10. L’assassino alla porta
Esistono le bugie bianche?

La perfezione è una cosa, l’obbligo un’altra.

Henry Garnet, Trattato sull’equivocazione

Il nascondiglio, di Corrie ten Boom, è il drammatico resoconto della vita in una città olandese durante l’occupazione nazista. I Ten Boom di Haarlem erano cristiani devoti, e la loro casa era aperta da anni a chiunque avesse bisogno di rifugio. Nel 1942, all’epoca dell’invasione nazista, Corrie viveva con la sorella Betsie, il padre ottantaquattrenne Casper e vari altri familiari. Un giorno bussò alla porta una donna con una valigia e raccontò con angoscia al padre di Corrie di essere ebrea, che suo marito era stato arrestato e suo figlio si era dato alla macchia. Poco prima alcuni soldati tedeschi si erano presentati a casa sua e l’avevano minacciata, e ora lei, temendo il peggio, non voleva tornare a casa. Avendo sentito dire che la famiglia Ten Boom era ben disposta verso gli ebrei, si domandava se non potessero nasconderla a casa loro. Il padre di Corrie le diede il benvenuto e la fece entrare. Nel giro di poche settimane la famiglia si trovò a ospitare un gruppo di profughi ebrei nella cantina di casa, che era accessibile solo attraverso una botola nascosta. Da allora in poi casa loro divenne nota come un rifugio sicuro per gli ebrei e per i membri della resistenza olandese.

Una sera, due anni più tardi, qualcun altro bussò alla porta. Era la visita che tutti avevano temuto: la soffiata di un vicino aveva informato le SS dell’ospitalità illecita fornita dalla famiglia e ora i tedeschi esigevano di sapere se c’erano ebrei nascosti in quella casa.

Versioni di questo scenario sono un tema ricorrente nei dibattiti sulle bugie da centinaia di anni. Riaffiora in fogge diverse, ma di solito si chiama «l’assassino alla porta» ed è riassumibile in una semplice domanda: è giusto mentire all’assassino che ti chiede di rivelargli dove si trova un tuo amico? È un dilemma importante, non perché alle persone capiti spesso di viverlo in prima persona, ma perché mette a fuoco in termini drammatici e crudi un quesito fondamentale sulla moralità della menzogna. Una bugia è intrinsecamente una brutta cosa? Oppure quel che conta è l’uso che se ne fa?

Corrie non ebbe esitazioni e mentì. Le SS perquisirono comunque la casa, ma non trovarono quello che stavano cercando. Due uomini ebrei, due donne ebree e due membri della resistenza olandese non furono scoperti nel loro nascondiglio dietro una finta parete nella camera da letto di Corrie. Corrie fu arrestata lo stesso giorno e incarcerata con tutta la famiglia. Corrie e Betsie furono mandate in campo di concentramento. Betsie e Casper morirono in prigionia. Si stima che furono ottocento gli ebrei salvati dalle azioni della famiglia di Corrie e dai loro amici.

Il nascondiglio contiene anche un esempio di come si possa considerare la prospettiva di mentire anche sotto una luce molto diversa. La sorella minore di Corrie, Nollie, una ragazza devota che raramente si separava dalla sua Bibbia, era nota per la sua onestà integerrima. Nollie credeva fermamente che la Bibbia condannasse le bugie e che Dio non tollerasse eccezioni. Un giorno, prima dell’episodio sopra descritto, Nollie era a casa quando le SS fecero irruzione, in salotto con una rifugiata ebrea di nome Annaliese che, bionda e in possesso di documenti falsificati alla perfezione, non era stata scoperta dei tedeschi. L’SS puntò il dito verso Annaliese e chiese a Nollie: «È ebrea?» e Nollie, incapace di trasgredire ai propri principi, rispose di sì. Le ragazze furono entrambe arrestate e Annaliese fu condotta in un vecchio teatro di Amsterdam dove venivano rinchiusi gli ebrei in attesa di essere deportati nei campi di concentramento.1

In merito alle bugie, la Bibbia non è così chiara come pensava Nollie. Spesso si dà per scontato che i Dieci Comandamenti comprendano l’ingiunzione a non mentire, ma non è esattamente così. Quello che ci va più vicino è il nono comandamento (l’ottavo per cattolici e luterani): «Non attestare il falso contro il tuo prossimo» [Nel catechismo cattolico «Non dire falsa testimonianza», N.d.T.]. Si tratta chiaramente del divieto di spergiuro, ma non proibisce espressamente qualsiasi genere di menzogna (l’eco più ampia e metaforica del comandamento è poi questione di interpretazione). Nemmeno il Nuovo Testamento ci è di grande aiuto: Gesù non affronta mai in modo esplicito il problema se sia o meno lecito mentire in una qualche occasione, il che ci fa pensare che forse la questione non fosse così importante per lui e suoi seguaci.

L’ambiguità della Bibbia fece sì che nei primi secoli della cristianità i principali pensatori fossero vaghi e contraddittori sull’argomento menzogna. Alcuni hanno osservato che le Sacre Scritture contengono episodi apparentemente favorevoli alla menzogna: Dio inganna Abramo spingendolo a pensare di dover uccidere il figlio Isacco per dar prova della propria fede; Giacobbe, d’intesa con la madre Rebecca, inganna il padre spacciandosi per suo fratello Esaù; nel libro dell’Esodo le nutrici egiziane mentono al faraone, con l’approvazione del Signore, per salvare i bambini ebrei. Nel Nuovo Testamento, dopo essere morto e risorto Gesù compare a due discepoli sulla strada di Emmaus e finge di essere un altro. Alcuni studiosi cristiani hanno interpretato questi casi come prove che la Bibbia considera legittimo mentire quando ciò avviene al servizio di una giusta causa.

