo un piccolo esercizio. Se non le piace non lo faremo più.”
“Okay,” acconsentii.
Mi aspettavo macchie d’inchiostro, associazioni di parole o cose simili, come si vede in tv, ma invece si limitò a chiedermi: “Cerchi di descrivere, con tutti i particolari possibili, un momento in cui si è sentito abbandonato”.
Pensai che stesse cercando di farmi parlare dell’incidente o dell’ospedale, ma “abbandonato” non esprimeva come mi ero sentito. Quando ero in ospedale mi avevano aiutato in tutti i modi possibili: a mangiare, dormire, andare al gabinetto. Avevo sempre ricevuto così tanto aiuto che in pratica non dovevo sentire assolutamente nulla. E adesso non mi sentivo abbandonato quando stavo seduto di fronte al computer alle quattro del mattino, cliccando sito web dopo sito web come se il successivo contenesse delle risposte. Forse era perché ultimamente avevo pensato tanto a Sophie, ma quando pensai al senso di abbandono, pensai all’ultima volta che l’avevo vista.
Era dicembre, la fine del primo semestre del nostro terzo anno. Frequentavo Sophie da un mese mentre uscivo ancora con CeCe, e Sophie su questo non mi faceva mai domande e si comportava come se non le importasse. A me invece importava. Prima quando tradivo CeCe me ne potevo dimenticare molto in fretta; se mi avesse fatto delle domande per me sarebbe stato davvero difficile ricordare. Ma Sophie ce l’avevo nel sangue, mi sentivo addosso l’odore della sua stanza perfino dopo la doccia, e mi rendevo conto che CeCe aveva dei sospetti. Non mi aveva mai fatto così tante domande su dove fossi stato né chiesto così spesso se l’amavo. Era preoccupata come non lo era mai stata prima, quando stavo fuori fino a tardi o dicevo che dovevo allenarmi così potevo andare da un’altra ragazza. Mi sentivo in colpa tutte le volte che la guardavo, e anche confuso. Lei e io avevamo un senso insieme; era divertente, era bella, ai miei genitori piaceva. Prima della situazione con Sophie era stata abbastanza gelosa da dimostrare che gliene importava, ma anche abbastanza tranquilla da farmi fare quello che volevo. Ma non potevo tornare a provare per lei gli stessi sentimenti che provavo prima di incontrare Sophie, che mi facevano battere forte il cuore quando la guardavo o le sfioravo la nuca.
Alla fine decisi che volevo che la mia ragazza vera fosse Sophie. Dopo aver preso la mia decisione capii che era quella giusta. Attraversai la città praticamente di corsa fino al suo appartamento per dirglielo. Capii che qualcosa non andava non appena ci arrivai, perché stava pulendo. Aveva un enorme sacco dell’immondizia sul pavimento e aveva già ripulito la scrivania e metà del letto.
“Non ti avevo mai vista pulire prima,” dissi.
“Mi trasferisco,” rispose. “Ho trovato lavoro.”
Mi si contrasse lo stomaco. “Che tipo di lavoro?”
“È una borsa di studio a New York. Per giovani registi. Ti danno dei soldi e ti insegnano a fare film migliori.”
“E le tue lezioni?” chiesi. “Hai intenzione di saltare il prossimo semestre?”
Non era quello che volevo dire ma era la domanda più facile che mi venne in mente.
“Suppongo che farò domanda per un permesso o qualcosa del genere,” rispose. Sembrava che non ci avesse pensato.
“Per quanto tempo?” chiesi. “Quando tornerai?”
“Non ne sono sicura,” rispose.
“Beh, in autunno devi tornare, no? Per iscriverti di nuovo ai corsi?”
“Già,” fece lei. “Suppongo di sì. Probabilmente.”
Fu quello il momento in cui capii che l’avrei perduta. Quando si fosse ritrovata a New York a fare film, perché sarebbe dovuta tornare lì dove la gente la prendeva in giro e i ragazzi le rasavano il cranio? Ero triste e incazzato, e permisi a me stesso di diventare cattivo.
“Ti mangeranno viva, lo sai?” dissi. “Qual è la città più grande in cui hai messo piede? Des Moines?”
“Non sono mai stata a Des Moines,” rispose.
“Vedi? Non sei mai stata da nessuna parte e credi di potertene andare a New York e che tutto andrà bene?”
Mi parve confusa e – lo vedevo per la prima volta – ferita.
“Perché mi parli così?” chiese.
Mi dispiacque di averla ferita, ma ero ancora arrabbiato.
“Voglio solo che tu ci pensi bene prima di buttarti a capofitto. Non puoi semplicemente trasferirti dall’altra parte del Paese senza pensare all’effetto che avrà su di te.” Non riuscii a trattenermi dall’aggiungere: “O su di me”.
“Hai una ragazza,” disse.
Mi era sempre piaciuto il suo modo diretto di parlare, come se tutto fosse semplice e ovvio. In quel momento mi fece sentire un idiota.
“Quindi questo è quanto?” le chiesi. “Non ti vedrò mai più?”
A quel punto la vidi davvero turbata, e non capii se era triste per la partenza o se le stavo solo dando fastidio.
“Non lo so,” rispose. “Forse ci vedremo. Come faccio a saperlo?”
Non riuscii a trattenermi. “Non sentirai per niente la mia mancanza?”
Si sedette sulla parte pulita di letto e si circondò le ginocchia con le braccia. “Perché mi chiedi queste cose? Pensavo che la situazione ti stesse bene così.”
“Beh, forse volevo di più,” risposi. “Ci avevi mai pensato?”
A quel punto sollevò lo sguardo e mi fissò; il suo viso era diverso. Sembrava che le avessi suggerito di buttarsi dal tetto.
“Cosa volevi?” chiese. “Volevi che fossi la tua ragazza?”
