Allison

I mesi subito prima che Sophie tornasse da me furono tra i più felici della mia vita. Dopo Marianne venni contattata da altri giovani registi, ma non volevo più fare film. Non mi piaceva la sensazione che qualcun altro mi comandasse. Almeno sul palcoscenico quello che facevo era quello che vedevano; niente tagli, niente trucchi, niente sorprese. Quell’estate avevo una parte in una commedia alternativa su una famiglia in cui il padre era un asino. Pensavo che la commedia in sé fosse piuttosto sciocca, ma mi piaceva la mia parte, interpretavo la cattiva, avida sorella minore, e mi piaceva che il regista e gli altri attori mi rispettassero e mi trattassero come un’attrice vera. Eravamo amici e uscivamo insieme dopo lo spettacolo. Di giorno lavoravo in un caffè di Chelsea che era pulito e non troppo affollato, e il mio capo mi pagava con puntualità e non cercava mai di toccarmi il culo. Vivevo a Prospect Heights con il mio ragazzo, Abe, che era gentile e divertente e che amavo, ma non abbastanza da tenermi sveglia la notte o da lasciarmi senza fiato per il troppo desiderio. La sera in cui Sophie ricomparve, lui e io stavamo guardando Incontri ravvicinati del terzo tipo, e lui mi stava massaggiando i piedi. Era autunno e pioveva forte, e me la ritrovai in piedi sulla soglia di casa mia bagnata fradicia, senza ombrello, con addosso un brutto vestitino che aveva l’aria di costare un sacco di soldi. Avrei potuto darle un pugno.

“Mi dispiace di essere venuta qui,” disse.

“Perché ti dispiace?” ribattei. Rivederla mi toglieva ancora il fiato, anche se erano passati più di tre anni. “Non ho mai detto che non volevo vederti.”

In effetti avevo cercato di contattarla molte volte, avevo telefonato e mandato email. Non ero riuscita a congratularmi con lei per Marianne, ma le avevo scritto una lunga email quando era uscito Nella foresta. Non aveva mai risposto. Avevo dato per scontato che fosse arrabbiata con me, e mi ero arrabbiata con lei perché era arrabbiata.

“Lo so,” rispose. “Mi dispiace di non averti ricontattata tutte quelle volte, e adesso ti sto parlando perché ho bisogno di farlo.”

“Okay,” dissi. “Entra, Cristo.”

Fui sorpresa che fosse riuscita ad arrivare da qualche parte con quella pioggia battente, aveva sempre odiato l’acqua. All’inizio l’aveva fatta sembrare una cosa misteriosa ed esistenziale, ma in seguito mi aveva raccontato che una volta i bambini più grandi le avevano tenuto la testa sott’acqua in piscina, ed era quasi annegata. Era facile a volte dimenticare che Sophie non era sempre stata Sophie, che era stata solo una bambina stramba, vittima degli scherzi degli altri bambini.

In quel momento stava gocciolando sulla moquette del salotto. Abe la fissò, e quando li presentai ebbi una terribile sensazione di orrore. Lei fece la cosa che faceva sempre quando le presentavano gente di cui non le importava: li trapassava con lo sguardo come se nel suo universo non esistessero. Pensai a come mi sarei scusata per lei in seguito. Dissi a me stessa che io e Abe saremmo stati a letto insieme e avremmo riso di quanto fosse pazza. L’accompagnai in bagno, dove si sfilò immediatamente il vestito. Non indossava biancheria intima.

“Cristo,” ripetei. La chiusi in bagno e rimasi in piedi fuori, cercando di comportarmi come se non stessi ricordando tutte le singole volte che avevamo scopato, tutte le volte che mi aveva buttata sul letto o tenuto fermi i polsi e inchiodata al letto con tanta forza da farmi pensare che il suo piccolo corpo dovesse essere fatto di acciaio, e che non stessi anche provando un sentimento protettivo che non avevo mai provato prima, come se mi volessi avvolgere intorno a lei e asciugarla con la mia pelle.

“Cosa c’è?” chiese Sophie dal bagno. Non risposi nemmeno. Dopo un po’ forse lo capì da sola, perché disse: “Okay, adesso sono vestita”.

Avevo paura che Abe potesse aver sentito, quindi lo guardai alzando gli occhi al cielo come se stessi pensando: Chissà cosa cazzo passa per la testa di questa ragazza? Ma lui parve solo confuso. Tornai in bagno.

Sophie era seduta sul bordo della vasca. Nuotava nei miei pantaloni di felpa e nella vecchia T-shirt di Abe con su scritto VIRGINIA. Si stava guardando i piedi.

“Dicono che si può capire come stai di salute guardando le unghie dei piedi, hai presente?” disse. “Secondo me le unghie dei miei piedi significano che non sto bene.”

“Non l’ho mai sentito dire,” ribattei. “Stai bene? Ti stai drogando?”

Mi odiai. Sembravo una di quelle madri di periferia che avevo solo visto in tv. Sophie mi sorrise. Avevo dimenticato quanto piccoli e perfetti fossero i suoi denti, quanto fossero aguzzi i canini.

“Non prendo droghe,” rispose. “Ho solo bisogno di aiuto.”

Abbassai il coperchio del WC e mi ci sedetti sopra. “Aiuto per cosa?”

“Devo fare questo film, e non ci riesco.”

“Che film?”

Si coprì il viso con le mani, si cacciò le dita tra i capelli bagnati. “Dio, è così orrendo. Non voglio nemmeno parlartene.”

Mi limitai ad aspettare. Alla fine rialzò la testa.

“Okay,” attaccò, “tanto per cominciare non l’ho scritto io. In secondo luogo è un film in costume. In terzo luogo, è ambientato in Spagna.”

Mi misi a ridere. Immaginai Sophie che cercava di dirigere un gruppo di toreri e di donne in costume da flamenco.

“Di cosa si tratta?” chiesi. “Com’è la storia?”

Alzò gli occhi al cielo. “È sulla regina Isabella. Hai presente? Quella di Colombo. Una tizia che porta collane enormi e sorride troppo ha scritto un libro su di lei, e adesso vogliono che faccia un film.”

Aveva lo stesso tono di un’adolescente furiosa, e nei miei abiti troppo ampi ne aveva anche l’aspetto. Non mi fece molta compassione. Un sacco di gente sarebbe stata strafelice di avere qualcuno che la supplicava di girare film.

“Perché lo stai facendo?” le chiesi.

Di fronte a quella domanda la sua espressione cambiò, e ricordai che in effetti non era più un’adolescente. Sembrava più vecchia dall’ultima volta che l’avevo vista; intorno ai suoi occhi cominciava a comparire qualche ruga. Per un istante ebbi un flash di come sarebbe stata da vecchia, vecchissima, con luminosi capelli bianchi e dita nodose.

“Ho pensato che le cose che scrivo non fanno che mettermi nei casini,” spiegò. “Poi mi è arrivato questo copione. Non era bello, ma Isabella mi piaceva. Riuscivo a vedere come l’avrei voluta. Pensavo che sarebbe bastato e che il resto mi sarebbe venuto. Ho pensato che sarebbe stato come un progetto, fare qualcosa con cui non ero altrettanto in sintonia.”

“E non è abbastanza?” chiesi.

“Non mi viene nient’altro. Sì, beh, ho un cast, ho gli esterni, ma niente di tutto questo mi esalta, e mi rendo conto che non sarà un bel film.”

Mi limitai ad aspettare. Se voleva aiuto l’avrei costretta a chiedermelo.

“Voglio che tu reciti nel film. Penso che se ci fossi tu, forse me ne importerebbe.”

“Vuoi che faccia Isabella?”

“Lo volevo,” rispose, “ma questa volta lavoro con una casa di produzione. Non grande, ma comunque non ti danno i soldi se non c’è una star. Quindi sarà Veronica Dias a interpretare Isabella. Ma voglio che tu sia la sua ancella, Beatriz.”

Pensai ai film che avevo visto dove la regina ha un’ancella. Di solito si limita a ridacchiare, sospirare, dire i nomi delle persone, infilare scarpe ai piedi della regina.

“Perché dovrei avere voglia di farlo?” le chiesi.

“Possiamo pagarti ventimila dollari,” rispose. “E, oltretutto, ho bisogno di te.”

Sophie capiva molto di più della gente e di come rigirarsela di quanto desse a intendere. Credo sapesse che l’amavo ancora e che sarei stata lusingata all’idea che avesse bisogno di me. Penso che nel momento in cui aprii la porta seppe di avermi in pugno. Lo pensai perfino allora. E nel corso degli anni avevo parlato molto di come Sophie fosse una persona che mi faceva male. Solo la settimana precedente, dopo un paio di birre, avevo detto agli altri membri del cast che pensavo fosse troppo egocentrica per amare mai veramente qualcuno. Adesso però, quando ripenso a quella sera, ricordo qualcosa che il mio patrigno disse una volta, quando mia madre lo coprì di improperi perché aveva lasciato gli Alcolisti Anonimi. Le mormorò solo poche parole con una voce tristissima: “A volte la parte malata di me sembra quella più vera”.

E se era una parte malata di me che voleva fare qualsiasi cosa Sophie chiedesse, allora pensai che forse era anche la parte più vera. Oltretutto, non riuscivo a smettere di guardare i suoi polsi, quelle piccole ossa delicate.

“Okay,” accettai. “Lo farò.”

“Grazie,” mi rispose, e fu più dolce di qualsiasi altro grazie avessi mai ricevuto.

Subito dopo aggiunse: “E poi mi serve anche un posto dove stare”.

Beatriz non era un brutto ruolo. In una scena serve carne avariata al brutto e crudele Alfonso V per farlo star male e sabotare il piano di dargli in sposa Isabella. In un’altra scena spiega il sesso a Isabella prima dell’incontro segreto di quest’ultima con Ferdinando; si scopre che Beatriz è l’amante di un nobiluomo. Oltretutto era eccitante lavorare in un film così importante. Avevamo fatto Marianne quasi senza soldi, e adesso c’era un’assistente personale che ti portava un panino se lo chiedevi, e cinque tizi solo a occuparsi delle luci. Per il palazzo dove Isabella vive da adolescente usavamo una vecchia chiesa ortodossa a Bay Bridge; in precedenza non mi era mai importato granché di vecchi edifici, ma mi piaceva camminare su e giù tra le panche quando non dovevo girare una scena, toccando il legno scuro e pensando ai fantasmi. Sapevo che in realtà tutte le persone che avevano pregato e si erano sposate ed erano state battezzate e seppellite in quel luogo erano normale gente di Brooklyn che lavorava in negozi e uffici, ma continuavo a pensare ad altezze reali sedute su quelle panche, cariche di gioielli e con pugnali nascosti negli abiti. Cominciai a sentirmi parte di una storia misteriosa ed eccitante.