Le cose cambiarono nel V secolo, quando si unì al dibattito Agostino d’Ippona. In due magistrali disanime di questo argomento, De mendacio e Contra mendacium, il maggiore filosofo della cristianità trasformò il pensiero della Chiesa sull’argomento, esercitando una grandissima influenza sulle generazioni successive, compresa la nostra. Non si esagera affermando che il concetto moderno di menzogna fu inventato da sant’Agostino. Egli postulò due principi fondamentali: per prima cosa definì una menzogna con una chiarezza mai raggiunta prima: «la menzogna consiste nell’affermare il falso con l’intenzione d’affermarlo per trarre in errore» (definizione imperfetta ma utile, ancora oggi il punto di partenza per molti dibattiti sulla menzogna) e, in secondo luogo, dichiarò la menzogna moralmente sbagliata senza possibilità di equivoco, a prescindere dal contesto e senza eccezioni.

Agostino sostiene che Dio diede la parola agli uomini affinché essi potessero rendere noti i propri pensieri gli uni agli altri, usare la parola per mentire è dunque un peccato, perché contraddice l’intento divino. Agostino identifica inoltre nella menzogna una minaccia all’autorità della Chiesa: se i cristiani aprissero alla possibilità delle bugie a fin di bene (le «menzogne officiose») allora l’intero edificio della fede e della pratica cristiane crollerebbe, perché «non resterà più alcuna parte per quanto esigua [dei libri sacri] la quale, a seconda che sembrerà a ciascuno difficile per la morale o incredibile per la fede, usando lo stesso funestissimo sistema non possa essere riferita a un preciso intento e ad una esigenza dell’autore che mente».

Il filosofo conclude che tutte le menzogne sono da considerarsi un peccato, anche una menzogna pronunciata per salvare la vita a qualcuno. Alla persona cui viene chiesto di rivelare a un assassino dove si trova un innocente, Agostino suggerisce di rispondere: «Non lo denunzierò e non mentirò», a prescindere dalle possibili conseguenze.

Persino Agostino, tuttavia, riconosce che non tutte le menzogne sono ugualmente gravi e stila infatti una loro gerarchia, basata sulla difficoltà di perdonarle. Ecco il suo elenco, che va dalla meno perdonabile in su.

1. Menzogne nell’insegnamento della religione

2. Menzogne che nuocciono a qualcuno e non sono di aiuto a nessuno

3. Menzogne che nuocciono a qualcuno ma beneficiano qualcun altro

4. Menzogne dette per il piacere di ingannare qualcuno

5. Menzogne dette per lusingare gli altri durante la conversazione

6. Menzogne che non danneggiano nessuno e arrecano vantaggio a qualcuno

7. Menzogne che non nuocciono a nessuno e arrecano vantaggio a qualcuno tenendo aperta la possibilità del loro pentimento

8. Menzogne che non nuocciono a nessuno e proteggono qualcuno dal subire un oltraggio.

Il successivo trattato importante sull’argomento lo scrisse Tommaso d’Aquino nel XIII secolo. Tommaso accettò l’impostazione agostiniana (mentire implica l’intento di ingannare ed è sempre peccaminoso), ma vi aggiunse ulteriori distinzioni e specificazioni. Non disdegnava gli scherzi: le menzogne giocose non costituiscono peccato mortale nel suo libro, inoltre non considerò imperdonabili le bugie ufficiose contro cui si era scagliato Agostino. Solo le menzogne dannose – «bugie escogitate per fare del male al prossimo» (aliquis per mendacium intendat alterius nocumentum) – erano impossibili da perdonare. Per i primi millecinquecento anni di vita del cristianesimo la moralità della menzogna fu in larga misura una questione di sottile dibattito tra eruditi. Dopo l’incendiaria dichiarazione di Martin Lutero a Wittemberg e lo scisma della Chiesa, mentire divenne questione di sopravvivenza.

Se mai esistette un Età dell’Inganno, quella fu l’Europa a cavallo del XVII secolo. Atteggiamenti relativamente tolleranti nei confronti della diversità religiosa avevano lasciato il passo a persecuzioni e inquisizioni diffuse e al tentativo di imporre le opinioni con la forza. Migliaia di leader religiosi (cattolici, protestanti ed ebrei) furono costretti a scegliere tra rimanere fedeli al proprio credo oppure essere esiliati o uccisi. Molti scelsero di fingersi qualcosa o qualcuno di diverso dalla realtà. I governi, nel frattempo, ampliarono il controllo sui sudditi (l’assassino alla porta era spesso un funzionario); erano gli albori della vera prassi politica. Le corti regie diventavano sempre più grandi e sofisticate e un numero crescente di giovani e ambiziosi carrieristi furono attratti verso lo scintillante centro del potere. Le persone comuni cominciarono ad abituarsi all’idea del politico (o del cortigiano, a quell’epoca) come uno spietato bugiardo capace di dire qualsiasi cosa pur di favorire i propri interessi.

L’Inghilterra, in particolare, divenne preda di quella che il critico letterario Lionel Trilling ha definito «paranoia culturale»: scrittori e pensatori furono al tempo stesso affascinati e disgustati dal fenomeno dell’inganno. Francesco Bacone, un lettore di Machiavelli, analizzò l’arte dell’autopaludamento concludendo che la cosa migliore fosse «avere fama e stima di franchezza; abito di segretezza, uso opportuno della dissimulazione e, in mancanza di altro rimedio, facoltà di finzione». L’Amleto shakespeariano, disgustato dalla consuetudine imperante a corte di dissimulare, esclama: «Non conosco sembra [e] ho qui dentro qualcosa ch’è al di là d’ogni mostra». I drammi di Shakespeare sono pieni di bugiardi geniali, travestimenti elaborati e ingegnosi imbrogli e lo stesso vale per quelli di Marlowe, Chapman e Webster. Tutti questi drammaturghi scelsero come uno dei loro temi di elezione la differenza tra ciò che sembra e ciò che è, tra quel che un personaggio dice e quel che pensa.

Il pubblico di allora si sentiva molto partecipe di questi temi, perché i preti non erano gli unici a dover affrontare la scelta terribile tra verità e inganno. Molti cittadini comuni furono costretti a screditare le credenze più profonde, oppure a vivere nella menzogna. Anche quando era richiesto solo un conformismo di facciata la vita interiore poteva essere un inferno: nel 1550 Richard Wever di Bristol, protestante, si annegò in una roggia piuttosto che disonorarsi partecipando a una messa cattolica. Chi non era disposto a compiere azioni tanto drastiche sceglieva vari generi di inganno, presenziando alle funzioni ma astenendosi in segreto dal partecipare attivamente, oppure inviando un delegato che sedesse al posto suo per far credere alla congrega di essere stato presente.

