Capire quanto le bugie siano importanti nella nostra vita ci costringe a pensare meglio al vero significato di «essere sinceri». La sincerità non è automatica, richiede impegno.
Kant espresse il suo rispetto e la sua deferenza per le leggi morali in una frase celeberrima: «Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me», Darwin e i suoi successori, invece, ci hanno presentato la specie umana in possesso di una bussola morale alquanto incostante. Noi non siamo assolutamente animali puramente egoisti, eppure siamo quel che il filosofo contemporaneo Peter Railton definisce – «noisti», cioè naturalmente inclini a badare prima di tutto agli interessi della nostra cerchia più immediata. Ci ammantiamo anche, come abbiamo visto, di comode illusioni. Il nostro cervello non è progettato per cercare la verità, né su noi stessi né sul mondo che ci circonda. Parlando con me, l’antropologo Robin Fox si è espresso in questi termini: «Il compito del cervello non è quello di fornirci una visione accurata o oggettiva del mondo, ma di darcene una visione utile, tale da permetterci di agire». Il suo scopo principale è quello di aiutare il pacchetto di tessuto, ossa e muscolo in cui è racchiuso a sopravvivere e prosperare: fornire resoconti sulla realtà è una preoccupazione importante, ma secondaria. E anche dire la verità agli altri lo è.
Ciò non significa che l’ammirazione di Kant fosse mal riposta. Noi siamo riusciti, in un modo o nell’altro, a raddrizzare il legno storto della nostra natura, a superare parzialità e pregiudizi che ci vengono naturali, a giungere più vicini alla verità. Ma come abbiamo fatto? Agendo di concerto. Per prima cosa, dire la verità è entrato a far parte delle regole sociali, esiste cioè l’idea (espressa in codici etici scritti o non scritti) che dire il vero sia di solito preferibile a mentire. Secondo, abbiamo messo a punto abitudini di ricerca condivise – le rigorose procedure di indagine logica e scientifica come quelle tramandateci da Voltaire, Bacone, Lavoisier e Franklin. Terzo, abbiamo sviluppato gli istituti della Legge, della democrazia, del diritto alla libera espressione in modo tale da poter sfidare qualsiasi pretesa di verità, per poter contrapporre a qualunque visione parziale altre visioni, ugualmente confutabili.
Naturalmente nessuna di queste cose costituisce una difesa perfetta contro la disonestà o la corruzione, né modifica la nostra natura di fondo. Ma è proprio il punto sollevato da Benjamin Constant: l’uomo è una creatura fallace, ma a mantenerlo onesto sono gli obblighi sociali, più che astratte regole morali, ed è per questo che dobbiamo lottare senza sosta per preservare e migliorare le istituzioni di una società liberale e illuminata. Ed è sempre per questo motivo che dovremmo premurarci di progettare e sostenere ambienti sociali (a scuola, al lavoro) che premino il più possibile la verità e chi la dice. L’onestà si costruisce insieme.
Il concetto di fiducia in se stessi è profondamente radicato nella cultura moderna, a tutti noi è stato insegnato di «andare dove ci porta il cuore» e di credere all’istinto. I nostri istinti, però, possono essere fuorvianti. La ricerca di Timothy Wilson, per esempio, suggerisce che non siamo molto bravi nel predire il nostro personale comportamento e che gli amici (o persino degli sconosciuti informati) hanno un’idea di quello che faremo molto più chiara della nostra. Sì, noi abbiamo un accesso privilegiato ai nostri pensieri e alle nostre motivazioni, ma questo si tramuta spesso in un eccesso di informazioni. Incapaci di vedere il bosco comportamentale a causa degli alberi mentali facciamo previsioni incerte sul nostro comportamento futuro, basandole su analisi fallaci del nostro carattere. Sopravvalutiamo la probabilità di restare fedeli a una dieta o a un programma di ginnastica e sottovalutiamo la nostra propensione a innamorarci di persone totalmente inadatte a noi. Professiamo motivazioni e intenzioni inesistenti e neghiamo l’esistenza di quelle reali.
