4

Senza sprecare un secondo di troppo, lasciammo la mia stanza e il castello passando dal vecchio ingresso dei servitori. Quindi attraversammo come fantasmi la città, finché ci ritrovammo di fronte a una vecchia porta rovinata.

Il fazzoletto bianco fissato con un chiodo subito sotto la maniglia era l’unico dettaglio che distingueva quella casa nel Distretto Inferiore di Masadonia dalle altre abitazioni strette e tozze, impilate l’una sopra l’altra.

Dopo aver controllato con un’occhiata il punto in cui due Guardie Cittadine chiacchieravano sotto il bagliore giallo di un lampione, Vikter strappò rapidamente il fazzoletto dalla porta e lo infilò nella tasca interna del mantello scuro. Il piccolo panno bianco era il simbolo di una rete di persone che riteneva che la morte, per quanto violenta o devastante, meritasse dignità.

Era anche una prova di alto tradimento e slealtà nei confronti della Corona.

Avevo scoperto per caso di che cosa si occupava Vikter quando avevo quindici anni. Un mattino, un messo aveva interrotto una delle nostre sedute d’addestramento e lui se n’era andato di corsa. Poiché avevo percepito la sofferenza mentale emanata dal messaggero, avevo capito che c’era sotto qualcosa e lo avevo seguito.

Naturalmente, Vikter non ne era stato contento. Ciò che stava facendo sarebbe stato considerato un tradimento ed essere colto sul fatto non era l’unico pericolo. Io però non avevo mai approvato il modo in cui quelle faccende erano gestite dalle autorità. Avevo insistito perché mi permettesse di dare una mano. Lui aveva risposto di no – ripetendolo probabilmente un centinaio di volte – ma io non mi ero data per vinta, certa che il mio aiuto sarebbe stato prezioso. Vikter sapeva che cosa ero in grado di fare ed era stata proprio la sua empatia nei confronti degli altri ad alimentare il mio desiderio di rendermi utile.

Ormai erano circa tre anni che lo accompagnavo.

Non eravamo gli unici, ce n’erano altri, guardie e cittadini che non avevo mai incontrato. Per quanto ne sapevo, anche Hawke avrebbe potuto essere uno di loro.

Sentii lo stomaco sprofondare e rivoltarsi prima di riuscire a scacciare dalla mente quel pensiero.

Vikter bussò piano con le nocche sulla porta, poi rimise la mano guantata sull’elsa dello spadone. Un paio di secondi dopo, i cardini scricchiolarono e la vecchia porta si aprì rivelando il volto pallido e rotondo e gli occhi gonfi e rossi di una donna. Aveva circa trent’anni, ma la fronte aggrottata per la tensione e i solchi ai lati della bocca la facevano sembrare più vecchia di decenni. La causa del suo aspetto sciupato aveva a che fare con un tipo di dolore più profondo di quello fisico e precisamente dall’odore che spirava dall’edificio alle sue spalle. Sotto il denso, stucchevole fumo di un incenso terroso, aleggiava l’inconfondibile odore acido e dolciastro di decomposizione, frutto di una maledizione.

«Avete bisogno di aiuto?» mormorò Vikter.

La donna giocherellò con il bottone della veste, spostando lo sguardo stanco da lui a me.

Rivolsi le mie percezioni verso di lei. Un profondo dolore dell’anima si irradiava dalla donna in ondate che non riuscivo a vedere, ma era così pesante da avere la consistenza tangibile di un’entità che la circondava. Riuscivo a sentirlo penetrare nei miei vestiti e graffiarmi la pelle come un gelido chiodo arrugginito. Percepivo quella donna come se fosse stata in punto di morte, eppure non mostrava ferite né segni di malattia: ecco quant’era potente e vivido il suo dolore.

Lottando contro l’impulso di arretrare, tremai sotto il pesante mantello. L’istinto mi imponeva di allontanarmi da lei il più possibile. Il suo dolore formava catene di ferro intorno alle mie caviglie e mi tratteneva, serrandosi intorno al mio collo. Un’emozione mi ostruì la gola con il sapore di un’amara angoscia e di acida disperazione.

Richiusi le mie percezioni, ma mi ero esposta abbastanza a lungo da essere ormai in sintonia con il suo dolore.

«Chi è?» mormorò lei indicandomi, con la voce roca per le lacrime che le gonfiavano gli occhi.