La sua voce non prometteva niente di buono, ma non avevo intenzione di mollare.
“Sì,” risposi. “Voglio che tu sia la mia ragazza.”
Pensai che forse a quel punto avrebbe cambiato idea, che di fronte alla mia offerta avrebbe deciso di restare. Una parte di me credeva che forse se ne stava andando a causa mia, perché era innamorata di me e non le davo quello che voleva. Sapevo di essere stato il solo ad avere usato la parola “amore”, ma sapevo anche che mi aveva seguito dappertutto per tre mesi, e non credevo che potesse chiudere con me tanto in fretta. Avevo un’alta opinione di me stesso in quel periodo; adesso è difficile ricordare perché.
“E poi cosa?” mi chiese. “Mi volevi portare alla festa del tuo club con il cranio rasato? Mi volevi presentare ai tuoi? Cos’avevi intenzione di dire quando ti avrebbero chiesto cosa cazzo ti passava per la testa?”
Mi offese che pensasse questo di me, che fossi troppo coniglio per tenere testa alla mia famiglia o ai miei amici.
“Dirò loro che sono innamorato di te,” risposi.
Strinse forte gli occhi e scosse la testa. Aprì la bocca e la richiuse. Per un sacco di tempo rimasi in piedi di fronte a lei aspettando che dicesse qualcosa. Alla fine disse solo: “Voglio che tu te ne vada”.
“No,” risposi. “Non me ne vado fino a quando non avremo parlato di questo.”
Sembrava così infuriata che ebbi paura. Pareva che avessi cercato di usarle violenza.
“Voglio che tu te ne vada,” ripeté a voce più alta. E non c’era altro che potessi fare se non girare i tacchi e andarmene.
Quando raccontai allo psicologo questa storia non menzionai la parte su CeCe. Dissi a me stesso che non ero più quella persona, e che parlare del fatto che avevo tradito la mia ex ragazza complicava solo le cose. Raccontai che Sophie e io ci frequentavamo in modo rilassato, e io volevo di più e lei no, e anche rivelare solo questo a un’altra persona mi coprì di sudore e di disagio. Quando ebbi finito lo psicologo annuì con aria seria, disse che si vedeva che ero una persona molto premurosa e mi porse alcuni fogli di carta perché potessi scrivere come mi sentivo, poi il tempo che avevamo a disposizione finì.
Mentre tornavamo a casa in macchina Lauren mi chiese com’era andata, e risposi: “Bene”, poi cercai di pensare a qualcos’altro da dirle. Era vero che non le avevo detto come mi sentivo dal momento dell’incidente, e non sapevo perché; mi fidavo della sua opinione più di quella di chiunque altro. Decisi che dovevo provarci di più.
“È stato utile,” le raccontai. “Dice che devo parlare di più dei miei sentimenti.”
Lei annuì con quel suo modo che riusciva a calmare, e disse: “Sai che con me puoi sempre parlare”.
Così le confessai che mi sentivo perso da quando avevo avuto l’incidente, e sfasato, e forse aveva a che fare con il fatto che non lavoravo. E lei rispose che capiva perfettamente, ed era una bella cosa che presto sarei tornato al lavoro, ma intanto forse potevamo provare a fare più cose insieme, come portare Emma al parco o fare giochi di società. Decidemmo anche che avrei fatto più volontariato in chiesa. Mi sentivo rilassato; cenammo e facemmo sesso, ma passarono ancora ore prima che riuscissi a dormire.
Un paio di settimane dopo la mia prima seduta con lo psicologo scoprii che Sophie sarebbe venuta a Chicago. Lì ci sarebbe stata la prima del suo film, poi avrebbe risposto alle domande del pubblico. Avevo letto tutto sul film, e stavo già progettando come spiegare a Lauren che volevo vederlo, ma non avevo mai pensato che avrei rivisto Sophie. Se fossi riuscito a imparare di nuovo a guidare, mi resi conto, sarei potuto andare a Chicago in macchina.
Le mandai un’altra email:
Cara Sophie,
ho visto che andrai a Chicago per presentare il tuo film. Ho scoperto che quel giorno ci sarò anch’io per lavoro. Ti va di prendere un caffè dopo la proiezione e fare quattro chiacchiere? È una coincidenza così strana che ho pensato che dovremmo approfittarne. Fammi sapere se ti interessa.
Inoltre, scusa se la mia ultima email sembrava strana. Stavo passando un brutto momento ma adesso mi sento molto meglio. Però, nel caso volessi parlare di qualsiasi cosa che ho scritto in quella email quando ci vedremo, sarei contento di fare anche quello.
Arrivederci a Chicago, spero,
DANIEL
Cominciai piano piano, con Lauren sul sedile del passeggero accanto a me che mi posava la mano sul braccio a ogni stop, chiedendomi se andava tutto bene. All’inizio no, non andava tutto bene; sentivo la gamba destra sbilanciata senza la sinistra, e continuavo a schiacciare troppo l’acceleratore facendo scattare la macchina in avanti, spaventando Lauren e provando imbarazzo. Ma pensavo al viaggio a Chicago e feci alcuni esercizi di respirazione che mi aveva insegnato lo psicologo, e presto cominciai a sentirmi a posto, come se la guida fosse un tipo di movimento che riuscivo ancora a fare.