Un aspetto importante ma sottovalutato dell’essere onesti con se stessi è, quindi, che non dovremmo fidarci delle nostre certezze. Quasi tutti abbiamo sperimentato situazioni in cui, pur consapevoli di non conoscere tutti i fatti, semplicemente sapevamo di avere ragione. Ci viene naturale credere che le nostre probabilità di avere ragione siano direttamente proporzionali alla nostra ferma convinzione di essere nel giusto. Solo che non è così. Il neurologo Rober Burton sostiene che se percepiamo una correlazione tra la solidità di una nostra convinzione e la probabilità che essa sia esatta è per via di una illusione ordita dal nostro cervello e frutto del rifiuto ad accettare i nostri limiti. Burton la chiama «sensazione di sapere». Non dobbiamo fidarci dello slancio di intensa certezza che ci invade quando approdiamo a un certo punto di vista o reiteriamo una antica convinzione. Siamo biologicamente programmati per sentirci così, ma il programma, pur avendo lo scopo di aiutarci a giungere a una conclusione, e dunque ad agire, non c’entra con lo status di verità delle nostre idee.
La sensazione di sapere può portarci fuori strada in molti modi, perché ci incoraggia a serrare la mente a qualsiasi discussione o opinione contrastante, permettendo così ai pregiudizi e preconcetti di dominare il nostro panorama mentale.1 (La fiducia eccessiva che riponiamo nella nostra capacità di capire se qualcuno ci sta mentendo non è che un esempio). Dobbiamo stare in guardia conto i tanti trucchi della mente che «se la racconta». «Il primo principio è che non devi imbrogliare te stesso, e tu sei la persona più facile da imbrogliare», dice il fisico Richard Feynman.
Vivere senza certezze è praticamente impossibile, questo è ovvio. Forse è meglio essere sicuri che finire sotto a una macchina in corsa ci costerà la vita, o che prima o poi avremo bisogno di mangiare di nuovo, o che Seinfeld è la migliore sitcom di tutti i tempi. Dovremmo, però, provare a sostituire il verbo so con credo in ogni ragionevole occasione, anche se questo significa ammettere che non siamo così certi dell’esistenza di Dio o dell’influsso umano sui mutamenti climatici. Quasi tutti, ha osservato l’economista Tyler Cowen, sembrano operare sulla base di un modello che vede le loro convinzioni politiche corrette con un tasso di probabilità vicino al cento percento, quando invece sarebbe più sensato rifarsi a un modello in cui le certezze non superino il sessanta percento circa di probabilità. Una simile ammissione interiore di fallibilità è più facile a dirsi che a farsi – provate subito, con una delle cose in cui credete di più, e capirete subito cosa voglio dire. Il mondo però sarebbe forse un posto migliore se tutti ascoltassimo un po’ meno le nostre sensazioni di sapere e po’ di più il nostro prossimo.
Tra l’Isola di Vancouver e la costa nordamericana del Pacifico c’è una sottile lingua d’acqua cinta da insenature e bracci di mare simili a fiordi e con centinaia di isolotti rocciosi e fitti di boschi, quasi impenetrabili. Per migliaia di anni questo arcipelago, la zona settentrionale dell’Isola di Vancouver e un tratto della costa a essa più prossima sono stati abitati da una popolazione conosciuta con il nome di Kwakiutl. I Kwakiutl erano noti per i loro magnifici oggetti d’arte e di ceramica e per abitudini particolari come il potlach, in cui i capi di bande differenti facevano a gara a chi regalava più ricchezze. I Kwakiutl erano noti anche per i loro sciamani, cioè guaritori capaci di curare le malattie comunicando con gli spiriti. Nel 1887 l’antropologo Franz Boas effettuò una rudimentale registrazione di un canto per la guarigione eseguito da uno sciamano Kwakiutl. Lo sciamano si chiamava Quesalid (pronunciato Chesalid). Dopo avere registrato la sua voce, Boas trascrisse il racconto di come Quesalid, molti anni prima, era diventato uno sciamano.
Da ragazzo, Quesalid era un giovane arrabbiato. Nelle tribù degli indiani americani gli sciamani erano qualcosa a metà tra un prete, un medico e una rock star ed erano molto rispettati, se non addirittura temuti, e pagati profumatamente per i loro servigi. Quesalid era quasi l’unico, nella cerchia dei suoi amici e parenti, a non vedere di buon occhio gli sciamani, che considerava imbroglioni che approfittavano dei bisogni delle persone vulnerabili o sciocche. Per questo motivo, e perché non tollerava le loro ricchezze e il loro prestigio, mise a punto un piano per smascherarli. Per prima cosa si sarebbe guadagnato la loro fiducia in modo da convincerli a metterlo a parte dei loro segreti, poi avrebbe spiattellato qualunque loro trucco, incrinando il loro potere per sempre.