«Una persona che può aiutarti» rispose Vikter, in un modo che mi era fin troppo familiare. Usava quello stesso tono calmo ogni volta che io ero sul punto di agire spinta dalla rabbia e fare qualcosa di totalmente avventato… il che, secondo Vikter, accadeva fin troppo spesso. «Per favore. Permetteteci di entrare.»

La donna posò le dita sul bottone sotto la gola, poi fece un brusco cenno del capo e si scostò. Seguii Vikter all’interno, percorrendo con lo sguardo la stanza fiocamente illuminata, che si rivelò una via di mezzo tra una cucina e un salotto. Non c’era elettricità in quel luogo, solo lampade a olio e tozze candele pallide. Non era esattamente una sorpresa. Anche se la corrente era stata portata fino alla zona del Distretto Inferiore per illuminare le strade e alcuni negozi, solo i più benestanti l’avevano in casa, e quell’area non era affatto ricca. Le persone più abbienti vivevano vicino al centro di Masadonia, nei pressi del Castello di Teerman e il più lontano possibile dall’Alzata.

Ma lì l’Alzata incombeva.

Con un breve respiro, cercai di non concentrarmi sulle pareti e i pavimenti resi neri e oleosi dal dolore della donna. Quel male si era raccolto tra ninnoli e piatti di terracotta, trapunte con i bordi sfrangiati e mobili logori. Strinsi le mani sotto il mantello, inspirai di nuovo, questa volta più profondamente, e mi guardai intorno.

Su un tavolo di legno c’era una lanterna, accanto a numerosi bastoncini d’incenso accesi. Intorno a un camino di mattoni notai diverse sedie. Puntai alla porta chiusa a lato del focolare e socchiusi gli occhi, inclinando la testa coperta dal cappuccio. Avvolta dalla luce tenue, sulla mensola sopra il camino, c’era la sottile punta di una lama rossa.

Diaspro sanguigno.

La donna si era preparata a gestire la faccenda da sola, e considerata l’intensità del suo dolore, il risultato sarebbe stato disastroso.

«Come vi chiamate?» chiese Vikter, scostando il cappuccio del mantello. Faceva sempre così. Mostrava il volto per dare conforto a parenti o amici, per metterli a loro agio. Una ciocca di capelli biondi gli ricadde sulla fronte mentre si voltava verso la donna.

Io non mi mostrai.

«A-Agnes» rispose lei, deglutendo. «Ho… ho sentito parlare del fazzoletto bianco, ma non… non sapevo se sarebbe venuto qualcuno. Mi sono chiesta se fosse una leggenda o un inganno.»

«Nessun inganno.» Vikter era una delle guardie più pericolose dell’intera città, se non del regno, ma sapevo che, se Agnes avesse guardato in quei suoi occhi azzurri, non avrebbe visto altro che gentilezza. «Chi è il malato?»

Agnes deglutì un’altra volta, con la pelle intorno agli occhi che si raggrinziva come se li avesse serrati per un istante. «Mio marito, Marlowe. È un Cacciatore dell’Alzata e… è tornato a casa due giorni fa…» Le mancò il fiato e fece un sospiro pesante. «Era via da mesi. Ero felice di rivederlo. Mi era mancato tantissimo e ogni giorno che passava temevo sempre di più che fosse morto. Invece è tornato.»

Mi si strinse il cuore come se un pugno l’avesse afferrato. Pensai a Finley. Era stato anche lui un Cacciatore, un membro del gruppo che comprendeva Marlowe?

«All’inizio sembrava un po’ giù, ma non è una cosa insolita. Fa un lavoro spossante» continuò la donna. «Poi, però, una notte ha iniziato… ha iniziato a mostrare i primi segni.»

«Una notte?» Nella voce di Vikter s’insinuò un lieve tono d’allarme, e io sgranai gli occhi per uno sgomento assai maggiore. «E avete aspettato fino a ora?»

«Speravamo si trattasse d’altro. Un raffreddore o un’influenza.» La sua mano risalì fino ai bottoni, intorno ai quali iniziavano a spuntare dei fili. «Non… non ho capito fino a ieri sera che c’era di più. Non voleva che lo sapessi. Marlowe è un brav’uomo, capito? Non stava cercando di nasconderlo. Voleva occuparsene da solo, ma…»

«Ma la maledizione non gliel’ha permesso» concluse Vikter al suo posto, e lei annuì.