Credo lo sentisse anche Sophie. Nessuno avrebbe mai indovinato che fosse nervosa per il film: il primo giorno arrivò sul set con una spavalderia che non avevo mai visto. Indossava pantaloni da uomo, stivali e rossetto rosso, e tutti la guardarono in un modo che mi avrebbe ingelosito se non mi avesse presa da parte almeno una volta al giorno per dirmi: “Non potrei farlo senza di te”. Come potevo non sentirmi lusingata? Sul set di Marianne era stata in gamba, ma anche strana e distante e irrequieta, come un robot che non funziona molto bene. Ma era maturata da allora: adesso sapeva comportarsi con garbo. Prese Ferdinando da parte e gli insegnò a muovere la testa come un re; scherzava con i tecnici delle luci; urlava: “Perfetto!” e a tutti sembrava di esserlo.

“Scosta i capelli dalle spalle,” mi disse mentre mi avvicinavo al trono. “Voglio vederti il collo.”

Sapevo che tutti nella chiesa avvertivano la tensione erotica tra noi, ed ero imbarazzata ma anche orgogliosa. Ma al centro dell’attenzione c’era sempre Veronica. Era la persona con cui Sophie parlava di più, per dirle come stare in piedi e come camminare e spiegarle l’espressione del viso di Isabella quando era seduta sul trono per la prima volta. Sapevo che Veronica non era il tipo di Sophie – troppo magra e nervosa, più bella che sexy – ma notai comunque quanta parte dell’attenzione di Sophie accentrava su di sé, con quanta frequenza Sophie le sfiorava il braccio per mostrarle come camminare. Quando guardavo quelle due era difficile credere che Sophie non fosse davvero in grado di girare il film senza di me.

A casa Abe trattava Sophie come un animaletto domestico. Quando non mangiò il pollo e gli asparagi che aveva cucinato per noi la prima sera che si fermò a casa nostra, cominciò a preparare le cose che le piacevano: pesche sciroppate, porridge con cannella e zucchero. Gliele serviva in una ciotolina con il bordo a fiori, e lei si sbafava tutto come una gatta affamata. Gli chiesi come faceva a sapere cosa darle da mangiare, e lui rispose che gliel’aveva chiesto, naturalmente. Mi chiesi quando avevano parlato senza che io sentissi. Mi resi conto che volevo che si odiassero, con tutta me stessa. Una volta lo beccai perfino a darle qualche colpetto affettuoso sulla testa dopo che lei si era occupata di una faccenduola da niente, e mi venne voglia di afferrarlo per il braccio e di dirgli di avere paura di lei. Non dissi niente. A letto di notte mi diceva quant’era contento del fatto che la potevamo aiutare, e che si sarebbe potuta fermare da noi quanto voleva.

Quando riuscii a trovarla da sola – in cucina che lavava i piatti, mentre Abe era uscito per fumare una sigaretta – le chiesi di suo marito.

“Non ha funzionato,” rispose. Era una di quelle frasi da persona normale che pensai avesse imparato a memoria dalla tv.

“Stai divorziando?” chiesi.

Non era capace di lavare i piatti. Fece per metterne via uno ancora incrostato di salsa di pomodoro, e glielo presi dalle mani.

“Non credo che voglia,” rispose.

“Tu lo vuoi?” le chiesi.

Scrollò le spalle. “Non mi importa. Però non voglio più vivere con lui.”

“Perché l’hai sposato?” chiesi.

Speravo mi dicesse che l’aveva fatto per i soldi, immagino, o perché pensava che fosse arrivato il momento di sposarsi, anche se nessuna di quelle ragioni collimava con la personalità di Sophie. Invece cominciò ad accanirsi contro una padella antiaderente armata di una paglietta in acciaio. Le presi la padella di mano perché non la rovinasse.

“Tu non avevi veramente bisogno di niente,” disse alla fine. “Pensavo mi avrebbe fatto bene stare con qualcuno che aveva bisogno di qualcosa da me.”

Avevo bisogno di te, avrei voluto urlare. Ma poi pensai: lasciamole credere che fossi forte. Lasciamole credere che non abbia preso tutte le pillole che potevo comprare o rubare l’anno dopo che me ne sono andata, sperando che una di esse cancellasse la persona che ero. Lasciamole pensare che non abbia dovuto scopare trenta diversi uomini orrendi per dimenticare il suo odore.

“Aveva bisogno di qualcuno che lo ascoltasse con molta attenzione,” proseguì, “e pensavo di poterlo fare.”

“E non ci sei riuscita?” chiesi.

“Beh, non l’ho fatto.”

Prese il coperchio di un barattolo che stavo per buttare via e lo lavò con la massima attenzione, come se fosse di porcellana costosa.

“O meglio, l’ho fatto e poi ho smesso,” rettificò. “Forse è peggio. Ho fatto un sacco di cose sbagliate.”

Ci scommetto, pensai, ma mi fece anche un po’ pena. Sapevo che non aveva chiesto di essere com’era. Pensai al mio patrigno, al fatto che tutte le volte che tornava da noi voleva riuscire a fare tutto per bene, a stare lontano dai guai e a essere un bravo papà. Però purtroppo non era proprio in grado di pensare al futuro o di tenere la bocca chiusa, e quelle caratteristiche l’avrebbero sempre fatto finire nella merda fino al collo, che volesse fare il bravo o no. E pensai anche a mia madre, che gli permetteva di continuare a tornare, anche se sapeva come tutti che lui non sarebbe mai cambiato.

“Sono sicura che non sia stata tutta colpa tua,” dissi.

“Sì invece.” Si fermò con le mani immerse nell’acqua unta, come se stesse facendo il bagno. “Sai, subito prima che me ne andassi, mi ha chiesto di smettere di girare film.”

“È terribile,” commentai. “Chi era per chiederti una cosa simile?”

“Beh, era mio marito. È ancora mio marito. Ed è possibile che abbia ragione. Forse sarei una persona migliore se non facessi film.”

Pensai a Peter che avvicinava di forza la sua faccia alla mia, e pensai che forse aveva ragione. Ma ero sopravvissuta a quell’episodio. Se ero riuscita a sopportare di lasciar fare a Sophie quello che amava, allora dovevano farlo anche tutte le altre persone che facevano parte della sua vita.

“Fare film è tutta la tua vita,” le dissi. Avevo letto quella frase da qualche parte e la trovavo stucchevole, ma mi venne in mente quella. “Chiunque ti ami dovrebbe capirlo.”

Scrollò le spalle. “Non ha molta importanza,” disse. “A questo punto se smettessi di fare film probabilmente morirei.”

In quel momento Abe rientrò insieme a una folata di aria fredda, odoroso di fumo, e lei tornò a essere la sua gattina.

Sul set il problema era Veronica. L’idea di conoscerla mi aveva spaventata un po’, perché era comparsa sulle copertine di tutte le riviste importanti, ma quando la vidi il primo giorno pensai solo: Oh. Era passato molto tempo dall’ultima volta che avevo vissuto con un membro della categoria, ma ero ancora in grado di riconoscere un alcolizzato all’istante. Andò tutto benino nelle prime scene che girammo, quando doveva solo avere un aspetto regale e incazzato; aveva quel modo da ubriacona di sollevare il mento e stringere gli occhi della serie, cosa avevamo tutti da guardare? Ma quando cercammo di girare la scena nella sua camera da letto – gli attrezzisti avevano appeso arazzi dall’aria costosa in una stanza sul retro della chiesa e vi avevano spinto dentro un lettone gigante munito di rotelle – andò completamente di fuori. Le nostre battute suonavano abbastanza moderne – la sceneggiatrice non voleva niente di barocco – ma lei non ce la fece comunque. Se la cavò benino nella parte iniziale della scena in cui Isabella parla a Beatriz del piano del suo avido fratellastro Enrico per darla in sposa a un ricco nobiluomo che rimpolperà il tesoro della Spagna. Beatriz all’inizio non si impietosisce molto, il tipo è ricco, dopotutto, e si prenderà cura di Isabella. Questa però spiega che non ha alcuna intenzione di farsi spedire in campagna per fare la moglie di qualcuno, che ha intenzione di sedere sul trono da regina quale è. Il discorso mi piaceva perché non parlava di libertà e di amore come quelli delle principesse Disney; era incentrato sul potere. Sapevo che io l’avrei azzeccato in pieno; mi esercitai qualche volta quando in giro non c’era nessuno, solo per vedere come suonava. Ma Veronica non riuscì a gestirlo.

“Non sono fatta per essere la moglie di un uomo ricco,” disse, poi si interruppe e mi fissò come se avessi le battute stampate in faccia. Tagliammo. Il segretario di edizione le mostrò la battuta e lei annuì e parve seccata, come se la sapesse benissimo. Ma la volta successiva arrivò esattamente allo stesso punto e si bloccò di nuovo. La terza volta arrivò a “Non ho intenzione di trasferirmi a Osuna per dare ordini alla servitù”, prima di fermarsi e di sollevare uno sguardo speranzoso su Sophie, come se ce l’avesse fatta. La quarta volta disse: “Non sono fatta per essere la moglie ricca di un uomo,” e invece di ridere parve che stesse per scoppiare in singhiozzi.

“Mi dispiace,” si scusò, “mi serve un momento.” Poi corse alla sua roulotte nel pesante, ingombrante costume da Isabella.

Sophie si stava grattando le braccia. Fece per seguire Veronica, ma aveva l’aria esausta.

“Lascia che le parli io,” proposi.

Sophie parve sollevata, ma un piccolo pensiero oscuro stava lievitando nel mio cervello.

Veronica disse: “Entra” con voce impastata, e quando aprii la porta nascose qualcosa dietro il minifrigo. La roulotte era piena di cianfrusaglie da bambina: un orsacchiotto rosa, il poster di un unicorno e un portagioie costellato di adesivi a forma di arcobaleno. Veronica accese una candela profumata, poi la usò per accendersi una sigaretta.

“Stai bene?” le chiesi.

“Certo,” rispose. “È una scena tosta, sai.”

“È un ruolo tosto,” aggiunsi.

Mi guardò come se mi fosse riconoscente. Si era tolta un po’ di trucco sotto gli occhi a forza di strofinarseli, e in quel punto la pelle era verdastra e lucida.

“Una volta era più facile,” disse.

Ricordai qualche anno prima, quando era comparsa nel suo primo film importante. L’avevano definita “la stellina per intellettuali”. Aveva studiato alla Columbia University, parlava tre lingue e suo padre era un diplomatico di qualche tipo; era così bella, piena di classe, intelligente e diceva sempre le cose giuste nelle interviste, come se avesse avuto il meglio di tutto nella vita ma sapesse come essere umile. Per forza ero gelosa di lei.

“Dev’essere davvero dura per te,” continuai. “Lo stress, l’attenzione.”

Si portò le ginocchia al petto. La sua ampia gonna si stava sgualcendo, ma non dissi nulla.

“Una volta mi sembrava di avere il controllo,” disse. “Uscivo di casa al mattino e pensavo: qualsiasi cosa desideri oggi, posso averla. Adesso non mi sembra nemmeno di avere il controllo del mio cervello.”

Allungò una mano dietro il frigo, ne estrasse una bottiglia di tè verde, bevve un lungo sorso e fece una smorfia.