La settimana successiva rientrai al lavoro. I muscoli della coscia lavoravano meglio con la protesi, ed ero passato dal deambulatore al bastone. Quindi quando entrai zoppicando nell’edificio sembravo solo un vecchio e non un mezzo cadavere. Il personale dell’ufficio mi aveva comprato una torta, tutta bianca con BENTORNATO scritto con la glassa rossa. La mia scrivania era esattamente come l’avevo lasciata il giorno dell’incidente, c’era perfino la confezione di Mini Oreo in cui avevo lasciato un solo biscotto per poter dire a me stesso che non l’avevo finita tutta. Mi resi conto che se fossi morto la notte dell’incidente forse nessuno avrebbe toccato la scrivania per un paio di giorni, come un sacrario, e poi qualcuno avrebbe tolto tutte le mie cose e le avrebbe buttate via per fare spazio a chi mi avrebbe rimpiazzato. Mi chiesi chi sarebbe stato a prendere il mio posto, e che aspetto avrebbe avuto, e lo immaginai che mi sostituiva in tutte le sfaccettature della mia vita, come marito di Lauren, papà di Emma, figlio dei miei genitori. Non ero sicuro che avrebbero sentito molto la mia mancanza dopo un po’. Se fossi scomparso per un lungo periodo e qualcun altro avesse preso il mio posto, qualcuno che era carino con Lauren e giocava con Emma e andava al lavoro e rientrava a casa, forse si sarebbero dimenticati di me piuttosto in fretta.
Non combinai molto durante il mio primo giorno di lavoro. Un paio di volte mi resi conto che avevo lo sguardo perso nel vuoto; sperai che nessuno se ne fosse accorto. Con il passare della settimana fui più bravo a comportarmi in modo normale; andavo alle sedute di psicoterapia e fisioterapia; mi sentivo colpevole perché c’erano così tante persone ad aiutarmi. Lo psicologo mi chiese se avevo paura di guidare, ma era il contrario: guidare mi calmava. Cominciai a fare la strada più lunga per tornare a casa, la vecchia statale invece dell’autostrada, poi cominciai a svoltare su stradine che non portavano nemmeno a casa ma passavano accanto a campi di granturco, a vecchie fattorie con camion arrugginiti sul vialetto, a un bambino biondo che gettava manciate di terra in un canale di scolo.
Una delle stradine di campagna che si imboccava dalla provinciale passava da una cava. Non l’avevo mai vista prima, anche se alle superiori avevamo l’abitudine di andare in giro in macchina in cerca di luoghi proprio come quello per ubriacarci nelle sere d’estate. Per due sere vi passai accanto guidando piano, senza fermarmi, ma la terza sera scesi e guardai giù. Era così profonda che non avrei saputo dire quanto. Le pareti erano verticali da entrambe le parti dove la roccia era stata tagliata, e in fondo c’era solo gelida acqua scura, molto, molto più giù.
Sentivo già come sarebbe stato frantumare il ghiaccio e nuotare nell’acqua. Sarebbe stato così freddo, ma così freddo che presto non avrei più avuto la sensazione del freddo, poi avrei perso la sensibilità delle dita delle mani e dei piedi, e di braccia e gambe, e poi mi sarei semplicemente steso a pancia in aria: sopra di me avrei visto le pareti nere della cava stagliarsi contro il cielo, e tra loro le stelle.
Stavo pensando di nuovo all’incidente, alla domanda cui non potevo rispondere. Sapevo che l’altra macchina era venuta contro di me sbandando sulla carreggiata. Quello che non riuscivo a ricordare era se avevo sterzato con forza e cercato di evitarla, o se avevo continuato a guidare verso di essa. Sapevo di amare mia moglie e mia figlia e volevo vivere, ma sapevo anche che quella notte in ospedale da bambino non era stato un momento di follia passeggera. Sapevo che da quando mi ero distrutto il ginocchio, da quando la mia vita era solo andare al lavoro e tornare a casa e non volteggiare in campo e sentire tutto quel potere in braccia, gambe e cuore, una parte di me aveva desiderato la morte. E sapevo che, se c’era qualcuno in grado di capirlo, quel qualcuno era Sophie.
Dopo molto tempo un camion scese per la strada con gli abbaglianti accesi, ed eccomi lì appoggiato al bastone accanto alla cava come il cattivo deforme di un film di infima categoria, e provai un tale imbarazzo che risalii subito in macchina e tornai a casa. Lauren era preoccupata per me; le dissi che avevo lavorato fino a tardi per recuperare il tempo perduto. Capii che non mi credeva, non del tutto; comunque mi baciò lo stesso, mangiammo stufato di manzo e tagliatelle orientali all’uovo, poi lessi a Emma un libro sui cavalli. Quella notte quando controllai la mia posta elettronica trovai un’email di Sophie.
Ciao Daniel,
scusa se non ho risposto agli altri tuoi messaggi. A volte sono terribile con le email. Vieni alla proiezione, per favore; dopo possiamo prendere un caffè e chiacchierare. Non parlo dell’Iowa con nessuno da molto tempo.
Cordialmente,
SOPHIE
Lessi l’ultima riga un paio di volte. Non parlava dell’Iowa perché non ci pensava mai o perché quello che avevamo vissuto insieme laggiù era una cosa privata e non poteva essere condivisa con una persona qualsiasi? Sperai fosse per il secondo motivo. Mi fece stare meglio credere che tra noi ci fosse qualcosa che nessun altro avrebbe capito.
Quella notte non chiusi occhio. Mi sentivo leggero, quasi che, se non avessi indossato la mia pesante gamba finta, fossi in grado di schizzare fino al soffitto. Intorno alle cinque del mattino, quando il cielo stava appena cominciando a farsi grigio, bevvi uno scotch per zavorrarmi un po’. Escogitai cosa avrei detto a Lauren. Sapevo già di un’azienda fuori Chicago che produceva diserbanti. Non era esattamente il nostro settore – ci occupavamo soprattutto di attrezzi – ma forse era arrivato il momento di espanderci. Avrei preso un appuntamento con l’azienda in mattinata; l’avrei detto subito a Lauren. Non sarebbe stata una bugia.