Nelle corti regie e nei collegi religiosi di tutta Europa i dotti e i sapienti studiavano e scrivevano sofisticate difese della disonestà. Nella vita politica, religiosa e intellettuale dell’epoca la razionalizzazione della dottrina dell’inganno era, per usare l’espressione di Peter Zagorin, come «un continente sommerso». Ingannare per sopravvivere o per prosperare era una cosa, ingannare restando fedeli a Dio forse era ammissibile. La casistica, una parte della teologia morale che applicava i principi della morale teorica ai singoli casi concreti anziché affidarsi a norme inderogabili, si affermò soprattutto tra i gesuiti.

I casisti cercarono il modo di sfuggire alla condanna agostiniana contro la menzogna. Raimondo di Peñafort si pose già nel XII secolo il dilemma di come rispondere all’assassino alla porta, ed escogitò la possibilità di ingannare il malintenzionato alla cui vittima si è dato rifugio pronunciando la frase non est hic che significa sia «non è qui» che «non vive qui». Questa tecnica – ricorrere al doppio senso delle parole per pronunciare una verità letterale nascondendo al tempo stesso un significato più profondo – divenne nota come aequivocatio. Il casista Alfonso Maria dei Liguori suggeriva di rispondere «Dico di no» anche a una domanda di cui si sapeva che la risposta era affermativa perché in quel modo l’affermazione sarebbe stata comunque veritiera, in quanto il parlante aveva effettivamente pronunciato la parola «no».2 In tutta Europa, preti e comuni cittadini aprivano la porta agli assassini che li volevano interrogare, ma intanto i casisti spostavano ancora di più i confini della aequivocatio. Questa traiettoria li portò a compiere lo straordinario passo di sostenere che una falsa testimonianza può diventare vera se vi si aggiunge una «riserva mentale» (restrictio mentalis): in altre parole, possiamo dire qualcosa che sappiamo essere falso se nella nostra testa aggiungiamo le parole che rendono vera la nostra affermazione.

Il più influente sostenitore di quella che divenne nota come la «dottrina della restrictio mentalis» fu un teologo spagnolo, il dottor Navarro. Navarro scrisse che esistono verità «espresse in parte con le parole e in parte nella mente» e che precipuo dovere morale cristiano è quello di dire la verità a Dio, mentre «mettere in serbo» una parte di quella verità non facendola giungere a orecchie umane è morale, se ciò serve un bene più grande. Una persona che ricorra alla restrictio mentalis, per esempio, potrebbe rispondere a un interlocutore «Non so», e aggiungere silenziosamente «dirlo a te», e comunque starebbe dicendo la verità. I fautori di questa dottrina sostenevano che Cristo stesso la praticasse: aveva detto ai discepoli di non sapere quando sarebbe giunto il Giorno del giudizio, eppure nella sua onniscienza doveva per forza saperlo.

Nel 1606 i carcerieri chiesero al prete cattolico inglese John Ward se egli fosse un sacerdote e se si fosse mai recato di là del mare (in altre parole, se avesse studiato in Francia o in Italia). Egli rispose di no a entrambe le domande e quando fu messo di fronte alle prove che aveva mentito spiegò di avere aggiunto mentalmente le parole «di Apollo» e «delle Indie» al termine delle sue due risposte.3 All’epoca del caso Ward la dottrina della restrictio mentalis era già celebre in Inghilterra grazie ai processi contro due preti di nome Robert Southwell e Henry Garnet.

Nel 1586, all’età di venticinque anni, Southwell si recò in Inghilerra dalla Francia in compagnia del suo amico Garnet, un po’ più vecchio di lui. I due stavano compiendo una missione clandestina che, come sapevano, avrebbe potuto avere conseguenze fatali. Southwell stava rientrando nella sua terra natale dopo un decennio di assenza. Il minore di otto figli, era cresciuto in una famiglia della piccola nobiltà cattolica nella città di Horsham St Faith, nel Norfolk. Lo avevano mandato in Francia quando aveva quindici anni a studiare in un collegio cattolico di Douai, nel nord del paese e, dopo aver studiato anche a Parigi e a Tournai (in Belgio) era stato ammesso al Collegio Romano, nel quale entrò in contatto con le argomentazioni dei casisti e con la dottrina della restrictio mentalis. Studente dotato e ottimo poeta (Ben Jonson disse una volta che avrebbe volentieri distrutto molte delle sue poesie potendo avere in cambio The Burning Babe di Southwell), fu ordinato sacerdote nel 1584 e nel giro di due anni si imbarcò nella sua missione inglese.

In quanto missionari cattolici, Southwell e Garnet correvano un mortale pericolo. Numerosi loro predecessori erano già stati giustiziati ed Elisabetta I, preoccupata dalla minaccia rappresentata da Spagna e Roma, vedeva in ogni cattolico un potenziale traditore, tanto da promulgare una legge in base alla quale un suddito inglese ordinato prete all’estero non avrebbe potuto soggiornare in territorio britannico per più di quaranta giorni, pena la morte (per lui e per chiunque lo avesse aiutato). I missionari erano costretti a svolgere la loro opera sotto spoglie laiche, ad assumere nomi falsi e a svolgere finte occupazioni. Trovavano rifugio presso famiglie cattoliche abbastanza coraggiose da correre il rischio di aiutarli e disposte a costruire loro un nascondiglio in caso di perquisizioni. Dovevano essere sempre pronti a rispondere a domande pericolose e approntare una strategia mentale e verbale, nel caso li avessero arrestati.