“Ne vuoi un po’?” mi chiese.

Non ne volevo, ma accettai lo stesso. Dovevo darle l’impressione di essere dalla sua parte. La bottiglia conteneva metà tè e metà vodka. Il liquido era disgustoso, come benzina tiepida e amara. Quella per me era sempre stata una delle caratteristiche più tristi degli ubriaconi: le schifezze che erano pronti a ingurgitare. Un’estate il mio patrigno aveva smesso di bere birra ed era passato allo sciroppo per la tosse; quell’odore dolciastro nel calore appiccicoso mi faceva venire i conati di vomito tutte le volte che entravo in casa. Non gli si avvicinava nemmeno la mia sorellina più piccola.

“Hai il controllo,” dissi, “ma non per molto.”

Parve incazzata; posò la bottiglia. “Cosa vorresti dire con questo?”

“Non sono l’unica a sapere che hai un problema,” risposi.

Era un misto di verità e bugia. In realtà non avevo parlato né con Sophie né con nessun altro del fatto che Veronica beveva. Ma ero abbastanza sicura che se ne sarebbero accorti presto, se non l’avevano già capito. Veronica sembrò preoccupata, ma non convinta. Proseguii.

“Non lo dirò a nessuno,” promisi, “ma ci sono altre trenta persone che lavorano a questo film, e molte di loro in questo momento sono incazzate nere con te. È solo una questione di tempo prima che qualcuno parli con la stampa.”

“Scusa,” chiese, “mi stai minacciando?”

Cercava di sembrare fredda e indifferente, ma captai la paura nella sua voce. Non sarebbe mai stata in grado di interpretare Isabella, dissi a me stessa; non riusciva a imporsi nemmeno con me.

“Sto cercando di aiutarti,” dissi. “Senti, so che ce la farai. Hai solo bisogno di un paio di mesi per chiarirti le idee, poi starai bene.”

Era quello che ripeteva sempre il mio patrigno: aveva solo bisogno di un paio di mesi di calma totale, senza distrazioni, e avrebbe smesso di bere. Una volta lo scrisse perfino sul calendario: una grande X sul primo di ottobre. Ma poi ottobre arrivò, la mia sorellina più piccola prese la bronchite e fece tremare la casa con una tosse che sembrava l’abbaiare di un dingo, poi le dovettero fare le radiografie, il che significava che il mio patrigno fu costretto ad accettare un altro lavoro da imbianchino per trovare i soldi; i suoi Mesi di Calma dovettero essere posticipati. Non era arrabbiato per questo, si limitò a un’alzata di spalle e a dire che l’avrebbe fatto a dicembre, a gennaio, a giugno.

“Lo so,” disse Veronica. “Dopo questo film andrò a fare un ritiro di meditazione nel Vermont. Ci sono già stata in passato. Ti ripulisce tutta, dentro e fuori è come essere una persona nuova.”

“È fantastico,” commentai. “Dovresti farlo adesso.”

“Devo finire il film,” ribatté lei. Non sembrava né alterata né indignata; sembrava che stesse parlando di una ricerca scolastica.

“Se ti ritiri adesso,” consigliai, “sarà uno scoop per un giorno. Qualcuno si farà qualche domanda, e dovrai inventarti una spiegazione.”

“Più di qualcuno,” precisò. “Ho un contratto.”

In realtà non sapevo molto sulla vita delle attrici famose o su come funzionassero i loro contratti, ma pensai che non avesse importanza.

“Se resterai, qualcuno dirà a ‘US Weekly’ che sei un’ubriacona incapace di dire le sue battute. E questo farà notizia molto più a lungo, e potrebbe mandare a puttane la tua carriera per sempre.”

Non disse nulla, ma capii che avevo fatto centro. S’irrigidì tutta.

“Non ho bisogno di sentirmi dire queste cose da te proprio adesso,” disse infine. “Non sai nulla. Hai recitato in cosa, un film?”

“Fa’ come ti pare,” replicai, e la lasciai sola.

Veronica non se ne andò subito. Si trascinò sul set per qualche altro giorno ancora, storpiando le battute e facendo alzare gli occhi al cielo a tutta la troupe ogni volta che apriva bocca. Poi, quando qualcuno inserì di nascosto una bottiglia di vodka vuota nella scena del suo importante monologo su Ferdinando (non fu un’idea mia, però in effetti aiutai il macchinista a trovare la bottiglia), ci guardò tutti con una specie di orgoglio ferito, più regale di qualsiasi cosa ci avesse mostrato in precedenza, e si avviò a grandi passi verso la sua roulotte. Il giorno dopo il suo agente comunicò a Sophie che si sarebbe ritirata.

La cosa a cui non ero preparata fu come la prese Sophie. Si afflosciò nella mia poltrona come un uccello malato e disse con una voce sorda, vuota: “È finita. Il film è andato in fumo”.

“Non è vero,” dissi. “Troveremo un’altra Isabella.”

“Non capisci,” rispose. “Il finanziamento era vincolato alla presenza di Veronica. Adesso la casa di produzione si ritirerà, e non avremo più un soldo.”

A questo non avevo pensato. Quando avevamo girato Marianne avevamo semplicemente fatto tutto quello che Sophie voleva, e avevo pensato che adesso sarebbe stato lo stesso. In quel momento ricordai le roulotte e i tramezzini sui tavoli del catering e i cinque tecnici delle luci, e mi resi conto di quanto fossi stata stupida.

“Troveremo un’attrice anche migliore. Veronica era un disastro, lo sai. Riusciva a malapena a leggere le battute. Troveremo qualcuno che farà davvero colpo su quelli della casa di produzione.”

Sophie alzò la testa. Il suo viso era un disastro. Era la prima volta che la vedevo così, tutta la luce spenta nei suoi occhi.

“Chi, per esempio?” chiese.

Mandai Abe a prendere del gelato. Fu felice di andare; gli dispiaceva per Sophie. Non sapeva che era colpa mia.

“Me, per esempio,” risposi quando se ne fu andato. “Come volevi fin dall’inizio.”

Parve confusa, solo per un secondo, ma abbastanza perché capissi che mi aveva mentito. Non aveva mai voluto me per Isabella. Aveva sempre pensato a me come Beatriz, l’ancella.

“Mi piacerebbe moltissimo,” disse, con una voce così chiaramente falsa da diventare un insulto, “ma vorranno un nome famoso.”

Alcuni si limitano a togliere le tende quando qualcuno manca loro di rispetto. Non danno agli altri una seconda possibilità. Ma io sono sempre stata il tipo che tiene duro e cerca di fare capire all’altra persona dove ha sbagliato. Questo mi ha procurato parecchi casini.

Mi piazzai dritto davanti alla sua faccia. Lei sbatté le palpebre. Sperai che avesse paura di me.

“Chi credi che abbia reso Marianne un grande film?” dissi. “Credi di essere stata tu? Non era nemmeno una tua storia, tanto per cominciare.”

“Lo so,” rispose. La sua voce era ridotta a un sussurro. In seguito ci avrei ripensato e mi sarei resa conto che non l’avevo mai sentita così debole prima. Ma tirai dritto per la mia strada.

“Hai bisogno di me,” dichiarai, “e non per farti da ancella. Non per tenerti la manina, che cazzo. Hai bisogno che sia la protagonista di questo film, perché è l’unico modo per farlo funzionare.”

Non seppi fino a quel momento che lo credevo sul serio, ma era vero.

Sophie mi guardò, e il suo volto era esausto, come dopo che si è pianto e si vuole solo mettersi a letto da soli per un po’, ma aveva gli occhi completamente asciutti.

“Hai ragione,” disse, e poco dopo Abe rientrò con il gelato. Lo mangiammo e guardammo The Blair Witch Project; non ero affatto sicura di aver vinto.

La mattina dopo, sul binario della metropolitana, mentre aspettavamo il treno che ci avrebbe portate alla riunione di Sophie con il produttore, nei suoi occhi apparve un lampo, come fosse un animale a caccia. Guardavo verso il tunnel per vedere la prima luce del treno, e Sophie mi spinse contro la parete sporca sotto gli occhi di tutti, mi premette la bocca con la bocca, mi mise le mani sotto la camicetta. Avrei dovuto darle un pugno; sapeva cosa significava per me essere ghermita in quel modo. Ma non mi bloccò le braccia, avrei potuto respingerla. Invece le misi una mano tra i capelli e l’attrassi più vicina a me. Cosa posso dire, a parte il suo odore, il sapore del suo respiro. Il ricordo di ogni singola cosa che avevamo fatto quando eravamo insieme, e tutti gli anni in cui mi ero ripetuta che non le avremmo fatte mai più. Il modo in cui sapevamo come muoverci l’una contro l’altra, anche dopo tutto quel tempo.

Tutti erano in preda al panico. La sceneggiatrice e un tizio che si chiamava George, che stando a Sophie era un produttore esecutivo a Los Angeles, la chiamavano tutti i giorni per coprirla di improperi. La casa di produzione consegnò a Sophie un elenco di nomi, attrici con cui poteva rimpiazzare Veronica. Il mio non c’era. Facemmo un video del mio discorso in occasione del matrimonio, e pronunciai quelle parole come se fossi nata per farlo, ma a loro non interessava. Quindi cominciammo a spedire il video ad altre case di produzione indipendenti e a gente ricca che Sophie conosceva, e che aveva apprezzato Marianne e Nella foresta. Aspettammo.

Incontrai la mia amica Irina, la ragazza che anni prima mi aveva fatto partecipare allo spettacolo in cui si raccontavano storie. Le dissi che io e Sophie stavamo lavorando ancora insieme, e lei inarcò un sopracciglio e chiese se eravamo anche insieme insieme. Risposi certo che no, stavo con Abe. Disse che ne era contenta, lui era una persona gentile, e Sophie no. Annuii, finsi di essere d’accordo con lei. Non le dissi che stavo cominciando a capire di non essere tanto una brava persona nemmeno io. O che io e Sophie avevamo già scopato di nascosto in un taxi (di ritorno da una riunione fallita con un cinefilo pieno di soldi) e nel vicoletto dietro un locale di Crown Heights (dopo aver bevuto whisky per insabbiare il fiasco). Proprio quella mattina ero sgattaiolata in bagno mentre lei faceva la doccia, fingendo di portarle un asciugamano, in realtà mettendomi a leccarle l’acqua sulla pelle. Sembrava giusto farlo nei bagni e nei vicoli, senza dirlo a nessuno. Mi vergognavo di tradire Abe e di aver manipolato Veronica; dovermi nascondere, guardarmi dietro le spalle e non poter mai stare a letto con Sophie in una mattina di pigrizia sembravano il giusto prezzo da pagare per avere quello che volevo. E quando il sesso era un segreto, anche il film sembrava quasi un segreto, qualcosa che noi due potevamo goderci insieme senza che nessuno lo rovinasse.