Lauren si innervosì quando glielo dissi. Non voleva che guidassi per tanti chilometri così presto. Voleva sentire cosa ne pensava lo psicologo, ma lui dichiarò che era una buona idea. Spiegò che per me era positivo sforzarmi. Mi chiese se stavo ancora scrivendo il diario che mi aveva raccomandato come esercizio, risposi di sì, ed era vero, però nel mio diario non avevo scritto niente su Sophie, e nemmeno della visita alla cava. Disse che sembrava che ne stessi ricavando molti benefici e che dovevo continuare così.
Durante le due settimane di attesa cercai di comportarmi normalmente, non feci giri in macchina, andai a letto a un’ora decente. Non mandai email a Sophie. Lauren e io facemmo sesso più o meno un giorno sì e uno no, com’era diventata nostra abitudine, e solo una volta mi guardò, dopo, e mi chiese: “Stai bene?”.
Il mio cuore si mise a battere come un tamburo.
“Benissimo,” risposi. “Perché?”
Scrollò le spalle, poi posò la testa sul mio petto. “Per nessun motivo,” rispose a sua volta. “È solo che sembri un po’ nervoso in questi giorni.”
“Forse perché mi sento meglio,” le dissi. “Credo che la psicoterapia stia funzionando.”
Sollevò lo sguardo su di me, e pensai che stesse per farmi un’altra domanda, ma invece mi baciò sulla guancia e disse: “Sono contenta”.
Ero stato a Chicago solo una manciata di volte in vita mia, e avevo dimenticato quanto fosse disorientante, e che molte strade finivano all’improvviso o si trasformavano in qualcos’altro. Mi ci volle un po’ per trovare il cinema, e cominciai a temere di arrivare in ritardo, che forse sarebbe stato pieno e non mi avrebbero fatto entrare e sarei stato costretto a tornare a casa il giorno seguente senza avere visto Sophie. Quando finalmente ci arrivai, la mia polo – non sapevo cosa indossare e mi ero cambiato tre volte – era fradicia di sudore. La ragazza dai capelli corti in biglietteria mi vendette un biglietto, ma non c’erano più posti a sedere e fui costretto a rimanere in piedi contro la parete in fondo. Era difficile stare in piedi sulla gamba finta e dovevo appoggiarmi un po’ al bastone, ma non esisteva che mi dirigessi verso i posti riservati ai disabili nelle prime file, dove tutti potevano vedermi.
Alla fine mi resi conto di essermi vestito nel modo sbagliato: tutti indossavano jeans attillati e T-shirt in stile hipster, perfino gli anziani. Cercai di pensare all’ultima volta in cui mi ero sentito fuori posto, ricordai il primo anno di università, quando ero andato al primo incontro del club di teatro di quel semestre, tanto per vedere com’era. Ero abituato a piacere alla gente, al fatto che si fidavano subito di me, ma il presidente del club, un tipo smilzo con i capelli sugli occhi, continuava a ripetere frasi del tipo: “Se siete tutti sicuri di voler essere qui”, e poi mi guardava dritto negli occhi. Non ci ero tornato più.
Per i primi venti minuti del film continuai a essere nervoso. Temevo che la mia gamba sinistra cedesse e continuavo a guardarmi intorno alla ricerca di appigli nel caso fosse successo. Non vidi niente: solo lo schienale dei posti a sedere. Non c’erano molti dialoghi all’inizio del film, solo molte scene di una bambina in ospedale che faceva operazioni alla mano. Le scene non erano esplicite, niente sangue, solo strumenti luccicanti che davano la sensazione del freddo, confezioni di garza che venivano aperte, coppe di gelatina su un vassoio. Tutto si muoveva lentamente. A un certo punto un clown andava all’ospedale e offriva un palloncino alla bambina e a un gruppo di altri ragazzini, ma la scena non era felice o divertente: era irreale e triste. Temevo che nel film ci fosse qualcosa che non riuscivo a capire. Temevo che lo capissero tutti tranne me.
Poi la bambina usciva dall’ospedale. Rimaneva in piedi sulla soglia della sua stanza da letto, grande e dall’aria vuota, con il letto fatto e i peluche allineati su uno scaffale. Poi eccola a una fermata d’autobus, con una gonnellina scozzese e calzini fino al ginocchio; carina, pensai, come le ragazze con cui ero andato alle superiori. Poi il tempo schizzava di nuovo in avanti, ed era adulta, e faceva il bagno a un neonato nel lavandino proprio come Lauren aveva fatto con Emma. Si vedevano bene le mani e per me era difficile guardarle, i mignoli curvi e puntati verso l’interno. Poi alle sue spalle arrivava un uomo che le sollevava i capelli sulla nuca e la baciava e lei accennava un sorriso, ma invece di chiudere gli occhi come farebbe una donna persa in quel momento dolcissimo con suo marito e il figlioletto, i suoi rimanevano spalancati, seri, come se aspettasse qualcosa. E fu lì che mi resi conto, anche se non capivo ancora di cosa parlasse veramente il film, che la donna si sentiva sola, terribilmente sola, perfino con le persone che l’amavano. E poi dimenticai tutto quello che sentivo e la osservai senza pensare, senza nemmeno sapere che stavo guardando qualcosa, fino alla fine, quando andò nella foresta ed era così bello, come una chiesa illuminata.
Il film finì. Si accesero le luci e il pubblico cominciò a scambiarsi pareri e fui di nuovo in imbarazzo, preoccupato all’idea che gli altri stessero facendo commenti intelligenti mentre io provavo solo una sensazione per la quale faticavo a trovare parole, una specie di sollievo. La mia gamba sinistra era quasi completamente spompata e dovevo appoggiarmi pesantemente al bastone per riposarla. Poi un uomo salì sul palcoscenico per presentare Sophie, ma io non ascoltai niente di quello che disse perché mi sudavano i palmi delle mani e il mio cuore batteva all’impazzata e allungavo il collo per cercare di vederla.