Tornai a guardare la porta. La maledizione progrediva in maniera diversa a seconda della persona. Dominava alcuni nel giro di ore, mentre per altri potevano volerci un giorno o due. Ma non conoscevo casi che ne avessero richiesti più di tre. Doveva essere solo questione di tempo prima che Marlowe soccombesse, forse ore… o minuti.

«Va tutto bene» la rassicurò Vikter, ma sapevamo entrambi che non era vero. «Dove si trova adesso?»

Premendosi l’altra mano sulla bocca, la donna indicò con il mento la porta chiusa. Aveva la manica della veste macchiata di una sostanza scura. «È ancora lui.» Le sue parole suonarono un po’ smorzate. «È… è lì. È così che vuole presentarsi agli dei. Come se stesso.»

«C’è qualcun altro nella stanza?»

Lei scosse la testa e si lasciò sfuggire un altro respiro smorzato.

«Vi siete detti addio?» domandai.

Quando sentì la mia voce, la donna sobbalzò. Il mio mantello era piuttosto informe, perciò fu sorpresa nel constatare che ero una femmina. Era l’ultima cosa che chiunque si sarebbe aspettato in una situazione del genere.

«Siete voi» sussurrò.

Mi paralizzai.

Vikter invece mantenne la calma, ma con la coda dell’occhio vidi la sua mano tornare a posarsi sull’elsa della spada.

Agnes si mosse all’improvviso e Vikter fece per sfoderare l’arma. Ma prima che lui o io potessimo reagire, la donna crollò in ginocchio di fronte a me. Chinando il capo, giunse le mani sotto il mento.

Celata dal cappuccio, sgranai gli occhi, guardando lentamente Vikter.

Lui inarcò un sopracciglio.

«Hanno parlato di voi» sussurrò lei, dondolandosi con brevi scatti. Il mio cuore doveva essersi fermato. «Hanno detto che siete la figlia degli dei.»

Sbattei una volta le palpebre, poi un’altra. Avevo la pelle d’oca. I miei genitori erano di carne e sangue. Senza dubbio non ero figlia dei numi, ma sapevo che molte persone, a Solis, consideravano la Vergine una discendente divina.

«Chi lo ha detto?» chiese Vikter, scoccandomi un’occhiata a indicare che di questo avremmo parlato più tardi.

Agnes sollevò il volto rigato di lacrime, scuotendo la testa. «Non voglio mettere nessuno nei guai. Vi prego. Non intendevano diffondere pettegolezzi o fare del male. È solo che…» La sua voce si spense, lo sguardo si spostò su di me. Poi, sussurrando, disse: «Hanno detto che possedete il dono».

Non c’era dubbio che qualcuno avesse parlato. Un lieve tremito mi percorse la spina dorsale, ma lo ignorai mentre il dolore della donna pulsava e aumentava. «Non sono una persona importante.»

Vikter inspirò rumorosamente con il naso.

«Agnes. Vi prego.» Nascosta dal mantello, mi sfilai i guanti e li infilai in tasca. Allungai la mano attraverso l’apertura dei pesanti lembi di stoffa, porgendogliela mentre indirizzavo a Vikter una rapida occhiata furtiva.

Lui mi guardò e socchiuse gli occhi.

Avrei decisamente subito una ramanzina, ma ne sarebbe valsa la pena.

Lo sguardo di Agnes scese sulla mia mano, poi, lentamente, la donna sollevò il braccio e mi porse il palmo. Mentre si rialzava, chiusi le dita intorno alla sua mano fredda e pensai alla sabbia dorata e luccicante che orlava il Mare di Stroud, al calore e alle risate. Rividi i miei genitori, con i lineamenti indefiniti, offuscati dal passare del tempo. Avvertii una calda brezza umida tra i capelli, la sabbia sotto i
piedi.

Era l’ultimo ricordo felice che conservavo dei miei genitori.

Agnes fece un respiro improvviso, pesante, con il braccio che tremava. «Cosa…?» La sua voce si perse e lei rilassò le spalle, rimanendo a bocca aperta. La sua angoscia soffocante si ritrasse e crollò su se stessa come una casa di fiammiferi aggredita da una tempesta di vento. La donna sbatté rapidamente le ciglia umide e un colorito roseo le tinse le guance.

Le lasciai la mano non appena la stanza parve più ariosa e leggera. Nell’ombra aleggiava ancora la traccia di un dolore tagliente, ma adesso le sarebbe risultato gestibile.