Cominciò a frequentare gli sciamani della sua zona finché, finalmente, uno di loro gli offrì di diventare suo apprendista. Come volevasi dimostrare, le prime lezioni di Quesalid furono un’educazione all’imbroglio: apprese a fingere svenimenti e attacchi di nervi (agli sciamani capitava di mostrarsi in lotta con gli spiriti) e gli insegnarono la pratica dei «sognatori», spie di cui gli sciamani si servivano per origliare le conversazioni private in giro per il villaggio e riferirle, affinché loro potessero fingere di intuire i sintomi e le origini del malessere del paziente.
Imparò persino il segreto più grande di tutti, la verità dietro la mossa che era come la firma degli sciamani Kwakiutl: quando un membro della tribù si ammalava e veniva convocato uno sciamano, se quest’ultimo reputava il caso degno del suo intervento inscenava un rituale molto complesso. Nel corso di una cerimonia alla luce dei falò, animata da musiche, canti e litanie, lo sciamano si chinava sul corpo del malato, posava le labbra sulla parte interessata (per esempio il petto) e fingeva di strapparne via l’incarnazione tangibile dello spirito maligno. Quesalid imparò il trucco: lo sciamano nascondeva in bocca un ciuffetto di piume d’aquila e si morsicava la lingua per intriderlo di sangue, poi si chinava sul paziente e, mentre i tamburi battevano sempre più veloci e la musica aumentava in crescendo, sollevava la testa e sputava il grumo sanguinolento.
I peggiori sospetti di Quesalid erano confermati: la grande magia degli sciamani non era niente di più di un trucco, uno squallido inganno. Egli era deciso a rendere pubblica la sua scoperta, ma poi accadde qualcosa di imprevisto. La voce del suo apprendistato sciamanico aveva cominciato a circolare e, un giorno, Quesalid fu convocato dalla famiglia di un ragazzo malato che aveva sognato di essere guarito proprio da Quesalid (era risaputo che quando ciò accadeva, qualunque persona sognata dal malato sarebbe stata quella con maggiori probabilità di guarirlo). La famiglia abitava su un’isola vicina e aveva disperato bisogno di aiuto, quindi Quesalid non poté in nessun modo rifiutare. Al calare delle tenebre alcuni uomini del villaggio del malato andarono a prenderlo e Quesalid, dopo essersi nascosto il ciuffetto di piume in fondo alla bocca, sotto il labbro superiore, si apprestò a eseguire la sua prima cerimonia di guarigione.
Una volta sceso a terra, fu fatto entrare nella casa del nonno del ragazzo. Al centro dell’abitazione c’era un fuoco acceso e, intorno, uomini, donne e bambini del villaggio. La musica impazzava. Sul retro c’era il ragazzo, che pareva debole e respirava a fatica. Quando Quesalid gli si inginocchiò di fianco il ragazzo aprì gli occhi e, indicandosi le costole mormorò: «Benvenuto. Abbi pietà di me e fa’ che io possa vivere». L’apprendista sciamano avvicinò la bocca al corpo del ragazzo e intanto si morsicò la lingua. Dopo alcuni secondi alzò la testa e si sputò le piume insanguinate nel palmo della mano. I musicisti suonarono più forte e più veloce e lui danzò intorno al fuoco cantando una canzone sacra e mostrando a tutti la malattia che aveva estirpato al ragazzo, che poi seppellì nelle ceneri roventi del fuoco. Il ragazzo si alzò a sedere. Stava già meglio.
Ecco cosa scrisse l’antropologo americano Alfred Kroeber nel 1952:
C’è poi la vecchia questione dell’inganno. Probabilmente la maggior parte degli sciamani o guaritori di tutto il mondo ricorrono all’aiuto di sotterfugi durante le guarigioni e soprattutto nell’esibizione dei loro poteri. A volte il sotterfugio è intenzionale; tuttavia in molti casi la coscienza non è più profonda del preconscio. L’atteggiamento – che vi sia stata rimozione o meno – sembra analogo a quello di una pia frode. Gli etnografi che svolgono ricerche sul campo sembrano convinti, in genere, che perfino gli sciamani che sanno di ricorrere alla frode credono nello stesso tempo ai propri poteri e soprattutto a quelli di altri sciamani: infatti li consultano in caso di malattia propria o dei figli.
Senza volere, Quesalid aveva smesso di atteggiarsi ad apprendista sciamano ed era passato a essere uno sciamano, aveva smesso di lottare contro gli imbrogli per perpetrare un’illusione. Pur svolgendosi in una società lontanissima dalla nostra la sua storia suscita domande che ci riguardano tutti, in un modo o nell’altro.