Era sempre la stessa. Gli abiti erano diversi; indossava un vestito grigio scuro a maniche lunghe che sembrava uscito da una delle riviste di moda di Lauren, ma perfino il modo in cui salì sul palco mi risultò familiare, e capii che il suo corpo sotto il vestito aveva lo stesso aspetto di quando eravamo insieme nella sua stanza. So che sembra stupido, ma non avevo pensato davvero a come l’avrei voluta ancora, come una volta. Non era stato così quando avevo guardato le foto sul suo sito web. E sì, mi ero sentito colpevole durante il viaggio in macchina – avevo dovuto spegnere il telefono per non vedere le chiamate e gli SMS di Lauren – ma non perché avrei visto una donna con cui volevo andare a letto. Mi ero sentito colpevole perché stavo facendo qualcosa di importante senza parlarne con Lauren e perché parte del motivo per cui era importante era che lei non avrebbe capito. Adesso mi sentivo colpevole per tutto. Pensai al marito di Sophie, il musicista con quella stupida barba, e per la prima volta fui davvero geloso di lui. Mi chiesi se lei lo amava veramente, e scoprii che speravo di no.
Quando cominciò a rispondere alle domande mi resi conto che in effetti c’era qualcosa di diverso in lei. Sembrava più educata, più adulta, ma anche stanca e nervosa. Non era mai stata così quando la conoscevo io, mi era sempre piaciuto il fatto che dicesse quello che voleva senza preoccuparsi dell’effetto che faceva. Era anche irrequieta, continuava a grattarsi il braccio attraverso la stoffa del vestito. Qualcuno le chiese quale fosse il suo film recente preferito e lei rispose Aero-Man, cosa che trovai divertente perché non avrei detto che fosse una patita di supereroi.
“Il modo in cui Veronica Dias interpreta la Paracadutista,” spiegò. “Si penserebbe che sia davvero una dura, e lo è, ma ha anche l’aria tanto triste. Come se ci si sentisse soli a essere supereroi.”
Il pubblico scoppiò a ridere. Fui orgoglioso di lei in quel momento; forse sapeva come lavorarsi il pubblico, dopotutto.
Poi una donna chiese: “È vero che il film si basa sulla madre di suo marito?”.
Sophie si guardò alle spalle come aspettandosi che qualcun altro si facesse avanti per rispondere alla domanda. Quando nessuno si presentò, rispose: “In gran parte, sì”.
“Ha lavorato con lei al copione?” chiese la stessa donna.
“No,” rispose Sophie. “L’ho scritto da sola.”
“E lui come ha preso il film?” chiese un uomo con uno strano cappello nero d’altri tempi.
Perfino dal fondo dove mi trovavo la vidi cambiare espressione, sembrava spaventata e sconvolta come quando avevamo parlato quell’ultima volta, tredici anni prima. Avrei voluto dire al tizio con il cappello di chiudere la sua boccaccia, ma volevo anche sentire cos’avrebbe risposto lei. Sophie tacque per un minuto, si grattò il braccio e guardò da una parte all’altra del cinema. Alla fine disse: “Suppongo che non si possa veramente sapere come una persona prende qualcosa del genere, non le pare? Insomma, glielo si può chiedere, ma potrebbe non dirlo. O potrebbe dire una cosa e poi cambiare idea, ma a quel punto è troppo tardi per farci qualcosa”.
Le mani scattavano in aria in tutta la sala.
“Marianne non era basato su Allison Mieskowski?”
Sophie abbassò la testa per attimo. “Di questo non vorrei parlare senza Allison presente.”
“Si sente mai colpevole di usare le persone che fanno parte della sua vita come materiale?”
Anche questa domanda la fece un uomo. Mi drizzai sulla gamba buona per vederlo meglio: secco secco, una brutta barba a chiazze. Pensai di trascinarlo fuori e di riempirlo di botte. Non picchiavo nessuno dalla terza media, ma pensai di dargli un pugno in faccia. In quel momento Sophie sembrava così debole e piccola; aveva l’aria di aver bisogno di qualcuno che la sostenesse. Abbassò di nuovo la testa, ed ebbi paura che si mettesse a piangere. Quando sollevò di nuovo il viso, era diverso, più duro.
“Non capisco nessuna delle parole di questa frase. ‘Colpevole’ so cosa significa, ma non ne capisco il senso. E ‘usare’… la gente adopera questo verbo come se fosse una cosa terribile, ma è solo quando trasformi una cosa in qualcos’altro, e lo facciamo tutti i giorni. Quanto a ‘materiale’… è come dire che esiste una cosa ben definita dalla quale ricavi film, come se fosse creta o qualcosa del genere, lasciando fuori tutto il resto. Forse c’è gente che fa film in questo modo, ma i loro film fanno cacare.”
Adesso tutti parlavano, tutti avevano la mano alzata, qualcuno gridava domande, ma non volevo che Sophie fosse costretta a rispondere nemmeno a una. Ero fiero di lei, e pensai che avesse bisogno di uno stacco da quelle persone che non la conoscevano. Alzai la mano. Non capii se mi riconobbe, ma ero alto e in fondo e quindi mi indicò, e di nuovo provai quel senso di sollievo, come se finalmente fossi presente in sala.
“Di solito non mi commuovo molto con i film,” cominciai. La mia voce risuonò altissima in sala. Avevo paura di fare la figura dello stupido, quindi parlai a macchinetta. “Ma quando guardo i suoi film provo sentimenti davvero profondi. Mi stavo solo chiedendo come ci riesce.”
Sophie annuì. Non sorrise, ma mi rivolse quello sguardo franco e serio che ricordavo. Sentii i battiti fortissimi del mio cuore.