Southwell sfuggì alla cattura per sei anni, ma alla fine fu arrestato perché Anne Bellamy, la figlia di una delle famiglie presso cui si era segretamente rifugiato, lo denunciò alle autorità. In prigione fu brutalmente torturato, perché i suoi carcerieri tentarono di estorcergli informazioni su contatti e amici, ma, a parte confessare di essere un padre gesuita, Southwell non disse nulla, nemmeno il colore del cavallo che aveva cavalcato in un certo giorno. Nel 1595, dopo tre anni di prigionia, fu processato per tradimento. Anne Bellamy dichiarò al processo di avergli sentito dire che la menzogna era accettabile in caso di interrogatorio da parte delle autorità e che se le avessero chiesto se c’era un prete nascosto in casa sua lei avrebbe potuto giurare di no, purché avesse aggiunto, come restrictio mentalis, «non ho intenzione di dirvelo».

Al processo il pubblico ministero, Sir Edward Coke, si aggrappò a questa dichiarazione per accusare Southwell di avere corrotto la morale della ragazza con la sua perversa dottrina gesuitica. Southwell, che era un imputato di grande eloquenza, anziché negare la prova addotta da Anne dichiarò che la pratica della restrictio mentalis era fedele alla parola di Dio e pose a Coke la sua versione del dilemma dell’assassino alla porta. Che cosa fareste, gli domandò, se il re francese invadesse l’Inghilterra costringendo la regina a fuggire per non essere uccisa e solo voi sapeste dove ella si trova? Se vi interrogassero, non neghereste forse di sapere dov’è, anche sotto giuramento, ricorrendo a una integrazione mentale? La risposta di Coke non è giunta fino a noi, ma il giudice capo non si fece convinto: «Se codesta dottrina fosse permessa, essa soppianterebbe la giustizia perché noi siamo uomini e non dèi, e possiamo giudicare solo in base alle azioni esteriori e ai discorsi pronunciati degli uomini, non in base alle loro intenzioni interiori e segrete».

La giuria dichiarò Southwell colpevole e il 20 febbraio 1595 egli fu inviato a Tyburn per l’esecuzione della condanna capitale. Dopo essere stato condotto per le strade su una slitta, gli fu concesso di tenere un discorso dal patibolo, cosa che egli fece rivolgendosi agli astanti in modo commovente. Confessò di essere un prete gesuita e pregò per la salvezza della regina e del paese. Mentre penzolava dal cappio tentò di farsi il segno della croce. Il suo corpo esanime fu sventrato e squartato e la sua testa mozza fu mostrata alla folla. Nessuno proruppe nel consueto grido di «Traditore!».

Henry Garnet rimase latitante finché non lo arrestarono per i suoi presunti legami con la congiura delle Polveri. Garnet non era coinvolto direttamente in questa cospirazione cattolica per assassinare Giacomo I e i membri del Parlamento, ma diede l’impressione di averla presagita e il governo volle fare di lui un esempio. Fu rinvenuto un trattato scritto da Garnet nel 1598, nel quale si sosteneva la legittimità della aequivocatio e della restrictio mentalis. Il trattato era dedicato al suo amico Robert Southwell e doveva servire a perorare la difesa di quest’ultimo. Sir Edward Coke, ancora una volta incaricato dell’accusa, si rallegrò di questo ritrovamento e costruì l’intero processo intorno a quella prova.4 Definì Garnet «un Dottore della Dissimulazione e della Distruzione» e dichiarò che Dio aveva unito cuore e lingua in matrimonio, e che l’ambiguità verbale era «la figlia bastarda» del «discorso concepito nell’adulterio». Garnet fu dichiarato colpevole di tradimento e mentre era sul patibolo nel cimitero di Saint Paul un funzionario gli intimò sarcastico di rilasciare una piena confessione senza ambiguità nel parlare, al che Garnet rispose: «Non è adesso il momento di parlare in modo ambiguo».

In Inghilterra, fino ai processi a Southwell e Garnet quasi nessuno aveva sentito parlare della dottrina della restrictio mentalis, perché i laici non avevano motivo di conoscere gli oscuri dibattiti interni alla Chiesa cattolica. La vastissima eco di quei processi sensazionali, tuttavia, produsse nell’opinione pubblica una reazione di repulsione e di rabbia. Politici e protestanti non persero tempo e denunciarono immediatamente la dottrina come un perfetto esempio dell’immoralità anti-inglese dei gesuiti. Agli occhi dell’uomo e della donna comuni la restrictio mentalis non era altro che una normalissima bugia agghindata in abiti eleganti, tanto più ipocrita perché affermava di essere qualcosa di diverso da ciò che sembrava. Non era neppure una bugia onesta.

La controversia si protrasse nel Seicento, nuocendo non poco alle reputazione della Chiesa cattolica. Papa Innocenzo XI, tentando di limitare i danni di quel disastro per le pubbliche relazioni, condannò la dottrina nel 1679, ma se ciò salvò forse la Chiesa dalla cattiva pubblicità non risolse il problema fondamentale, cioè che cosa fare di fronte all’obbligo di scegliere tra mentire e autoaccusarsi.5 Di conseguenza, la dottrina della restrictio mentalis sopravvisse dentro la Chiesa cattolica ben oltre l’interdizione del papa. A dire il vero, sopravvive ancora oggi.

Nel 2009 una commissione istituita dal governo irlandese rese noto un rapporto sugli abusi sessuali perpetrati da esponenti del clero cattolico ai danni di bambini. La relazione descrive, con un certo sconcerto, la scoperta da parte della commissione della restrictio mentalis, «un concetto sviluppatosi nel corso dei secoli e sempre molto discusso, che consente a un esponente del clero di dare consapevolmente un’impressione fuorviante a un’altra persona senza incorrere nella colpa di avere mentito». Ecco un esempio:

John si rivolge al suo parroco per lamentarsi del comportamento di uno dei suoi curati. Il parroco lo vede arrivare ma non vuole incontrarlo, poiché considera John un piantagrane, così manda un altro dei suoi curati ad aprire la porta. John chiede al curato se il parroco è in casa. Il curato risponde che non c’è. L’affermazione è chiaramente non vera, ma agli occhi della Chiesa non è una menzogna poiché quando il curato dice a John che il parroco non c’è aveva mentalmente «messo da parte» le parole «per te».