Dopo un paio di settimane ricevemmo un’offerta, circa un quarto di quello che aveva promesso la casa di produzione. Avremmo dovuto rinunciare a buona parte della troupe e delle comparse: i lacchè e le sguattere, i marinai di Colombo. Avremmo dovuto tagliare tutte le scene in cui comparivano navi e cavalli. E avremmo dovuto rinunciare alla grande vecchia chiesa che mi aveva fatto desiderare di interpretare Isabella. Sophie si prese una settimana per pensarci. Avevo paura che rinunciasse. Andammo a vedere vecchi edifici che potevamo usare con poca spesa, magazzini e ristoranti dove Sophie conosceva gente, ma nessuno sembrava adatto. Poi trovammo la vecchia fabbrica di bottiglie. Il pavimento era coperto di vetri rotti, e le pareti erano costellate di buchi nei punti in cui i macchinari erano stati rimossi. Pensai che avremmo dovuto passare al posto successivo del nostro elenco, che era la palestra di una scuola superiore, ma a Sophie si accese qualcosa negli occhi come quando un cane annusa qualcosa nel vento, e poi si mise a gironzolare facendo scricchiolare il vetro sotto le scarpine costose, borbottando tra sé e sé. Alla fine si girò verso di me.

“Liberiamoci della Spagna e tanti saluti,” disse.

“Cosa vuoi dire?”

“Voglio dire che non verrà come dovrebbe a prescindere. Ambientamolo a New York e usiamo tutti gli esterni che ci pare.”

Sapevo che aveva ragione, nessuno degli edifici che avevamo visitato era bello quanto la chiesa. Ma non ero sicura che qualcuno si sarebbe sentito come mi ero sentita io tra quelle mura – inquieta, suppongo sia l’espressione – se ci avesse visto recitare le nostre battute in un magazzino che crollava a pezzi.

“Non so,” dissi.

Ma Sophie si guardava intorno, fissava le pareti coperte di croste e le alte finestre munite di inferriate e il punto in un angolo in cui un enorme groviglio di fili di rame sbucava dal pavimento. Capii che era eccitata, conoscevo il suo viso quando era tutta illuminata da un’idea nuova. Quello che non sapevo allora era come distinguere la sua profonda vera solida gioia da quel genere di entusiasmo che scaturiva dal panico.

“Prometto,” dichiarò, “che sarà davvero meraviglioso.”

“Okay,” risposi, “mi fido di te.”

Ci volle una settimana per convincere tutti gli altri. Sia la sceneggiatrice sia George minacciarono di portarci via il film. Ma Sophie disse loro la stessa cosa che aveva detto a me: in questo modo il film sarebbe risultato addirittura migliore. Disse cose che non le avevo mai sentito dire prima, come “abbattere i confini”. Aveva la capacità di sembrare del tutto sicura di sé, come se perfino dubitare delle sue parole fosse una follia. Alla fine ottenne quello che voleva.

Così cominciammo di nuovo a girare. La fabbrica di bottiglie si trasformò nell’umida vecchia fattoria in cui il fratello di Isabella la rinchiude dopo la morte del loro padre. La carrozza che doveva condurre Isabella al palazzo del fratello era il tipico taxi giallo di New York; l’autista mi chiese se andavamo a una festa rinascimentale. Il castello era un elegante vecchio palazzo sull’86th Street, e la sala del trono un appartamento in un palazzone di Williamsburg con vista sulla città. La proprietaria era un’amica del produttore, era felicissima che girassimo il film in casa sua, e continuava a darci dritte inutili sulla luce fino a quando le mettemmo addosso un costume e le facemmo fare la comparsa. La sala del banchetto era una vera sala per banchetti italiana a Bensonhurst. Assumemmo del personale vero per servirci la cena alla festa durante la quale Isabella incontra Ferdinando per la prima volta; in quella scena stiamo mangiando spaghetti al ragù e parmigiana di melanzane. Poi ci aiutarono a togliere di mezzo tavoli e sedie e ballammo come ci aveva insegnato la coreografa prima che smettessimo di pagarla.

Pensavo che fosse tutto abbastanza giusto, la sala dei banchetti mi parve perfino abbastanza regale, con i pavimenti in finto marmo e voluminose tende di velluto contro le quali andammo spesso a sbattere danzando. Ma Sergej, che interpretava Ferdinando, era sempre più turbato. Era basso, con capelli corvini, carino, ed era stato fantastico nelle scene girate con Veronica; aveva occhi d’un azzurro pallido che riusciva a far accendere di desiderio a comando. Ma nella sala del banchetto si comportò come un adolescente costretto a fare da baby-sitter durante una festa infantile. Doveva baciarmi la mano e sollevare lo sguardo verso di me come se già mi amasse, invece fissò la porta che dava sulla strada oltre la mia spalla sinistra.

Per quanto Sophie fosse bravissima ad arrivare al tuo punto debole, poteva fare davvero schifo quando si trattava di dare suggerimenti.

“Così non va bene,” disse a Sergej. “Devi far capire che Isabella ti piace.”

Lui alzò i suoi begli occhi al cielo. “L’hai reso un po’ difficile, non trovi?” chiese.

Sophie lo guardò con un’espressione vuota, del tutto assente, che lo fece arrabbiare ancor di più.

“Andiamo,” rincarò, “ti giunge nuova? Mi sbatti in una puzzolente stanza per le feste con una ragazza che è il doppio di me e ti aspetti che mi comporti come se non fosse successo niente?”

Cercai di non dare a vedere che c’ero rimasta male, ma era così. Non ero il doppio di lui, Sergej era basso e snello, ma aveva le spalle larghe e grosse braccia da palestrato. Probabilmente pesava più di me. Ma io ero molto più grande di Veronica, la cerniera del suo abito da Isabella non mi si chiudeva sulla schiena, e fui costretta a indossare il costume di Beatriz con aggiunta di broccato color oro che avevamo comprato da un tappezziere. Ed ero più grossa di quando avevo girato Marianne. Sapevo come funzionava: se il film fosse andato abbastanza bene, sarebbero comparse le mie foto prima e dopo su Internet, e una serie di estranei mi avrebbe dato della balena. In realtà non me ne importava molto: quando ero sola, senza cineprese intorno, mi andava benissimo com’ero. Ma volevo che Sophie dicesse a Sergej che si stava comportando da perfetto deficiente, che ero bellissima e che se non riusciva a interpretare la scena era un problema suo.

E invece disse: “Pensa a qualcun’altra se devi. Basta che tu la guardi in faccia mentre lo fai”.

Nella ripresa successiva mi guardò negli occhi, in effetti, ma la sua bocca aveva una piega cattiva quando mi guardava. Non sapevo a chi stesse pensando; alla moglie russa con le tettone sopra il vitino da vespa e i polpacci torniti negli stivaletti dal tacco a spillo; a Veronica, così delicata che le sue braccia sembravano prive di ossa, o a qualche altro donnino elegante. Chiunque fosse, sapevo che per lui quella persona era molto più bella di me.

Quando finalmente finimmo per quel giorno e Sophie e io eravamo accoccolate sul divano sfatto di un locale chiamato Stan’s le chiesi: “Credi che non sia abbastanza attraente per interpretare Isabella?”.

Non sono mai stata il tipo di persona che fa quel genere di domande, ho sempre odiato le ragazze che vanno a caccia di complimenti, che costringono il fidanzato a dire loro quanto sono belle fino a quando la parola perde completamente di significato. E sapevo che Sophie mi voleva; mi aveva già fatta venire con le mani nel bagno del locale, coperto di graffiti. Ma non mi piaceva la sua debolezza di fronte a Sergej. E sapevo che da un certo punto di vista lui aveva ragione: perché il film funzionasse, il pubblico doveva innamorarsi di Isabella. Volevo che Sophie mi dicesse che sarebbe stato così. Invece rispose: “Non lo so”.

La mia coscia sfiorava la sua, e mi ritrassi di scatto. “Come sarebbe a dire, non lo sai?”

“Voglio dire che a me piaci. Nei giornalieri sei bellissima con i capelli sciolti. Ma tu e Sergej non state bene insieme.”

“È solo che non ci prova nemmeno,” dissi. “È incazzato perché con me non sembra alto.”

“Probabilmente è vero,” rispose Sophie. “Comunque non andate.”

“La regista sei tu,” strepitai. Stavo quasi urlando, e un tizio accanto al biliardo ci guardò e mi fece un sogghigno. “Sei tu che devi dirigere gli attori. È il tuo lavoro.”

Rilassò i muscoli del collo, girò la testa dall’altra parte in modo da parlare con il muro.

“Purtroppo questa non la sento giusta,” disse.

Poi si girò per guardarmi.

“A volte ho la sensazione di svanire,” disse, “come se stessi diventando più trasparente. Ti senti mai così?”

“Cosa vuoi dire?” chiesi.

“Lascia perdere,” rispose, e mi appoggiò la testa sulla spalla, qualcosa che adesso faceva sempre e non aveva mai fatto prima. Rimanemmo sedute in quella posizione per un minuto mentre io mi preoccupavo per lei, ed ero arrabbiata con lei perché mi faceva preoccupare, e arrabbiata con me perché ero arrabbiata. Proprio quando stavo ricominciando a rilassarmi grazie al suo odore e al contatto con lei, disse: “Abe lo sa”.

A quel punto lo tradivo da tre settimane, e non ero stata minimamente attenta, sgattaiolavo da lei in salotto quando Abe dormiva, facevo sesso orale con lei nel nostro letto prima che lui tornasse dal lavoro. Ma continuavo a fare sesso con Abe, lo amavo ancora, e pensavo che questo gli avrebbe impedito di sospettare. Non era scemo ma facile da accontentare, e pensavo che se l’avessi coccolato la notte e gli avessi sussurrato parole dolci di tanto in tanto, non avrebbe sospettato che mi stavo scopando la mia ex ragazza in casa nostra.

“Come fai a saperlo?” chiesi.

“Stavamo mangiando i cereali…” cominciò.

“Cosa? Quando?”

Mi seccava che continuassero a parlarsi quando non c’ero, perfino adesso. Qualche sera prima Abe mi aveva detto di essere preoccupato per lei, e io mi ero limitata a girarmi dall’altra parte e a fingere di dormire.

“Mentre tu eri sotto la doccia,” spiegò. “Stavamo scherzando su quanto ci metti. Poi è diventato tutto serio e mi ha detto: ‘Non c’è problema, sai. Capisco’.”

Era ancor peggio del fatto che lo sapesse: lo sapeva e non era nemmeno arrabbiato. Mi diede la sensazione che non mi amasse tanto quanto volevo.

“Come hai fatto a capire di cosa stava parlando?” chiesi. “Forse si riferiva a qualcos’altro.”

“Gliel’ho chiesto,” spiegò. “E ha detto che sapeva che tu e io abbiamo dei trascorsi e non voleva mettersi in mezzo. Ha detto che voleva solo che tu fossi felice.”

Cercai di immaginare la situazione: l’uomo con cui vivevo da oltre un anno e Sophie, tornata solo da pochi mesi, che disquisivano sulla mia felicità. Come se fossi una bambina o una pazza incapace di prendere decisioni da sola.

“Che cosa starebbe a significare?” chiesi.