“Per me, quando il pubblico guarda i miei film, è qualcosa di simile a una traduzione. Metto insieme le immagini, e quando la gente le vede a volte vengono tradotte in un sentimento. Poi me ne parlano, e io imparo qualcosa di più su di loro, e anche sul film. Ma devo cominciare con le riprese e le scene e lasciare che le emozioni arrivino se possono. Non le capisco abbastanza bene da pianificarle.”
Non ero completamente soddisfatto quando smise di parlare, non credevo davvero che non capisse i sentimenti altrui, anche se aveva detto la stessa cosa a me quando avevamo vent’anni. Sembrava troppo il genere di cosa che avrei detto a una ragazza qualunque all’università quando voleva sapere perché non l’avevo chiamata. Ma sapevo che avremmo potuto approfondire l’argomento, avevo le ascelle zuppe di sudore al pensiero che di lì a poco sarei stato seduto di fronte a lei.
“Il tempo a nostra disposizione è finito, temo,” annunciò l’uomo che l’aveva presentata; e a quel punto cominciai a farmi avanti verso le prime file. Lì c’era già un gruppo di giornalisti, che facevano altre domande a Sophie. Era di nuovo stanca. Mi venne l’ansia mentre aspettavo, poi la vidi girarsi come se stesse per scendere dal palco e allontanarsi da me. Fui colto dal panico.
“Sophie!” chiamai a gran voce.
Tutti i reporter mi guardarono come fossi pazzo, e Sophie si girò tutta sconvolta, come se le avessi dato uno schiaffo.
“Sono Daniel,” dissi. Avevo la faccia in fiamme. “Dovevamo prendere un caffè.”
Per un attimo sembrò sbalordita, poi di nuovo stanca.
“È vero,” disse. “Okay.”
Uscimmo insieme, senza toccarci o parlare. Non ci eravamo abbracciati. Mi resi conto di non aver mai camminato al suo fianco. Camminava veloce, a testa bassa contro il vento. Aveva uno di quei cappotti costosi che non sembrano molto caldi. Dovetti faticare per tenere il passo, ma mi piacque che non disse niente del bastone. Trovammo un caffè e lei entrò senza dirmi nulla. La seguii.
Prendemmo entrambi un caffè e lei versò metà del suo e riempì di nuovo il bicchiere con latte e zucchero. Quando ci sedemmo lo strinse tra le mani. Erano secche e screpolate, con le unghie mangiucchiate. Mi guardò da sopra il coperchio del bicchiere di carta.
“Quando mi conoscevi,” chiese, “pensavi che mi sarei mai sposata?”
Ero così impreparato alla domanda che riuscii solo a dire: “Cosa?”.
Continuava a fissarmi. “Pensavi che mi sarei mai sposata?”
Ci riflettei su. Quando volevo che fosse la mia ragazza avevo fantasticato sognando di accompagnarla a lezione, di portarla a una cena romantica in centro, elegantissima al mio fianco. Avevo pensato, per qualche motivo, di andare con lei in una capanna di legno nella foresta, e di tenerla per la vita mentre lei guardava fuori della finestra. Ma non avevo mai pensato di sposarla, ed era vero che quando tornai con la mente a com’era allora, al fatto che non mi chiamava mai e non voleva di più da me, e a quant’era stato facile per lei andarsene, fui sorpreso all’idea che fosse stata capace di condividere la sua vita con un’altra persona.
“Suppongo di no,” risposi. “Sembravi abbastanza indipendente.”
Annuì, in fretta e brusca, come faceva Emma qualche volta quando azzeccavo la risposta giusta a un indovinello.
“Non lo pensavo neanch’io. Non ho mai pensato che mi sarei sposata. E adesso eccomi qui. Sono sposata da tre anni.”
Volevo che mi raccontasse che qualcosa non andava nel suo matrimonio, ero elettrizzato al pensiero che io potessi essere la persona a cui rivelava quel segreto, qualcosa che doveva tenere nascosto a tutti i giornalisti e ai critici e agli stronzi con cappelli idioti che volevano sapere cose di lei e della sua vita. Mi protesi verso di lei. Riuscivo a sentirne l’odore, mi ricordò il suo letto caotico e la prima volta in cui eravamo rimasti lì stesi e l’ultima, quando mi aveva inchiodato come se fossi una nullità e io gliel’avevo permesso, o avevo finto di permetterglielo. Era piccolina, ma più tempo passavamo insieme più forte diventava.
“Ti piace essere sposata?” le chiesi.
“E a te?” ribatté.
Quella domanda fu come una doccia fredda. Mi ritrassi lontano da lei. Avevo cercato di non pensare a Lauren. Ma la verità era che a me essere sposato piaceva davvero. L’idea mi aveva spaventato per tutte le solite ragioni: temevo che mi sarebbe mancata la sensazione di essere a letto con una nuova ragazza, l’eccitazione provocata dal desiderio di quella sconosciuta. Invece mi piaceva sapere chi sarebbe stato a letto accanto a me, quello che lei pensava di me, come farla ridere. Una volta avvertivo una specie di crampo alla nuca nei locali all’università, mentre guardavo tutte le ragazze e mi chiedevo quale di loro avrebbe voluto tornare a casa con me, e una mattina, poche settimane prima della nascita di Emma, mi resi conto che non lo provavo da anni. Non c’era dubbio che il matrimonio – cioè Lauren, il suo viso e la sua voce e il modo in cui sospirava quando era arrabbiata ma mi lasciava intendere che tutto si sarebbe sistemato – mi facesse bene, e saperlo mi diede un senso di nausea perché ero seduto in un caffè con una donna che avevo amato più di dieci anni prima, con la quale volevo parlare di cose che non potevo rivelare a mia moglie. Non mi alzai però.
“Sì,” risposi. “Mi piace moltissimo.”
Annuì. Non capii se era delusa. Volevo pensasse che avevamo delle cose in comune.