Ecco come il cardinale Desmond Connell, anch’egli indagato, spiegò il concetto alla commissione:

Beh, l’insegnamento generale in materia di restrictio mentalis è: non è concesso dire bugie. D’altro canto, è possibile trovarsi in situazioni in cui si è obbligati a rispondere e in alcune circostanze si può ricorrere a un’espressione ambigua, se ci si rende conto che l’interlocutore accetterà una versione non vera della questione in oggetto – e qui si parla di permettere che ciò accada, non di volere che ciò accada, perché in questo secondo caso si tratterebbe di una menzogna. La vera questione è tentare di affrontare questioni difficilissime che possono insorgere nei rapporti sociali quando le persone formulano domande alle quali semplicemente non si può rispondere. Tutti sanno che questo genere di cose possono succedere. La restrictio mentalis, quindi è in certo senso un modo per rispondere senza mentire.

Nel corso dell’inchiesta la commissione scoprì che i preti ricorrevano agli antichi strumenti della aequivocatio e della restrictio per sottrarsi alle indagini. Marie Collins, vittima degli abusi di un prete a Dublino, testimoniò che quando l’arcidiocesi dublinese aveva dichiarato, in un comunicato stampa, di avere collaborato con la polizia a seguito della sua denuncia lei ci era rimasta male, sapendo che non era vero. Quando un prete indagò in sua vece su questo particolare, si sentì dire dall’arcidiocesi: «noi non abbiamo mai detto di avere collaborato pienamente».

Il cardinale Connell si sentì in obbligo di sottolineare di non avere mai mentito ai media sull’impiego di fondi diocesani per risarcire le vittime degli abusi sessuali commessi dal clero sui bambini. Secondo il rapporto, ecco come il cardinale spiegò le dichiarazioni fuorvianti che aveva rilasciato alla stampa:

... [aveva detto] che i fondi diocesani non sono [corsivo del rapporto] usati a tale scopo; non che i fondi diocesani non erano stati usati a tale scopo. Utilizzando il tempo presente egli non aveva escluso la possibilità che i fondi diocesani fossero stati utilizzati a tale scopo in passato [...] Il cardinale Connell reputava ci fosse una enorme differenza tra le due cose.

Possiamo immaginare sant’Agostino mentre scuote la testa addolorato e infuriato al sentire queste scuse. Il guaio delle eccezioni, direbbe, è che quando ne ammetti una qualsiasi, poi starà ad altri scegliere quali altre saranno accettabili, e perché.

Se Agostino mise per iscritto le regole morali riguardanti il mentire, Immanuel Kant le tradusse per un’epoca laica, un’epoca in cui l’idea di una morale umana universale aveva preso il posto di una morale divina e i diritti dell’individuo erano divenuti il fulcro di qualsiasi discussione su giusto e sbagliato. Kant fu il Robinson Crusoe dei filosofi, con i materiali del mondo costruì solide dimore morali, e disboscò sentieri in mezzo alla giungla etica della vita moderna. Sul mentire, Kant era fondamentalmente d’accordo con Agostino: sbagliato sempre e dovunque, senza eccezioni.

Il fondamento dell’argomentazione di Kant era la dignità dell’individuo. Dobbiamo dire la verità all’uomo che vuole uccidere il nostro amico perché chiunque, anche un assassino, ha diritto alla verità. (Kant non arriva a chiedersi se, nel caso riesca a sopravvivere, l’amico vorrà ancora avere a che fare con noi). Nega a qualcuno la verità e gli neghi la sua umanità, una qualità che va concessa anche al peggiore di noi. E non solo: il bugiardo denigra la propria umanità.

La maggiore infrazione del dovere dell’uomo verso se stesso, considerato unicamente come essere morale (riguardo all’umanità che risiede nella sua persona), è l’opposto della sincerità, vale a dire la menzogna. [...] Il disonore infatti [...] segue la menzogna e accompagna anche il mentitore come la sua ombra. [Con la menzogna esterna (mendacium externum)] l’uomo si rende oggetto di disprezzo agli occhi degli altri, con la [menzogna interna], ed è ancora peggio, agli occhi propri, e offende la dignità dell’umanità nella sua propria persona. [...] La menzogna è l’avvilimento, anzi l’annientamento della dignità umana.

Kant espresse le proprie idee sul mentire nel suo primo contributo alla filosofia morale, Fondazione della metafisica dei costumi, pubblicato nel 1785 quando il filosofo aveva sessantun’anni.6 Il trattato fu accolto in modo positivo dai contemporanei, i quali nutrivano nei confronti di Kant un rispetto prossimo alla venerazione, essendosi egli già affermato come il più importante filosofo vivente. Non tutti, però, accettarono le argomentazioni del libro. Nel 1796 un giovane autore parigino ebbe l’audacia di metterle pubblicamente in discussione.

Benjamin Constant era un nobile di origine svizzera, discendente degli ugonotti scappati dalla Francia nel Seicento per fuggire alla persecuzione religiosa. Nato nel 1767, Constant era un cosmopolita (aveva studiato in Germania, Francia e Scozia), fu uno dei primi pensatori consapevolmente liberali e sostenne con fervore il predominio della legge, i diritti dell’uomo e l’abolizione della schiavitù. Bello ed elegante, giocatore e donnaiolo, fu spesso costretto a battersi in duello con mariti gabbati e a giostrarsi le attenzioni romantiche di più di una signora. Il grande amore della sua vita, però, fu Madame De Staël, scrittrice brillate, donna di mondo e grand dame della società europea. I due ebbero per un decennio una relazione tempestosa e intellettualmente vivace: dopo averlo conosciuto in Svizzera, Madame De Staël portò con sé a Parigi il giovane amante nel 1795 e lo introdusse alla società dei salons, ed egli si immerse totalmente nella vita intellettuale e politica della città.