“Gli ho fatto la stessa domanda. Ha detto di sapere che lo ami e non crede nella gelosia. Ha detto che hai abbastanza amore per lui e per me.”

Ci vuole molto per farmi sentire la mancanza della mia famiglia, ma quella frase ci riuscì. Ricordai quando il ragazzo della mia sorellina sedicenne l’aveva tradita con la propria ex, che aveva un figlio con un altro e capelli unti color della polvere, come un cane randagio. Mia sorella aveva singhiozzato così forte al telefono che per poco non soffocava, e quando lui si era presentato con un grasso orsacchiotto rosa di peluche per riconquistarla, eravamo scese tutte urlandogli contro, mia madre e tutte le mie sorelle, turbinando come un uragano fino a quando lui non era tornato di corsa alla macchina, terrorizzato. Poi ci eravamo infilate tutte nel lettone di mamma e avevamo accarezzato i capelli di mia sorella mentre piangeva, dicendole che non aveva bisogno di lui, non aveva bisogno di nessuno che fosse troppo debole per donarle tutto il suo cuore.

Ed ecco che Abe si metteva a pronunciare frasi che sembravano uscite da un libro sulle relazioni hippy. Mi faceva rivoltare lo stomaco.

“E tu che hai detto?” chiesi a Sophie.

“Ho detto okay.”

“Tutto qui? Okay?”

Non sapevo cosa mi aspettavo che facesse, ma non volevo che si limitasse a essere d’accordo con lui.

“Senti,” continuò, “forse è una buona cosa. Lui ti rende felice, e io non sono molto brava a farlo. Forse puoi avere tutt’e due le cose.”

“Tu mi rendi felice,” protestai, ma sapevo che aveva ragione. Sophie non avrebbe mai saputo che in quelle sere in cui mi sentivo un’aliena in città, e forse nel mondo, come se avessi rinunciato alla mia unica famiglia senza riuscire mai a trovarne un’altra, quello che volevo veramente era che qualcuno mi costringesse a vestirmi e mi portasse a ballare. Sophie non ricordava di sicuro il mio gusto di gelato preferito, non l’avrebbe mai comprato solo di tanto in tanto per sorprendermi tutte le volte, e non avrebbe mai imparato che l’unica cosa da fare quando rimanevo come paralizzata mentre facevamo sesso era guardarmi negli occhi e ricordarmi, più e più volte, che ero al sicuro. Abe invece aveva capito tutte queste cose senza che gliele dicessi. Era bravo ad amarmi; gli riusciva con facilità. Era vero che non volevo rinunciare a tutto questo.

“Ho detto che ne avremmo parlato poi,” continuò Sophie, “ma se non lo facessimo? Se continuassimo a fare quello che stiamo facendo e lasciassimo perdere?”

Aveva l’aria stanca – ultimamente succedeva sempre più spesso – e ormai ero stanca anch’io.

Ricordai un’altra cosa di casa mia, quando il mio patrigno era in ospedale dopo aver mancato uno dei gradini di fronte alla porta di casa al buio, da ubriaco: era caduto e si era rotto il naso. Era una cosa tanto stupida che non riuscivo nemmeno a guardarlo, e mentre era nell’ambulatorio con il medico avevo chiesto a mia madre se lo amasse.

“È buono con me,” aveva risposto. “Mi fa compagnia. Mi aiuta con i bambini.”

“Non è quello che ho chiesto,” avevo ribattuto.

A quel punto mi aveva guardato dritto negli occhi, cosa che non faceva quasi mai, e aveva detto: “Lo so, tesoro. Ma non mi faccio domande di quel tipo”.

E forse faceva bene a non farsele. Forse si doveva vivere così, alla fine, lasciare le cose come stavano e non chiedersi mai se erano quello che volevi davvero. Venne la cameriera – era graziosa e aveva gli occhi tristi e, da vicino, sembrava più vecchia di quel che pensavo – e ordinai un altro whisky per tutt’e due. Bevvi il mio in fretta, e i contorni della notte divennero sfocati. Io e Sophie ci baciammo sul treno che ci riportava a casa, ma quando arrivammo mi infilai a letto con Abe e scopammo in fretta senza parlare. Mi addormentai contro di lui pensando: forse, forse, forse.

Il giorno successivo era prevista la grande scena tra Isabella e Ferdinando: pensano che lei stia per sposare qualcun altro, quindi stabiliscono di fare sesso nella casa di una nobildonna compiacente. Usammo un Holiday Inn sulla Third Avenue a Gowanus, magazzini fuori da tutte le finestre e la puzza chimica del canale ogni volta che cambiava il vento. L’indirizzo era scritto con un pennarello indelebile sulle lenzuola. Mentre il macchinista sistemava le luci rimasi seduta sul letto avvolta nell’accappatoio di Abe. Sergej era completamente vestito.

“Senti,” disse, “forse questa scena è meglio non farla proprio. Forse potremmo tagliare, hai presente, su immagini di fiori che sbocciano o qualcosa del genere.”

“Non fare lo stronzo,” ringhiai.

“Sto cercando di aiutare. Se cerchiamo di renderlo sexy questo film sarà ridicolo. Forse possiamo andare sul classico, puntare su modelli alla Merchant-Ivory, sulle nonne.”

Guardai Sophie, ma lei ci stava ignorando, e fissava accigliata il mirino da sopra la spalla del direttore della fotografia.

“Okay,” disse, “facciamo ’sta scena.”

Mi tolsi l’accappatoio con una spallata. Indossavo un perizoma color carne che Sophie e io avevamo comprato insieme; quando l’avevamo acquistato avevo provato un desiderio enorme di indossarlo con lei che mi osservava. Adesso ero solo piena di vergogna, come se qualcuno mi avesse tirato giù i pantaloni al campo da gioco.

La prima ripresa fu terribile. Dovevamo iniziare stesi sul letto, con Sergej sopra di me, poi mi avrebbe attratta a sé in modo che i nostri volti si toccassero e avrebbe detto la sua battuta: “Non appartenere mai a nessun altro”. Ma non mi attirò a sé. Lasciò che stessi lì stesa ad aspettare con l’aria confusa, poi quando fui certa che avesse dimenticato la battuta la pronunciò fiaccamente, come fosse un suggerimento.

“Dovete farla molto meglio, voi due,” disse Sophie, e mi fece infuriare che stesse parlando con tutti e due quando era Sergej l’unico a non provarci nemmeno.

Nella seconda ripresa mi attirò a sé, ma con brutalità, come se fossi un peso morto, e i miei seni andarono a sbattere contro il suo petto; lui si scostò all’improvviso come se gli facessi schifo, e dovemmo tagliare ancora prima che pronunciasse la battuta.

Alla terza ripresa schizzò all’indietro mentre mi attirava a sé, così ci furono sessanta centimetri buoni tra noi, poi mi tenne la mano mentre pronunciava la battuta senza alcun segno di passione.

“Questa volta sembravate due bambini di prima elementare,” commentò Sophie.

Mi alzai bruscamente dal letto. Non stetti a indossare l’accappatoio. Sergej e il macchinista brufoloso e il direttore della fotografia infuriato e anche Sophie avrebbero dovuto sciropparsi le mie tette e la pancia e il culo mentre mi avviavo verso il bagno.

Chiusi a chiave la porta e mi fissai allo specchio. Pensai a quante persone mi avevano vista nuda nella vita: mia madre, mio padre, le mie sorelle quando andavamo a nuotare nella cava con lo stagno in fondo dove le bisce d’acqua emergevano dai loro nidi segreti per spaventarci ed eccitarci, il ragazzino in seconda superiore di cui avevo dimenticato il nome e che mi aveva strofinato tra le cosce fino a venire nei pantaloni, Bean, Barber, tutti gli uomini con cui a New York ero stata per una notte o una settimana o un mese e non volevano altro se non la loro pelle sulla mia, Abe, Sophie, Sophie, Sophie. Ma probabilmente quasi nessuno aveva visto Isabella nuda. Forse la sua nutrice, l’ancella che le faceva il bagno. (Ricordavo di avere spruzzato le mie sorelle più piccole con il tubo di gomma per innaffiare nel cortile sul retro, dopo che si erano infilate in un vecchio bidone pieno di vernice per imbiancare, i loro corpicini che si contorcevano come quelli di cagnolini appena nati.) Prima di conoscere Ferdinando, probabilmente Isabella era stata la sola persona a guardare il proprio corpo nudo e a vedervi il sesso. E suo fratello stava per darla in sposa come un oggetto di scambio, non un corpo ma un nome. Ferdinando era un adolescente, forse era fortunato se aveva visto una donna nuda una volta in vita sua, una prostituta che si stava facendo strada a corte. Sarebbe toccato a me dimostrargli che ero qualcosa per cui valeva la pena di lottare.

Tornai nella stanza; eravamo inondati dalla luce dorata del tardo pomeriggio attraverso le veneziane da quattro soldi. La sentii sui capelli e sulla pelle mentre tornavo a letto. Tutti tacquero.

“Cominciamo,” dissi.

Questa volta invece di aspettare che fosse lui ad attirarmi mi sollevai io. Invece di aspettare che mi si avvicinasse gli avviluppai le braccia intorno alla vita e premetti il ventre contro il suo. Pensai a quando avevo appena conosciuto Abe, in un locale di Harlem dove si ballava, a come mi aveva sollevata sopra la testa come se niente fosse, e mentre mi rimetteva giù avevo posato le mani sulle sue, premendo le sue dita contro la mia carne. Pensai a quando avevo conosciuto Sophie, a come fossi stata io a muovermi verso di lei sulla strada fuori di casa mia. Pensai a come li avevo scelti entrambi, a quanto intensamente li avevo voluti, a quanto intensamente li volevo ancora. Guardai Sergej negli occhi, avida, e dissi: “Non appartenere mai a nessun’altra”.

Per un minuto tutto tacque; udii i camion sulla Third Avenue, il sangue che mi pulsava nelle orecchie. Poi Sophie mormorò: “Okay, va bene, direi che ce l’abbiamo fatta”.

Il resto della giornata fu tranquillo, la luce era bella, Sergej si comportò bene, io mi sentivo calma e a mio agio nella mente di Isabella. Finimmo prima dell’ora stabilita. E poi, mentre tutti stavano impacchettando le attrezzature e io mi stavo vestendo, Sophie venne da me e mi afferrò il polso con tanta forza che mi fece male. I suoi occhi erano enormi. Disse: “Voglio che tu lo pianti”.

Poi tra noi scoppiò la lite che da tempo volevo. Lo dicemmo ad Abe insieme, in piedi nel salotto, tenendoci per mano. Lui guardò Sophie con una rabbia gelida che non avevo mai visto prima e disse: “Esci di qui, così posso parlare con Allison”.

“No,” rispose lei. Capii che era spaventata, ma non ero sicura per cosa.

“D’accordo,” rispose Abe. “Allison, parliamo nella stanza da letto.”

Lo seguii come una bambina. Pensavo che si sarebbe messo a urlare perché l’avevo tradito, e se l’avesse fatto forse sarei rimasta. Invece mi chiese: “Sai che stai commettendo un errore madornale, vero?”.