“Beh, insomma, a volte è davvero difficile…” attaccai, ma lei mi interruppe.
“Ha senso. Che tu saresti stato bravo a essere sposato. Ma io sono proprio negata.”
Pensai a quello che mi aveva detto sull’amore all’università e a tutte le cose che avevo letto o le avevo sentito dire sui sentimenti da allora. Mi eccitai: potevo aiutarla. Aveva un problema, e visto che la conoscevo da tanto tempo e la seguivo così da vicino, ero in grado di risolverlo.
“Non credo che tu sia negata,” dissi. “Credo solo che tu sia diversa dagli altri. Gli altri parlano dei propri sentimenti, ma tu li mostri con i tuoi film. E forse così è ancora meglio.”
Stava scuotendo la testa, ma continuai.
“Ci ho pensato su. C’è gente, gente normale come me, che gioca secondo le regole. Ci comportiamo in un certo modo, diciamo quello che ci si aspetta che diciamo. Ma se fossero tutti così, il mondo sarebbe un posto abbastanza noioso. Ecco perché ci sono persone come te, che movimentano un po’ le cose. E forse non è sempre facile per le persone che ti stanno accanto, ma nel complesso migliori il mondo per tutti.”
Continuava a scuotere la testa. Adesso stava anche sorridendo, ma con tristezza.
“Lo pensavo anch’io una volta,” disse. “Pensavo di essere speciale e che per questo sembrava che mandassi sempre tutto affanculo. Ma adesso so che è solo perché non sono una persona molto buona.”
Quando lo disse quasi mi misi a singhiozzare. Per la prima volta ammisi con me stesso quello che pensavo da mesi: contavo sul fatto che potesse farmi stare meglio. E adesso sapevo che lei si sentiva esattamente come me, forse peggio.
“È una cosa terribile da dire di te stessa,” le dissi.
Scrollò le spalle. “Chiamo le cose con il loro nome,” rispose. La frase suonò strana, come se l’avesse imparata dalla tv. Aveva un’aria disperatamente infelice, ma non piangeva. Aveva l’aspetto di chi ha pianto tutte le sue lacrime e non riesce comunque a stare meglio.
“Secondo me sei una persona fantastica,” dissi.
Aggrottò le sopracciglia. “Davvero?” chiese. La sua voce era quasi cattiva. “Quali prove potresti mai avere per affermarlo? Cos’ho mai fatto per te?”
Volevo dirle che pensavo che forse mi conosceva meglio di chiunque altro. Ma sapevo che non sarebbe stato abbastanza. Avevo bisogno di qualcosa di specifico. E poi pensai a un giorno particolare.
Era ottobre, dopo che Sophie aveva cominciato a filmarmi ma prima che ci mettessimo insieme. La settimana precedente mi ero fatto male al ginocchio, era solo una fitta, ma il legamento crociato anteriore stava cominciando a cedere; nella stagione successiva si sarebbe rotto completamente e sarei stato costretto ad abbandonare per sempre la pallacanestro. Questo ancora non lo sapevo, ma ero comunque agitato per il ginocchio; non ero abituato a qualcosa che non funzionasse bene nel mio corpo. Oltretutto CeCe si stava comportando in modo strano, si aggrappava a me quando cercavo di alzarmi dal letto la mattina, e continuava a parlare delle sue amiche che si stavano fidanzando. Eravamo nel bel mezzo di un’estate indiana, le giornate erano ventose e calde. E di notte la luna era enorme e aranciata. Mi sentivo prudere i vestiti addosso, sentivo che stava per succedere qualcosa, e non sapevo se fosse una cosa positiva o negativa.
Un giorno ebbi la sensazione di dover assolutamente uscire fuori. Non avevamo allenamento, sarei dovuto andare in palestra a sollevare pesi, ma ero troppo irrequieto per starmene seduto. Invece andai al parco. Era metà pomeriggio di un giorno feriale, e in giro non c’era nessuno.
Quando ero bambino avevo un modo di sfogarmi che mi piaceva molto. Andavo nel campo dietro casa, giù in fondo fino a quando s’incontrava con gli alberi, dove nessuno mi poteva vedere, e giravo su me stesso più velocemente che potevo. Giravo fino a quando non riuscivo più a stare in piedi, poi cadevo a terra e la sentivo beccheggiare e rollare sotto di me come una nave. Poi mi alzavo e rifacevo tutto da capo. Alla fine tornavo in casa tutto rosso in faccia e sudato, e se qualcuno mi chiedeva cos’avevo combinato dicevo solo: “Stavo giocando”. Il gioco era una specie di versione purificata della pallacanestro, movimento puro per la gioia di farlo.
La verità era che quando cominciai l’università non avevo del tutto smesso di fare quel gioco. Non ne avevo mai parlato con nessuno, ovviamente, ma qualche volta quando il parco era deserto mi mettevo ancora a giocare. Così quel giorno, quando trovai il parco deserto e coperto di foglie secche, cominciai a piroettare. Tutti i colori sul marrone e sul rosso di ottobre si trasformarono in strisce, e quando mi lasciai cadere il terreno mi schizzò incontro come una creatura vivente. Era passato così tanto tempo da quando mi ero sentito semplicemente felice che avevo dimenticato quella sensazione; anche da ubriaco non ero mai così rilassato ed eccitato al tempo stesso. A un certo punto cominciai praticamente a gridare, non parole, ma suoni che si accumularono dentro di me fino a quando non riuscii più a trattenerli. Avevo smesso di piroettare e stavo solo urlando, e forse saltavo agitando un po’ le braccia, quando vidi qualcosa muoversi tra gli alberi, vicino alle altalene. Era Sophie, con la sua videocamera.
Mi lanciai contro di lei come un cane.
“Cosa cazzo credi di fare?” le urlai. “Perché non mi lasci in pace?”