Constant pubblicò un articolo in cui poneva a Kant il problema dell’«assassino alla porta», ma per il francese quello non era solo un dilemma ipotetico. Parigi si stava ancora riprendendo dal Terrore seguito alla Rivoluzione francese, durante il quale migliaia di uomini erano stati uccisi arbitrariamente. All’epoca dell’arrivo di Constant a Parigi era tornata la pace, ma migliaia di famiglie avevano sperimentato la paura di sentir bussare alla porta l’assassino e molti erano stati persuasi a consegnare gli amici ai loro carnefici. Vivendo in un ambiente che il suo biografo, Stephen Holmes, ha definito «isterico», Constant era profondamente consapevole delle ragioni che avrebbero potuto spingere un uomo a mentire per proteggere se stesso, la sua famiglia o i suoi amici (e, chissà, forse aveva in mente anche la propria complicata vita amorosa).

A Constant, scrive Holmes, «l’idea che qualcuno potesse proclamare immorale qualsiasi bugia sembrava assurda». Nelle parole dello stesso Constant, «Il principio morale, per esempio, che dire la verità sia un dovere, se fosse preso in modo assoluto e isolato, renderebbe impossibile ogni tipo di società». Constant accettava la sporadica necessità di mentire e sapeva che un uomo avrebbe potuto essere messo a morte sulla base di una bugia, ma concentrarsi sulla moralità del mentire come se questa azione avvenisse in un vuoto era pericoloso. Constant era convinto (e la cosa non ci sorprende) che tutte le argomentazioni morali dovessero avere una base nella realtà. Viveva in una città che si stava riprendendo da un periodo in cui i principi astratti erano stati portati alle estreme conseguenze, producendo un terrore omicida. Mentire era una realtà della vita e l’imperativo autentico era quello di rafforzare le istituzioni della società (il dominio della legge, il Parlamento) affinché non fosse possibile gettare in carcere le persone o tagliar loro la testa sulla base di malevole falsità.

Kant replicò a Constant nel 1797 con un saggio intitolato Sul presunto diritto di mentire per amore dell’umanità, in cui si attenne rigorosamente ai propri principi, sostenendo che mentire è sempre sbagliato, anche quando l’assassino è alla porta e ti chiede di svelare il nascondiglio del tuo amico. Kant considerava con disprezzo l’idea che ci dovessero o ci potessero essere eccezioni alla legge morale universale che imponeva di dire la verità. Le eccezioni sono controproducenti: se tutti concordano sul fatto che mentire agli assassini non è un problema, gli assassini non crederanno più a nessuno. Bisogna rimanere fedeli alla linea e difendere la sacralità della verità. Alcuni principi sono più importanti della vita di un amico.

Duecento anni dopo questo dibattito, il professor Kang Lee si è appassionato al rapporto degli occidentali con la menzogna. Cittadino canadese, Lee vive a Toronto da oltre vent’anni, pur essendo cresciuto in Cina e avendo sempre mantenuto uno sguardo distaccato sulla sua cultura di adozione. Lee è rimasto colpito dal vigore con cui gli abitanti dell’Occidente biasimavano l’inganno. I media gridavano «bugiardi» ai politici, i predicatori tuonavano dal pulpito contro la menzogna, gli insegnanti indottrinavano gli studenti e i genitori raccomandavano continuamente ai bambini di non dire bugie. Al tempo stesso, però, Lee vedeva ogni singolo membro di quei gruppi (e a dire il vero anche tutti gli altri) mentire regolarmente e persino difendere una categoria di bugie, le cosiddette bugie a fine di bene, i cui confini di demarcazione parevano espandersi o contrarsi senza alcuna logica apparente.7 Che cosa c’è, si è chiesto, alla radice di questo strano esempio di ipocrisia collettiva?

Lee era cresciuto con un atteggiamento molto diverso nei confronti delle bugie. «In Cina e in Oriente in generale», spiega, «il fatto che esistano situazioni di ogni genere in cui mentire sia la cosa giusta da fare è molto più accettato». Su questo tema non c’è alcun dibattito dilaniante, aggiunge, perché il mentire legittimo è uno dei tanti normali fatti della vita e, allo stesso modo, dire la verità può essere considerato sbagliato, soprattutto se porta a vantarsi delle proprie azioni. Questa ultima intuizione ha portato Lee a formulare un’ipotesi: che in Occidente il divieto di mentire si fondi sulla esaltazione dell’individuo, mentre in Cina l’atteggiamento nei confronti della menzogna ruoti intorno al rispetto per la coesione e l’armonia del gruppo. Nel 2001 e poi nel 2007 Lee condusse degli esperimenti sull’atteggiamento nei confronti delle bugie dei bambini cinesi e canadesi. I bambini nordamericani erano cresciuti in una società che pone un forte accento sui risultati individuali, sull’autostima e l’ambizione, sui diritti e le libertà individuali, è la cultura di Cartesio, Crusoe, Thomas Jefferson e Michael Jordan. I bambini cinesi, invece, erano cresciuti in una cultura che celebra la superiorità del Da Wo (il grande io, il collettivo) rispetto al Xiao Wo (il piccolo io, il sé) – un’ottica che non affonda le radici solo nell’ideologia comunista ma in una falda profonda di tradizioni religiose e culturali.

Nel primo studio di Lee, ai bambini cinesi (e taiwanesi) e ai bambini canadesi, tutti di età compresa tra i sette e gli undici anni, venivano lette quattro brevi storie, due delle quali parlavano di un bambino che compiva una buona azione, e le altre due mostravano un bambino che compiva una cattiva azione. Quando il personaggio della storia è interrogato da un insegnante, risponde con una affermazione vera oppure con una non vera. A volte il bambino mente sulla sua buona azione, altre volte su quella cattiva. Dopo avere ascoltato le storie, i bambini erano chiamati rispondere a delle domande: il personaggio si era comportato bene o male? Tutti i bambini, a prescindere dalla nazionalità, mostrarono di comprendere nelle linee essenziali che cosa significhi mentire, e tutti i bambini dissero che mentire sulle proprie cattive azioni era sbagliato. Quando, però, fu chiesto loro di esprimere un giudizio sulla storia in cui il bambino compiva una buona azione e mentiva a proposito di essa, tra i due gruppi si manifestò una notevole differenza.