Mi limitai a fissarlo.

“Quanto durerà? Una settimana? Un mese?”

“Non lo so,” risposi.

Non ero stupida. Sapevo che io e Abe avevamo una buona probabilità di invecchiare insieme, e io e Sophie no. Ma in quel momento tutto ciò che volevo era stare con lei; non riuscivo a pensare a nient’altro.

“Quando sarà finita,” disse, “non pensare di poter tornare come se niente fosse. Io non ci sarò.”

“Lo so,” risposi, anche se fino a quel momento non l’avevo saputo. Per me lui era un porto sicuro dove rifugiarmi da molto tempo; suppongo di aver pensato che forse lo sarebbe stato sempre.

“Questa è la tua ultima possibilità,” continuò. “Puoi cambiare idea adesso, e possiamo tornare al punto in cui eravamo. Forse sarà anche meglio, perché abbiamo affrontato tutto questo.”

Capii quanto sarebbe stato doloroso perderlo. Lo vidi lontano, quel dolore, come una cosa all’orizzonte, come un cane impazzito che avevamo guardato camminare sulla nostra strada un brutta domenica, giù a casa, la bocca malata. Ma ancora non lo sentivo. Ero pervasa da una calma ottusa.

“Mi dispiace,” dissi. Andai a prendere la mia valigia dall’armadio a muro.

Lo sentii camminare verso la porta, fermarsi, girarsi.

“Spero che tu sappia in cosa ti stai cacciando,” disse.

Mi fece infuriare che mi trattasse con quell’accondiscendenza.

“Sono un’adulta,” gli feci notare appallottolando il mio abito da ballo. “Starò bene.”

“Non sto parlando di te,” ribatté lui. “So che tu starai bene. Te la cavi sempre. Ma Sophie si sta avviando verso qualcosa di brutto, e se sarai tu la persona che è con lei, ricadrà sulle tue spalle.”

“Non sai niente di Sophie,” ribattei, ma quando uscii dall’appartamento con tutto ciò che mi apparteneva in una valigia e in un sacco per la spazzatura ero spaventata.

Eravamo alla stazione della metropolitana – lei mi teneva la mano, io tremavo – quando ci rendemmo conto che non avevamo idea di dove andare. Tutto ciò che avevamo in due era un po’ di denaro che Sophie aveva risparmiato grazie ad alcune conferenze e lezioni che aveva tenuto dopo Nella foresta e l’ormai esigua cifra che mi pagavano per Isabella. Finimmo per tornare all’Holiday Inn dove avevamo appena girato. La stanza che avevamo usato era occupata, ma ce ne assegnarono una identica, a parte che sullo specchio c’era una specie di macchia scura che quando accendemmo la luce diede l’impressione di essere un fantasma. All’inizio vivere lì fu una specie di scherzo tra noi, ma poi cominciò a darci sicurezza, come se potessimo abbandonare la vita reale e vivere nel nostro film. Finimmo le riprese, le ultime scene che dovevamo girare erano l’incontro di Isabella con il capo dei ribelli (girato in un caffè dell’Upper West Side, dove non permisero agli attori di portare le loro spade finte) e le nozze di Isabella con Ferdinando (a Prospect Park, tra un temporale e l’altro, con un cane che correva avanti e indietro nella scena). Poi Sophie cominciò il montaggio, e fu esattamente come Marianne: noi due sveglie stese a letto insieme, a parlare di quanto saremmo state grandi. Ormai però Sophie conosceva le sfaccettature del successo, quindi le sue fantasticherie erano più specifiche. Voleva la prima al Sundance Festival. Voleva un’uscita del film in grande stile in tutto il Paese, in un mucchio di sale. Voleva una recensione sul “New York Star”.

Volevo tutto questo anch’io, soprattutto perché lo voleva Sophie. Ma al contrario di quanto era successo per Marianne, avevo anche sogni personali. Volevo un grande servizio su una rivista come era toccato a Sophie, in cui avrebbero lodato la mia recitazione con parole come “luminosa” e parlato dei miei cereali preferiti per la colazione come se fosse una cosa importante. Volevo che i fratelli Cohen mi chiamassero e mi offrissero un ruolo nel loro prossimo film; l’avrei rifiutato perché stavo già girando un altro film con Sophie, ma si sarebbero adattati ai miei impegni perché proprio non esisteva che potessero fare quel film senza di me.

Non era che volessi essere famosa, non esattamente. Tanto per cominciare non volevo che la mia famiglia vedesse il film, non volevo nessuna connessione tra loro e la mia vita presente. E non pensavo alla gente che mi avrebbe fermata per strada, o alle riviste femminili che mi avrebbero messa in copertina, o ai ristoranti chic che avrebbero riservato un tavolo per me. Sapevo solo che per la prima volta nella mia vita ero stata molto, molto brava a fare qualcosa e volevo che la gente che conta ne parlasse.

Non dissi nulla di tutto questo a Sophie. Era nervosa, tornava a casa ogni sera dopo il montaggio con le spalle tutte ingobbite. Facevo una serie di cose per rendere più facili le sue giornate, come comprare porzioni singole di porridge e accertarmi che ne prendesse su qualcuna tutte le mattine, e di notte, dopo che si era accoccolata lontano da me, stavo sveglia con la mia eccitazione.

Non fummo accettate al Sundance; Sophie disse che non ci era rimasta male, ma poi s’infilò nella vasca e ci rimase dentro per ore, fino a quando dovetti ripescarla dall’acqua fredda, asciugarla e metterla a letto. Però fummo accettate all’Hudson Film Festival, e questo parve calmare Sophie abbastanza da permetterle di consumare pasti degni di questo nome e guardarmi in faccia quando mi rivolgeva la parola. Cominciò a lavorare a qualcosa di nuovo – non ne parlava, ma disse che avrei potuto vederlo non appena fosse finito – e passammo due mesi di momenti felici. In quel periodo non prestava molta attenzione al suo aspetto; aveva smesso di pettinarsi i capelli all’indietro con il gel e le ricadevano morbidi intorno al viso, e a volte mentre dormiva immaginavo la bambina che era stata prima di incontrare me. Sapevo che da bambina il suo nome era stato Emily, e a volte nella mia testa la chiamavo così, un nome segreto che nessuno degli spettatori dei nostri film avrebbe mai saputo.

Riottenni il mio lavoro al caffè, e trovai qualche turno da fare anche in un locale di Midtown. Vivere nel motel era stupidamente costoso, ma tutte le volte che parlavo di andarcene Sophie si chiudeva a riccio, e imparai a non menzionare la cosa. Ero brava a essere buona con lei in quel periodo. Qualche volta veniva nel locale dove lavoravo alla fine del mio turno e insieme prendevamo in giro gli uomini d’affari ubriachi. Le piaceva dire loro che eravamo sorelle, e io stavo al gioco. “Anzi, gemelle,” dicevo. “Siamo molto legate.” E se gli uomini reagivano nel modo giusto mi sporgevo dal bancone e le davo un bacio profondo, gli uomini applaudivano, le compravano qualche bicchierino, e a me davano mance spropositate. Una volta, subito prima del festival, un tizio di mezz’età con un faccione rosso rosso ci stava provando con me; niente di terribile, mi chiedeva solo se ero single e che tipi d’uomo mi piacessero. Io scoppiai a ridere, ma Sophie lo interruppe: “Sai che stai parlando con mia moglie?”. Sapevo che scherzava, ma quella parola mi eccitò e mi spaventò. Il tizio con la faccia rubiconda si scusò.

“Non ci stavo mica provando,” disse.

“No, è tutto okay,” fece lei. “Succede sempre. E non farà altro che peggiorare.”

“Perché?” chiese il tizio. Nemmeno io conoscevo la risposta.

“Perché presto diventerà una diva del cinema. Il suo film uscirà tra un paio di settimane, e allora tutti a New York la vorranno.”

Lui rimase molto colpito e cercò di farci altre domande, ma io ero occupata a cercare di decifrare l’espressione di Sophie, senza riuscirci. Mentre tornavamo a casa avrei voluto chiederle cosa intendesse con “moglie”, ma lei in metropolitana rimase silenziosa, con una mano stretta alla mia e lo sguardo fisso davanti a sé, quindi lasciai perdere.

La sera della prima indossai un abito blu scuro che Sophie mi aveva comprato, scollato, attillato sul seno e ampio su fianchi e cosce. Gente che conosceva Sophie continuava a ripetermi quant’ero bella, e poi le chiedevano dove fosse finita e se aveva intenzione di andare a un certo evento o party o proiezione per cui avevano ricevuto un invito di cui volevano vantarsi. Sapevo che era in grado di affascinare la folla se voleva, ma quel giorno borbottò solo qualche scusa sul fatto che era molto occupata e si sedette nelle ultime file insieme a me, stringendomi forte la mano.

Non ero stata in sala di montaggio, quindi il film finito fu uno shock per me. In Marianne Sophie ci faceva sempre aspettare la luce più bella, anche per le scene più tristi, così che tutto il film sembrava dorato. Le poche recensioni che avevamo ottenuto menzionavano tutte quel particolare. Ma la prima scena di Isabella era al Brooklyn Navy Yard, in una giornata nuvolosa con un cielo grigio-giallastro. Non ricordavo di aver girato la scena, Sophie doveva esserci andata senza di me. I titoli di testa scorrevano sull’acqua grigia e le barche vuote; una volta un gabbiano attraversò l’inquadratura in volo. Pensai che forse la scena volesse essere triste in modo poetico, ma invece sembrava piatta, come il viso di Sophie quando non si riusciva a capire cosa stesse pensando. Cominciai a temere di aver già iniziato a non capire il messaggio del film. Poi la scena cambiò ed eccomi sullo schermo, nella fabbrica di bottiglie, chiusa nel mio abito da Isabella.

All’inizio ero vanitosa e nervosa e mi guardai sullo schermo per vedere se sembravo grassa. Ma poi dimenticai di guardarmi il mento, la vita, lo scollo del vestito che rivelava il décolleté, e all’improvviso mi sentii come quando ero piccola e mi svegliavo presto al mattino e sentivo mamma che piangeva. Non riusciva mai a dormire dopo che papà se n’era andato l’ultima volta e prima che incontrasse il mio patrigno, e alle quattro del mattino era in piedi a piangere e a sbattere tazze e ciotole in cucina, penso sperando che io o mia sorella ci svegliassimo e andassimo a consolarla. Una volta ci avevo provato, ma non aveva funzionato – lei si era messa a piangere più forte e si era accusata di essere una cattiva madre – e quindi dopo quella volta quando non riuscivo a riaddormentarmi mi limitavo a stare stesa nel letto fingendo di essere un’altra persona.