Finalmente l’aria si stava rinfrescando e lei indossava solo una leggera giacchetta autunnale. Tremava un po’. Mi parve così piccola; non mi ero reso conto di quanto fosse minuta.
“Scusa,” disse con quella sua voce priva di espressione. “Sembravi davvero felice.”
La tensione abbandonò i miei muscoli, allentai i pugni e mi parve ridicolo essere arrabbiato in quella bella giornata – l’ultima che avremmo avuto per mesi – perché qualcuno aveva pensato che la mia felicità fosse abbastanza importante da essere filmata.
Sophie sorrise quando finii quella storia.
“Me lo ricordo,” disse. “Eri così arrabbiato, e non capivo. Ero piuttosto ottusa allora.”
“No,” dissi io, “ti sono grato.”
“Perché dovresti essermi grato?”
Sapevo che era il momento giusto per farle la mia domanda. Lo progettavo da così tanto, ma in quel momento tutto sembrava difficile da spiegare.
“Perché ti piacevo?” le chiesi invece.
“Cosa vuoi dire?”
“Forse ho fatto qualcosa di terribile,” spiegai. “Nell’incidente. Potrei avere…” La voce mi morì in gola, cercai di ricominciare. “Ricordi la storia che ti avevo raccontato, di quando ho avuto la meningite?”
Sophie annuì.
“Adesso mi sento sempre così,” dissi. “Come se non valga la pena di vivere. Da quando sono stato costretto a smettere di giocare. Forse non è una sensazione così forte, forse non è pianificata in quel modo, ma è sempre con me.”
Sophie annuì ancora. Fui contento che non disse che le dispiaceva o che avrei dovuto cercare aiuto, o qualsiasi cosa avrebbe detto una persona normale.
“Non sono intelligente, non sono interessante. L’unica cosa buona che avevo in me era la pallacanestro, e non credo che quella ti interessasse in modo particolare. Quindi voglio sapere cos’altro c’è, perché ormai non rimane altro.”
Sophie posò il bicchiere e mi guardò come faceva una volta, quello sguardo nudo, diretto, poi tese la mano e posò il palmo sulla mia guancia. In quel momento sentii fortissimo l’odore della sua pelle, penetrante e speziato, ma non mi eccitai sessualmente. Sapevo com’era essere toccato da lei in modo sensuale, e non si trattava di questo. Ma non era nemmeno un tocco materno. Più di qualsiasi altra cosa mi ricordò il vecchio film su Helen Keller, Anna dei miracoli, quando l’infermiera le scriveva le lettere sulla guancia. Sophie non scrisse nulla, ma sentii che stava cercando di dirmi qualcosa di consolante. E in effetti mi sentii consolato, forse più che se avesse cercato di parlare.
Dopo molto tempo ritrasse la mano. Controllò l’orologio: era grande, sembrava di poco prezzo e non era della sua misura, al contrario di tutte le altre cose eleganti che indossava.
“Cazzo,” disse. “Devo concedere un’intervista radiofonica.”
“Mi dispiace,” dissi. “Vuoi che venga con te?”
“Non c’è problema,” rifiutò. “Non sarà niente di che. So già che a questo tizio il film piace.”
“Bene,” risposi. “Dovrebbe piacergli, è meraviglioso.”
“Grazie. Sembra che il film piaccia alla maggior parte della gente, in realtà. Questo rende tutto quasi più difficile.”
E prima che potessi chiederle cosa intendesse dire con quel “più difficile” si era alzata, aveva gettato via il bicchiere vuoto e si stava abbottonando il cappotto costoso.
Avrei voluto dire qualcosa a proposito di quanto lei significasse per me, che desideravo tanto rivederla, ma lei mi prese la mano, la strinse con fermezza e disse: “Ti manderò un’email,” e uscì in strada.
Le due, tre settimane successive trascorsero in una specie di nebbia. Sia Lauren sia il mio psicologo mi chiesero se mi sentissi peggio; lo psicologo arrivò a dire che avrei dovuto pensare di prendere medicinali. Ma non stavo peggio. Era vero che non ero riuscito a fare a Sophie nessuna delle domande che volevo farle, ed ero deluso per questo. Ma più di qualsiasi altra cosa avevo bisogno di silenzio, come quando si va fuori per la prima volta in un giorno d’inverno e si lascia che il freddo cominci a svegliarci. Io e Lauren andammo al saggio di danza di Emma e anche se mi ero annoiato e innervosito a ogni saggio a cui fossi mai stato, questa volta mi limitai a guardare. Andai di nuovo alla cava, ma non mi fermai. Continuai a guidare nel cuore della campagna per guardare tutte le vecchie case e le donne in giardino che piantavano bulbi nella terra dopo il disgelo e i cani meticci, e quando fu troppo buio per vedere qualcosa rientrai a casa.
Una settimana dopo essere tornato da Chicago avevo ricevuto un’email di Sophie. L’oggetto diceva “Ho pensato che questo potesse piacerti”, e non c’erano parole nel corpo del messaggio, ma aveva allegato un video. Aspettai che Lauren si fosse addormentata per guardarlo, ed eccomi sullo schermo a piroettare senza posa. Il video tremolava; forse a quell’epoca Sophie stava ancora imparando. Ma continuava a zoomare sul mio viso, come se fosse quella la parte importante. Piroettavo così in fretta all’inizio che l’immagine era confusa, ma quando rallentai, subito prima che mi scagliassi contro di lei, era riuscita a fare una bella inquadratura, chiara, ed eccomi lì, rosso in viso e pazzo di gioia. Misi il video in pausa e guardai a lungo il mio viso. Capii come qualcuno avrebbe potuto amarmi in quel momento, e non sapevo se avrei mai più potuto avere quell’espressione, ma pensai che potevo provarci. “Grazie,” risposi, poi spensi il computer e andai a letto.