Il drammaturgo Alan Bennett ha osservato che «sii te stesso» è «un’ingiunzione sconcertante» e forse in realtà significa «fingi di essere te stesso». Il sociologo Erving Goffman ha sottolineato come la linea di separazione tra recitazione e vita reale sia pericolosamente sottile. Certo, per diventare un bravo attore servono talento e pratica, ma ciò non deve nascondere il fatto che davanti a un copione e poche semplici indicazioni di regia quasi tutti sono capaci di trasmettere al pubblico un qualche senso di autenticità. Questo accade, afferma Goffman, perché «la vita stessa è rappresentata in termini drammatici». I normali scambi sociali sono fatti di improvvisazioni basate su un repertorio di battute, espressioni e gesti già pronti, a cui noi attingiamo per rendere convincente la nostra «performance». (Non dobbiamo trascurare l’etimologia latina del termine «persona», che deriva dalla maschera dell’attore). Secondo Goffman siamo tutti attori che hanno in parte dimenticato di stare recitando. Facciamo quasi sempre un gioco duplice, perché siamo consapevoli che gli altri si stanno esibendo per noi e al tempo stesso crediamo alla loro performance. In Penny Lane i Beatles cantano una serie di personaggi – l’impiegato di banca, il pompiere, il barbiere – che incarnano la vita della strada, e tra loro c’è una giovane infermiera che vende spillette a forma di papavero [per ricordare i caduti della Prima guerra mondiale, N.d.T.] e ha l’impressione di recitare in un dramma teatrale... «e ci è dentro comunque», canta Paul McCartney.
Un personaggio de L’anitra selvatica di Henrik Ibsen osserva: «Togliete a un uomo la menzogna della vita e lo derubate della sua felicità». Secondo Ibsen, molti di noi trovano la realtà tanto spiacevole da voler indossare una maschera di idealismo (una maschera che è anche uno scudo), e crearsi una vita alternativa. È un tema che attraversa molto teatro e narrativa contemporanei e, in particolare nella tradizione nordamericana, si collega a una visione tetra della vita borghese. Penso al commesso viaggiatore di Arthur Miller, al nuotatore di John Cheever e ai personaggi di Richard Yates, con i loro aneliti e le loro rinunce, o, nel cinema, alla lenta autodistruzione di Lester Burnham in American Beauty. In queste storie la menzogna della vita è rappresentata come una fuga disonesta dalla verità, una maschera che l’artista ha il compito di rimuovere, ma è possibile che invece quella dell’artista sia gelosia competitiva. A questo si aggiunge un altro modo di considerare la nostra capacità di inganno e autoinganno, cioè come un’espressione della natura creativa che ci caratterizza e come il rifiuto di accettare che il mondo così com’è sia tutto quel che c’è. Per dirla con il protagonista di Arriva l’uomo del ghiaccio di Eugene O’Neill: «La falsità di un’illusione è ciò che dà vita a tutta la nostra razza di bastardi scriteriati, ubriachi o sobri che siamo». La filosofa della politica Hannah Arendt osservò che «la nostra capacità di mentire – ma non necessariamente la nostra capacità di dire la verità – appartiene ai pochi chiari e dimostrabili dati che confermano l’esistenza della libertà umana».
La nostra esigenza di non perdere il contatto con la realtà esiste in tensione con il bisogno, altrettanto forte, di inventare storie non vere, e di crederci. Senza la prima non potremmo andare d’accordo a lungo con il nostro ambiente e nemmeno gli uni con gli altri, ma senza il secondo ci mancherebbe lo slancio immaginifico che ha guidato l’intero progresso umano. Forse dovremmo accettare di aver bisogno di entrambe le cose e dovremmo indossare le nostre maschere con equanimità, senza però dimenticare che sono maschere. Per dirla con Wallace Stevens «il credere ultimo è credere in una finzione che sai essere una finzione».
Dopo la guarigione del suo primo paziente Quesalid fu acclamato come un grande sciamano. L’unico a non credere alla magia che aveva eseguito era proprio Quesalid, ma il successo aveva indebolito il suo cinismo. La voce dei suoi successi si sparse ed egli cominciò ad accettare gli inviti di chi lo chiamava a eseguire la sua tecnica alle cerimonie di guarigione delle tribù confinanti, dove scoprì di essere in grado di curare pazienti considerati senza speranza. Negli anni seguenti divenne ricco e famoso praticando l’arte di cui un tempo voleva smascherare gli imbrogli. Quesalid disse a Boas di non aver cessato di essere scettico, ma di essere molto orgoglioso del proprio lavoro.