Qualche volta ero Charlotte, una bella bambina alta della mia classe i cui genitori avevano già dei soldi da parte per quando sarebbe andata all’università. A volte ero Tom Winston, il secondo cugino di mamma che si era trasferito a Richmond e aveva comprato una concessionaria di auto e tornava ogni anno il 4 luglio con un grosso orologio e fotografie della moglie e delle figlie, tutte bionde e perfette, come se mai una volta nella loro vita fossero state in piedi tutta la notte a piangere. Ma non era solo la gente a cui le cose andavano bene quella a cui pensavo. Qualche volta fingevo di essere il vecchio completamente sdentato che vendeva noccioline alla fermata dell’autobus in città, mentre tutti i ragazzi delle superiori gli calciavano contro la polvere e sfottevano le sue gengive da neonato. Oppure ero Melissa Osburn, che aveva perso la gamba fino all’anca quando Brandon Phelps ubriaco fradicio l’aveva investita, e adesso sua madre non la faceva nemmeno più andare a scuola perché sarebbe potuto succedere qualcos’altro. Lo scopo era uscire da me stessa rifugiandomi dentro la vita di qualcun altro, ed ero diventata molto brava a farlo: così brava che portavo l’altra persona con me molto a lungo dopo che era arrivato il momento di alzarsi, per tutta la colazione e in attesa dell’autobus e durante le prime sonnolente ore di scuola, e quando oltrepassavo uno specchio mi sorprendevo di scorgervi il mio viso che mi guardava.

Fu così che mi sentii durante tutto il film, e quando le luci si accesero ero ancora seduta a schiena dritta, regale, con le mani in grembo come se fossero coperte di pesanti anelli. Quindi fui sorpresa quando la gente cominciò a venire da me a cercare di stringermi la mano. Una donna dal trucco pesante disse: “Voglio che lei sappia che ho pianto quando ha detto a Enrico che non la poteva più tiranneggiare. Ho pensato a tutte le volte che volevo dirlo e non ci sono riuscita, e sono scoppiata in lacrime”.

La guardai meglio: l’eyeliner era tutto macchiato e colato, gli occhi rossi.

Un uomo chiese: “Perché non l’abbiamo vista sul palcoscenico?”. E prima che potessi dirgli che forse mi aveva vista, mi schiaffò un biglietto da visita in mano e mi chiuse le dita intorno a esso.

Un altro uomo, alto, magro e anziano, mi disse: “Lei risplendeva in quel film, risplendeva proprio”.

Pensai fosse una strana cosa da dire, poi vidi che Sophie si stava già dirigendo verso l’uscita, tutta sola, e nessuno stava cercando di parlare con lei.

Nell’atrio tutti continuarono a fermarmi, e sapevo che avrei dovuto spingerli da parte per raggiungere Sophie, ma era difficile quando continuavano a ripetere tutto quello che avevo sperato che qualcuno mi dicesse. Cominciai a sentirmi come se avessi vinto una corsa importante, una maratona. Mi venne una gran voglia di alzare le braccia al cielo. Quando raggiunsi le porte in vetro del cinema, vidi Sophie: era seduta su una panchina, lontana da tutti, e il viso del tutto inespressivo che aveva a volte. Stavo per correre da lei quando una donna mi diede qualche colpetto sulla spalla. Era meno elegante di tutti gli altri in jeans e blazer, e aveva l’aria calma e un po’ annoiata; volli subito compiacerla.

“Sono Lucy,” disse. “Scrivo per ‘Conversation’. Mi piacerebbe parlare più a lungo con lei uno di questi giorni.”

Mi venne voglia di baciarla. Invece chiesi: “Che ne dice di domani?”.

Sorrise come se fosse sorpresa, e mi resi conto che avrei dovuto comportarmi come se fossi molto occupata.

“Che ne dice di mercoledì a pranzo?” ribatté.

Pensai di fingere di avere un impegno quel giorno per sembrare importante, ma non riuscii a costringermi a farlo.

“Fantastico,” accettai, e la giornalista mi diede il suo biglietto da visita, che infilai nella minuscola tasca speciale della mia borsetta per non perderlo mai.

Quando arrivai fuori Sophie non c’era più.

La chiamai al cellulare, e quando non rispose corsi per tutto il cinema e nelle stradine laterali, chiamandola.

Alcune anziane signore benvestite stavano chiacchierando accanto all’entrata laterale; mi precipitai da loro senza fiato, in preda al panico, e chiesi se l’avessero vista.

“Beh, sì,” rispose la più alta, con una grande orrenda collana di opali che le pendeva sul petto. “L’abbiamo vista dentro il cinema.”

“No,” specificai, “mi riferivo a dopo. Poco fa.”

Si scostarono da me. Avevano quell’espressione che a volte hanno gli sconosciuti quando li stai mandando in paranoia, come se potessi contagiarli con qualcosa.

“Non l’abbiamo vista,” rispose la donna con la collana.

Mentre correvo via mi gridò dietro: “Lei è stata bravissima”.

Alla fine fui costretta a rinunciare. Sul treno mi sentii in colpa perché mi ero pappata i complimenti invece di prendermi cura di Sophie, ma ero anche arrabbiata: perché non poteva permettermi di sentirmi importante per un pochino? Quando rientrai al motel avevo almeno dieci scuse e altrettante accuse tutte scritte in mente.

Sophie era seduta sul letto sfatto, con il computer acceso.

“Cosa fai?” chiesi. “Dove ti eri cacciata?”

Mi mostrò lo schermo. Era pieno di annunci di appartamenti da affittare.

“Credo che dovremmo trovare un posto vero in cui vivere insieme,” annunciò.

Ero ancora arrabbiata con lei perché mi aveva fatto prendere uno spavento.

“Adesso te ne vuoi andare?” chiesi. “Sono mesi che cerco di convincerti ad andarcene da questo posto di merda.”

Mi guardò con lo stesso viso di quando aveva deciso di ambientare il film in tempi moderni – occhi enormi, espressione speranzosa – ma in modo un po’ esagerato, adesso lo vedevo chiaramente. Un po’ disperato.

“Voglio andare a vivere con te al più presto possibile,” disse. “Voglio cominciare insieme una vita vera.”

Mi sedetti sul letto accanto a lei. Adesso ero preoccupata.

“Che ti prende?” chiesi. “Perché sei scappata via?”

A quella domanda il suo volto si chiuse. Fissò il computer invece di guardare me.

“Il film non è bello,” spiegò.

“Certo che lo è,” le dissi. “È fantastico. Tutti ne parlavano molto bene.”

“No,” corresse lei. “Tu sei brava. Il film è brutto.”

Non l’avevo mai vista così prima; quando erano terminate le riprese di Marianne era eccitata, piena di progetti. Cercai di ripensare al film, a rimuovermi dalle scene e a giudicarlo come avrebbe fatto un estraneo. Pensai alla scena iniziale del porto, a quant’era deprimente e grigia e piatta, come il volto di Sophie privato di tutti i sentimenti. Anche altre parti del film erano così, lo ricordai in quel momento: la facciata in vetro e metallo dell’edificio che rappresentava il palazzo di Enrico, la sala conferenze dove Isabella fa il patto con i ribelli, perfino lo scorcio della Sixth Avenue dove si tiene la processione nuziale di Ferdinando e Isabella. Ora che ci pensavo, era vero che il film aveva cominciato a perdere di interesse per me quando Isabella non parlava. Ma doveva essere normale, non mi ero mai vista sul grande schermo prima di allora. Avevo atteso anni prima di guardare Marianne. Naturalmente, come tutti gli attori egocentrici che conoscevo, per me la cosa più interessante era guardare me stessa.

“È ridicolo,” protestai. “Il film è bellissimo. Sei solo nervosa perché era la prima, ecco tutto.”

Sophie non annuì, non alzò lo sguardo.

“E se ci trasferissimo nel Maine?” chiese. “Ho guardato anche laggiù.”

“Cosa c’è nel Maine?” chiesi. I tentativi di seguire il filo dei suoi pensieri mi stavano spossando.

“Potremmo affittare una casetta sulla spiaggia e pescare. Potremmo costruire una barca. Potremmo davvero fuggire da tutto.”

Mi arrabbiai un po’ con lei un’altra volta; perché avrei dovuto desiderare di fuggire proprio in quel momento, quando per la prima volta in vita mia ero in una situazione in cui la gente mi trovava fantastica? Ma ero anche abbastanza sicura che Sophie non fosse mai stata su una barca, per non parlare di costruirne una, quindi decisi di non prenderla sul serio.

“Okay,” dissi. “Però se lo facciamo voglio le pentole per le aragoste. Voglio mangiare aragosta tutti i giorni.”

“Faremo anche quello,” rispose. “Forse riusciremo a trovare lavoro su un’aragostiera e ci pagheranno in aragoste.”

Aveva la voce e il viso sognante, come quelli di una bambina. Mi spogliai e mi infilai sotto le coperte accanto a lei. Ci tenemmo strette e parlammo di aragoste fino a quando non si addormentò.

La prima recensione non fu terribile. Era un breve trafiletto sul “Daily Bridge”, che definiva il film “non privo di difetti”, ma “ben recitato”, e “a tratti commovente”. Sophie sembrava nervosa ma non troppo turbata: preparò una lista degli appartamenti da andare a vedere, e ne vedemmo due il lunedì. Il primo era abbastanza bello all’interno, ma si trovava tra due allevamenti di polli, così che l’aria tutt’intorno puzzava di sterco di gallina e sangue rappreso. Il secondo era grazioso, in una strada alberata con una scuola elementare, ma la proprietaria ci squadrò strizzando le palpebre e sentenziò: “Se volete vivere qui non potete andare e venire a piacimento. Lavorare va bene, ma non vogliamo gente che entra ed esce tutta la notte. Questo è un palazzo per famiglie”.

Non capimmo se fosse bigotta o pazza. Il martedì ci prendemmo una giornata di riposo, e io andai a conoscere il manager di un nuovo locale dove avevo fatto domanda per essere assunta come capoturno. Gli piacqui e mi assunse seduta stante, ma gli spiegai che non potevo cominciare fino al giovedì.

“Domani,” spiegai, “ho un’intervista con un giornale.”

Incontrai Lucy in uno sciccoso ristorante vegetariano a Chelsea. Era esattamente come la ricordavo, calma e graziosa in jeans, blazer e mocassini di pelle, e guardarla mi fece pensare che fosse una persona in grado di essere a suo agio ovunque, se indossava gli abiti giusti. Mi disse che la ciotola di riso alla coreana era deliziosa, e l’ordinai per educazione e anche perché sul menu non c’era nient’altro di particolarmente invitante. La cameriera ci portò del tè e poi una zuppa di zucca in minuscole ciotole. Era tiepida e dolce e mi ricordò le pappe di mia sorella durante lo svezzamento, e mentre cercavo di trovare un modo per farmela piacere Lucy mi chiese di dov’ero. A volte mentivo su questo particolare, soprattutto con gente con cui non avevo rapporti stretti, non perché fossi imbarazzata ma perché non credevo di dover pensare a casa solo per soddisfare la curiosità di un emerito sconosciuto. Ma avevo paura di mentire a una giornalista, e poi volevo che sapesse chi ero davvero, da dove venivo, volevo che i lettori della rivista sapessero tutto questo e mi apprezzassero comunque.