I bambini canadesi mostrarono la netta tendenza a decretare sbagliata quella bugia; il semplice fatto che fosse una menzogna era sufficiente a meritare la loro condanna. I bambini cinesi si mostrarono molto più propensi a esprimere un giudizio morale positivo sul personaggio che aveva mentito in merito a una propria buona azione. Quando fu chiesto loro di spiegare il perché, commentarono che il bimbo nella storia «non andava a caccia di complimenti, non si dava arie» e la sua menzogna era dettata da una buona intenzione. Gli stessi bimbi espressero anche un giudizio piuttosto negativo sul personaggio che dice la verità sulla propria buona azione, criticandolo per essere andato in cerca di lodi. I canadesi, cresciuti in una cultura fondata sulla fiducia in se stessi e l’autostima, giudicarono positivamente questo personaggio che dice la verità.

Lee è convinto che questo «effetto modestia» sia un frutto del confucianesimo, che incoraggia (come il buddismo e il taoismo) a non mettersi al centro, nel nome di un bene più grande. In questa filosofia il buon vivere dipende dalla sanità dei rapporti sociali fondamentali, a cominciare da quelli famigliari e poi via via allargando il cerchio. Uno dei detti di Confucio illustra chiaramente come la sincerità non riguardi mai solo l’individuo:

Il governatore di She dichiarò a Confucio: «Fra la mia gente, c’è un uomo integerrimo: quando suo padre rubò una pecora, lo denunciò». Confucio disse: «Fra la mia gente, gli uomini onesti si comportano diversamente: un padre protegge il figlio, un figlio protegge il padre, e in questo modo di agire c’è integrità».

Secondo lo studioso Daniel Bell, le questioni cruciali per il confucianesimo sono sempre legate ai ruoli che occupiamo e agli obblighi che tali ruoli comportano. Trovandosi a dover esprimere un giudizio morale su una bugia, preoccuparsi di un’idea astratta di verità o dei diritti individuali è meno importante dell’effetto che quella bugia avrà sulle persone verso le quali noi nutriamo degli obblighi – in altre parole, sull’armonia e l’integrità del gruppo. Siamo lontani dal punto di partenza kantiano.

Lee aveva coinvolto anche bambini taiwanesi per poter verificare gli effetti dell’ideologia comunista. Il comunismo pone l’enfasi sull’aspetto collettivo anziché su quello individuale, ma si tratta di un’idea importata in epoca relativamente recente, che si è innestata su un cultura confuciana. I bambini cinesi di Taiwan sono cresciuti in una società capitalistica dotata di valori superficialmente diversi ma, a differenza della Cina dove il confucianesimo fu ufficialmente abbandonato dopo la Rivoluzione Culturale, in cui c’è una aperta adesione alle idee confuciane, che sono profondamente radicate nella società. I bambini taiwanesi hanno espresso più o meno le stesse valutazioni di quelli cinesi e, anzi, mostrarono di discostarsi ancora più di loro dai bambini canadesi. Questo mostrò a Lee che i valori della modestia e della umiltà non derivavano dal passato politico recente, bensì dalle strutture profonde della cultura cinese, trasmesse nel corso di molte generazioni di genitori e insegnanti.

In un secondo studio Lee presentò ai bambini canadesi e cinesi quattro diversi scenari basati su situazioni in cui avrebbero potuto riconoscersi. In ciascuno di essi il bambino protagonista della storia affronta il dilemma di scegliere tra dire una verità che aiuta un amico ma nuoce al gruppo e una verità che nuoce a un amico ma aiuta il gruppo. Ecco un esempio:

Questa è Susan. La classe di Susan ha dovuto scegliere alcuni rappresentanti per una gara scolastica di spelling. Mike, amico di Susan, non era molto bravo in ortografia ma ci teneva moltissimo a partecipare e ha chiesto a Susan di sceglierlo. Susan ha pensato: «Se scelgo Mike, la nostra classe non si piazzerà ai primi posti nella gara di spelling, ma Mike è un mio amico e se non lo scelgo ci rimarrà malissimo». Quando l’insegnante chiese a Susan chi aveva scelto...

A quel punto la domanda rivolta ai bambini era: «Se tu fossi Susan, che cosa faresti?». In un altro esempio, Jimmy è amico di Kelly e il miglior corridore della classe. Il giorno delle gare di atletica comunica a Kelly che, non avendo voglia di correre, se ne andrà in biblioteca a leggere un libro, e la prega di non dirlo a nessuno. Kelly, però, sa che senza Jimmy la squadra della loro classe non ha nessuna probabilità di vittoria. Quando l’insegnante le chiede se sa dov’è Jimmy, lei dovrebbe dire la verità e aiutare la classe oppure mentire e aiutare l’amico?

Come era accaduto nel suo primo studio, le risposte fornite a Lee mostrarono che i bambini erano influenzati dalla cultura in cui erano cresciuti. C’erano più possibilità che un bambino canadese consigliasse alla maestra di scegliere Mike perché era bravissimo in ortografia, o le dicesse di non avere idea di dove si fosse cacciato Jimmy e che un bambino cinese lasciasse Mike fuori dalla squadra e andasse a stanare Jimmy dalla biblioteca per costringerlo a gareggiare. La divergenza si accentuava all’aumentare dell’età dei bambini – segnale che Lee interpretò come una prova del loro crescente adeguamento alle norme delle rispettive culture.

Una cultura in cui mentire sia totalmente ammissibile, o in cui non lo sia mai, non è ancora stata scoperta. Succede sempre che alcuni tipi di bugia siano considerati accettabili, altri riprovevoli. Le differenze nascono su ciò che rende una bugia accettabile, ed è qui che tra una cultura e l’altra possono verificarsi dei fraintendimenti. Nel 1960 gli antropologi che vissero per qualche tempo con gli abitanti dell’isola di Manam, in Papua Nuova Guinea, notarono che i visitatori europei consideravano solitamente gli abitanti di Manam come dei bugiardi, persone che dicevano una cosa e ne facevano un’altra, ma gli isolani pensavano la stessa cosa dei visitatori bianchi. Nelle parole dei ricercatori «la difficoltà sta nel fatto che le situazioni che richiedono un po’ di normale ipocrisia tra gli abitanti di Manam non sono le stesse che richiedono un’identica tecnica tra gli abitanti di qualsiasi paese europeo». Entrambe le parti credevano di mentire in modo adeguato e non comprendevano, dell’altra, le regole di comportamento che prevedevano delle bugie.