“Vengo dal West Virginia,” dissi, e quando lei reagì con un: “Oh, è meraviglioso da quelle parti”, risposi: “Non nel posto da cui vengo io”.

Temetti immediatamente di essere stata scortese ed ebbi paura che si arrabbiasse, ma lei si limitò a passare subito alla domanda successiva. Le raccontai di mio padre e di mia madre, del mio patrigno e delle mie sorelle, e smisi di dire la verità solo quando arrivammo a Bean. Non era mai venuto nulla di buono dalla rivelazione di quella parte debole di me. Quando mi chiese perché me n’ero andata da casa dissi solo che stavo scappando da una relazione problematica, e lei annuì, poi arrivò la portata principale. Mi aspettavo qualcosa di simile al riso fritto, e mi bruciai subito con il pesante pentolino di ferro che stava ancora cucinando la mia pietanza. Mi vergognai, e fissai come una stupida la vescica rossa che mi lievitava sul dito, fino a quando Lucy la notò e commentò: “Lo faccio sempre anch’io”, e mi consigliò di premere il dito contro il mio bicchiere di acqua fredda fino a quando il dolore non si fosse calmato.

“Quando ha accettato il ruolo di Isabella,” continuò senza aver nemmeno sfiorato il tegamino fumante di fronte a lei, “stava rimpiazzando un’attrice molto più famosa. E mi corregga se sbaglio, ma sembra che lei non abbia mai studiato recitazione. Era nervosa?”

“No,” risposi. “Non ero affatto nervosa.”

Mi fissò inarcando un sopracciglio, come se fossimo amiche e potessi dirle senza problemi ciò che pensavo realmente; all’improvviso pensai che se l’avessi conosciuta meglio non era detto che mi sarebbe piaciuta.

“Davvero?” insisté. “Nemmeno per un minuto?”

La guardai dritto negli occhi, desiderando di non essermi bruciata il dito e di non avere indossato per l’occasione un vestito a fiori al tempo stesso troppo elegante e non abbastanza elegante, e risposi: “Sapevo che sarei stata fantastica. E se qualcuno ne dubitava, gliel’avrei dimostrato”.

Lucy annuì, con il cucchiaio pescò un pezzo di tofu dal suo tegamino con un gesto elegante, e si mise a soffiarci sopra. “Sophie dubitava di lei?”

“Cosa?”

Sapevo cos’aveva detto, ma avevo bisogno che lo ripetesse per avere il tempo di calmarmi. L’insinuazione – e il modo in cui sorrise nel farla – mi fecero venire voglia di darle uno schiaffo.

“Non è stata la sua prima scelta. Sophie era preoccupata che non ce l’avrebbe fatta?”

Certo che di questo avevo avuto paura. E forse parte della ragione per cui Sophie si stava comportando in modo così strano a proposito del film era che non si aspettava assolutamente che potessi essere così brava. Mi arrabbiai con Lucy ancor di più perché pensai che forse aveva ragione.

“Sophie ha sempre creduto in me,” dichiarai.

Lucy annuì. Prese un fungo con le bacchette e lo mise in bocca.

“È difficile a volte lavorare con la propria ragazza?” chiese.

Cercai di mangiare almeno una piccola parte della mia ciotola di riso. Era ancora rovente; un boccone di riso e di una verdura simile agli spinaci mi ustionò la lingua e mi fece boccheggiare. Cercai di pensare a una risposta che la facesse sentire stupida per aver fatto la domanda e che oltretutto mi rendesse più ottimista su me stessa e su Sophie e sul nostro futuro.

“No,” risposi alla fine. “Lei mi motiva. Essere con lei mi fa desiderare di migliorare sempre.”

“E questo film non ha causato nessuna tensione tra voi?”

Stavo cominciando a sudare. Pensai a Sophie che guardava fotografie del Maine al computer nel nostro scalcinato motel.

“Cosa vuole dire?” chiesi.

“Beh, lei ha ricevuto una quantità di lodi, e Sophie molte critiche.”

“Non è vero,” scattai. “Quali critiche?”

“Beh, la recensione del ‘Bridge’ e quella del ‘Los Angeles Times’ e poi i blog. E la recensione di Martin dovrebbe uscire oggi o domani.”

Avevo evitato di imparare granché sulla critica cinematografica; non sapevo nemmeno a quali blog si riferisse. Ma sapevo bene che Ben Martin era il critico cinematografico dello “Star” e che la sua recensione sarebbe stata la più importante di tutte.

“Sarà negativa?” chiesi.

Lucy fece un gesto vago e prese un altro pezzettino di tofu.

“Sto cercando di non dire niente di negativo sul film, sa. A me è piaciuto moltissimo. Sono solo curiosa di sapere come voi due affrontate le reazioni come coppia.”

Mi chiesi se a scuola di giornalismo le avessero insegnato cosa dire quando un intervistato ci rimaneva male. Mi chiesi se avesse pensato che sarei stata facile da intervistare, che le avrei rivelato chissà quali retroscena scandalosi perché ero una sprovveduta. Promisi a me stessa che l’avrei delusa.

“Non ci importa di quello che la gente pensa di noi,” dissi. “Soprattutto Sophie. L’unica cosa importante è fare bei film e rendere l’altra persona felice.”

“Quindi Sophie la sostiene nella sua carriera anche se non è direttamente coinvolta?”

L’idea di girare film senza Sophie non mi era mai passata per la testa sul serio fino a quel momento. Non avevo idea di come avrebbe reagito di fronte a una cosa del genere. Ma ero sulla buona strada ormai, e avevo intenzione di rimanerci.

“Naturalmente,” risposi. “Ci sosteniamo l’una con l’altra al cento per cento. Non abbiamo altra scelta. Significhiamo tutto l’una per l’altra.”

Sul treno che mi riportava a casa fui orgogliosa di me stessa per quello che avevo detto. L’avrei raccontato a Sophie, e sarebbe stata orgogliosa anche lei. Avremmo entrambe concesso molte altre interviste, pensai, e avremmo continuato a dire le stesse cose, e alla fine non avremmo avuto altra scelta se non metterle in pratica nella vita.

Al motel Sophie aveva messo la valigia sul letto. Vi stava riponendo i suoi abiti piegandoli con cura.

“Dove vai?” chiesi sorridendo, anche se avevo già paura. “Nel Maine?”

“No,” rispose.

Piegò una camicia button down da uomo che riconobbi dai vecchi tempi in cui eravamo insieme.

“Sophie,” chiesi, “cosa sta succedendo?”

“È uscita la recensione dello ‘Star’,” rispose. Indicò il suo portatile.

Mi ero tanto preoccupata di cosa dire a Lucy che avevo quasi dimenticato la recensione. Ma quando cominciai a leggerla non riuscii a smettere. Ben Martin cominciava parlando della carriera di Sophie, definendo i suoi film “profondamente impermeabili ai sentimenti”. Poi aggiungeva: “C’è un confine sottile tra impermeabile ai sentimenti e apertamente spietato, e Isabella l’ha varcato”. Pensai per un attimo che avrei dovuto smettere, andare a consolare Sophie, dirle che il parere di quella testa di cazzo non aveva nessuna importanza. Invece continuai a leggere. Parlava del “difetto fondamentale” di Sophie. La paragonava a un robot. Scriveva che l’unica cosa valida del film ero io.

Continuo a pensare che ci fosse ancora una possibilità per noi, anche dopo aver letto la recensione. Se avessi detto a me stessa che erano stronzate, se avessi chiuso il portatile con un colpo secco, e avessi guardato Sophie con tutto l’amore e il rispetto che provavo quando ci eravamo messe insieme all’inizio, e fossi andata da lei per dirle che era infinitamente migliore di quello che lui diceva, e ci avessi creduto, credo che saremmo uscite insieme da quella situazione. Invece gli credetti. Non del tutto. Non pensavo che Sophie fosse una sfigata senza talento che non avrebbe mai più girato un bel film. Ripensandoci, però, credetti davvero che il film fosse tetro e brutto. E credetti davvero di essere la sua qualità migliore. Era una bella sensazione permettere a me stessa di crederlo, dopo aver permesso a Sophie di convincermi di essere l’unica che poteva rendere bello un film, che a volte era costretta a ferirmi per riuscirci e che doveva starmi bene, volevo sentire che in realtà ero io la caratteristica senza la quale i suoi film non potevano vivere.

Quindi andai da lei, sì, le massaggiai la spalla e la baciai su una guancia, ma tutto quello che le dissi fu: “Cosa te ne frega di cosa pensa questo tizio?”.

“Me ne frega se è vero,” rispose. La sua voce era piatta e spenta.

“Ma certo che non è vero,” ribattei, ma non fui convincente, e quando si girò verso di me si accorse che non lo credevo sul serio.

“Vado a stare da mio fratello per un po’,” disse.

Sophie non parlava molto di Robbie, ma comunque ero sempre stata gelosa di lui. Una volta aveva detto che era l’unica persona con cui riusciva a parlare senza sentirsi uno schifo, e quando le avevo chiesto se io la facevo sentire uno schifo lei aveva risposto di no, ma era sembrato forzato.

“Per quanto ti fermi?” chiesi.

Scrollò le spalle. Stava facendo qualcosa che mi faceva sempre paura: si muoveva come se non avesse quasi forza nel corpo, come se fosse sul punto di afflosciarsi sul pavimento.

“Un mese,” rispose, “forse di più.”

“Un mese?” Fu quasi un grido il mio. “Credevo che avremmo cercato un appartamento insieme.”

“Lo credevo anch’io,” disse. “Credevo che sarebbe stato utile. Adesso non lo penso più.”

Odiavo quando parlava così, come se fosse piena di misteri. Pensai che si stesse comportando in modo meschino, quindi ebbi una reazione meschina anch’io.

“Sei così arrabbiata perché io ho avuto una buona recensione e tu no da non voler più vivere con me? Forse dovresti crescere un po’, che cazzo.”

Non fece una piega; si limitò a sedersi sul letto e a fissare lo sguardo su di me.

“Sai,” disse, “quando ho conosciuto Veronica ho capito subito che era fragile in tutti i punti giusti. Sapevo che avrei potuto spezzarla. Ma non potevo rifare a te una cosa del genere. Quando la parte è andata a te non ho potuto fare altro che trasformarlo nel tuo film.”

“È questo l’unico modo che conosci di fare film?” chiesi. “Trasformare la vita degli altri in un inferno?”

Si limitò a rispondere con una risata triste e una di quelle grandi scrollate di spalle che una volta trovavo tanto affascinanti. Ma avevo rinunciato alla mia vita per lei e non provavo alcuna compassione.

“Okay,” dissi. “Va’ a riposarti da qualche altra parte. Vattene di qui, cazzo.”

“Mi dispiace,” disse alzandosi. Mi girai dall’altra parte, come una bambina.

“Va’ a buttarti da un cazzo di ponte,” dissi.

Non mi sentii in colpa quando pronunciai quelle parole o quando la sentii chiudere la porta uscendo. Ero sicura che l’avrei rivista.