Nel 1991 l’antropologo britannico Frederick Bailey disse che all’epoca della sua prima ricerca in India era rimasto perplesso e infastidito dalla frequenza con cui giovani indiani beneducati rispondevano alle sue richieste assicurandogli che avrebbero fatto «il necessario» senza poi, si scopriva, avere la minima intenzione di fare alcunché. Alla fine aveva capito che la loro idea di bugia accettabile era diversa dalla sua. Janet Suskind, che ha studiato gli Sharanahua del Perù, spiega che presso questa popolazione la carne degli animali selvatici è considerata un cibo pregiato e che alle persone piace mostrare di offrirla con generosità. Di carne, però, ce n’è poca e accade spesso che la quantità a disposizione non sia sufficiente per poterla condividere. Poiché rifiutare in modo diretto di offrire la carne è considerato insultante, mentre non lo è essere chiamati bugiardi, le persone mentono spudoratamente sulla propria riserva di quel particolare tipo di cibo (dicendo di non averne più anche quando non è vero) e, anzi, bugie di questo tipo sono considerate «una essenziale dimostrazione di tatto». Per gli Sharanahua mentire risolve il conflitto tra la scarsa disponibilità di cacciagione e gli obblighi sociali. Le bugie a fin di bene sono il cerotto che mettiamo sui problemi sociali di ogni giorno, il che suggerisce una linea di indagine antropologica potenzialmente fruttuosa: se cerchi una via breve per capire le tensioni interne a un particolare sistema sociale, scopri quali tipi di bugia sono considerati legittimi.

L’economista Timor Kuran sostiene che i piccoli inganni privati possono avere forti implicazioni pubbliche. A quasi tutti sarà capitato (magari sul sedile di un taxi o a un pranzo con i colleghi di lavoro) di dover scegliere tra fingere di essere d’accordo con un’opinione politica in cui non ci si riconosce e rischiare di scatenare una discussione spiacevole o, peggio, di essere oggetto di ostracismo. Secondo Kuran, tutti dobbiamo fare i conti con i conflitti tra il nostro «vantaggio espressivo» (il desiderio di dire il vero) e il nostro «vantaggio reputazionale» (il prestigio all’interno della comunità). Spesso affrontiamo questo conflitto mentendo.

Se tutti fossimo sempre e totalmente onesti riguardo alle nostre convinzioni si scatenerebbero litigi e risse in continuazione e la società andrebbe a rotoli. È anche vero, però, che una menzogna all’apparenza innocua può avere diramazioni di cui siamo inconsapevoli. La bugia che diciamo per non ledere alla nostra reputazione potrebbe causare un effetto a catena se rafforza l’opinione delle altre persone presenti (le quali nel loro intimo magari la pensano come noi) sull’opportunità di difendere un certo punto di vista. Un accumulo di bugiole di questo tipo può produrre grosse bugie pubbliche e concorrere alla perpetuazione di tradizioni o pratiche sociali sorpassate, anche quando non ci crede più nessuno da molto tempo. Kuran utilizza il comunismo nell’Europa dell’Est come esempio di una società in cui la maggior parte delle persone la pensavano in un modo e la loro «proiezione pubblica» dava l’impressione di pensarla in un altro, per questo non appena il regime mostrò segni di cedimento perse improvvisamente tutto il sostegno. «Non pochi uomini che sostengono idee nobili ed elevate le nascondono sotto il tappeto per paura di essere chiamati diversi», disse Martin Luther King.

L’attitudine umana per l’inganno nacque perché nella savana africana i nostri antenati sentirono la necessità di orientarsi nei rapporti con gli altri. Oggi non si può certo dire che le cose siano diventate più semplici. La nostra natura intensamente sociale è al tempo stesso la migliore ragione per dire la verità e il motivo per cui non possiamo fare a meno delle menzogne.

Mentire resiste alla creazione di norme e alla fedeltà alle norme perché, fra tutti i peccati, è quello di cui più abbiamo bisogno per andare d’accordo con gli altri. La vita sfida a ogni passo l’adesione incondizionata alla verità perché una vita di qualche valore presuppone gli altri e, come suggerì Henry Garnet, i nostri obblighi verso gli altri finiranno prima o poi col confliggere con il nostro desiderio di dire sempre la verità. Kant sosteneva che mentire è sempre sbagliato perché mina i nostri rapporti con gli altri. È vero, e la Legge di Browne ci rammenta che in una società che funziona dire la verità è l’unica possibile impostazione di default. Altrettanto vero, però, è che quegli stessi rapporti ci obbligano di quando in quando a mentire. Un teologo o un filosofo metafisico possono proporre imperativi morali universali, noi altri desideriamo restare in buoni rapporti con la suocera, o salvare un amico dai guai.

Forse nemmeno Kant fu rigido quanto avrebbe voluto su questo argomento. Nella Metafisica dei costumi lo stesso autore che avrebbe, in teoria, consegnato un amico al suo assassino pur di non mentire si interroga su questioni più terra terra, per esempio se sia accettabile scrivere «Il vostro umile servitore» nella chiusa di una lettera, o come rispondere a uno scrittore che ci ha chiesto se ci piace il suo lavoro e la risposta sincera sarebbe no. Problemi come questi si potrebbero anche liquidare con una battuta, ma «chi ha sempre la presenza di spirito a sua disposizione?». Il grand’uomo non ci è mai sembrato così umano. «La minima esitazione», scrive, «è già un’offesa per l’autore; si può dunque lodarlo apertamente?». In queste frasi corrucciate e sbrigative sentiamo Kant alle prese con gli aspetti meno limpidi della vita quotidiana, a un passo dall’ammettere che l’aequivocatio ha i suoi lati positivi.