E lo sarebbe stato anche per me.

«Non…» Agnes si portò una mano al petto, scuotendo appena la testa. Aggrottò la fronte e si fissò il palmo. Quasi esitante, riportò lo sguardo su di me. «Mi sento come se riuscissi a respirare di nuovo.» Dal suo volto trasparì la comprensione, seguita rapidamente da una punta di soggezione. «Il dono

Riportai la mano sotto il mantello, consapevole del grumo di tensione che mi montava dentro.

Agnes tremò. Per un istante temetti che sarebbe di nuovo crollata a terra, ma non lo fece. «Grazie. Grazie davvero. Oh, dei, grazie…»

«Non c’è niente di cui ringraziarmi» la interruppi. «Vi siete detti addio?» chiesi ancora una volta. Il tempo scorreva via, minuti che non avevamo.

Agnes annuì, con gli occhi lucidi di lacrime, ma il dolore non l’aggredì come prima. Quello che avevo fatto non sarebbe durato. La sofferenza avrebbe trovato il modo per riemergere. Ma speravo che, per allora, la donna sarebbe stata in grado di elaborarla. Altrimenti, quel sentimento l’avrebbe perseguitata per sempre, come un fantasma capace di guastare ogni momento di gioia fino a diventare l’unica realtà.

«Adesso andiamo da lui» annunciò Vikter. «Sarebbe meglio che voi restaste qui.»

Agnes chiuse gli occhi e annuì.

Vikter mi toccò il braccio e si voltò. Io lo seguii. Mentre raggiungevo la porta, posai lo sguardo sul divano più vicino al focolare. Una bambola di pezza, con la testa floscia e capelli fatti di fili gialli, giaceva parzialmente nascosta dietro a un sottile cuscino. Mi venne la pelle d’oca e il disagio mi si annodò alla bocca dello stomaco.

«Lo aiuterete…» disse Agnes. «Lo aiuterete nel momento della fine?»

«Certamente» risposi, voltandomi verso Vikter. Gli posai una mano sulla schiena e attesi che si chinasse su di me, poi mormorai a bassa voce: «C’è un bambino».

Vikter si bloccò con la mano sulla porta, e io inclinai la testa verso il divano, su cui cadde il suo sguardo. Non potevo percepire le persone, solo il loro dolore dopo averle viste. Se c’era un bambino, doveva essere nascosto, e forse del tutto ignaro di quanto stava accadendo.

Ma allora perché Agnes non ci aveva avvisati della sua presenza?

Il mio disagio crebbe e immaginai i peggiori scenari. «Me ne occuperò io. Tu pensa a quello

Vikter esitò, indirizzando uno sguardo diffidente in direzione della porta.

«So badare a me stessa» gli ricordai, anche se lo sapeva già. Il fatto che sapessi difendermi era tutto merito suo.

Con un pesante sospiro, mormorò: «Non significa che tu debba sempre farlo». Indietreggiò di un passo e si rivolse ad Agnes. «Se non è troppo disturbo, posso chiedervi qualcosa di caldo da bere?»

«Oh, sì. Sì, certo» rispose lei. «Posso preparare del tè o del caffè.»

«Per caso avete della cioccolata calda?» domandò Vikter, e davanti a quella richiesta sorrisi. Era probabile che un genitore ne avesse, e forse era un modo per cercare ulteriori prove della presenza di un bambino, ma era anche la più grande debolezza di Vikter.

«Ce l’ho.» Agnes si schiarì la gola e aprì la credenza.

Vikter mi fece un cenno con il capo e io avanzai, posai la mano sulla porta e spinsi.

Se non fossi stata preparata, quell’odore terribilmente dolciastro, asprigno e amaro probabilmente mi avrebbe travolta. Mentre la mia vista si adattava alla camera da letto illuminata dalle candele, fui colta da un conato di vomito. Dovevo solo… evitare di respirare troppo.

Ottimo piano.

Percorsi la stanza con una rapida occhiata. A parte il letto, un alto armadio e due tavolini dall’aria instabile, il resto dello spazio era spoglio. Anche qui bruciava dell’incenso, senza però riuscire a coprire la puzza. Riportai l’attenzione al letto e alla sagoma che vi giaceva immobile. Mi spostai e chiusi la porta alle mie spalle. Poi avanzai, riportando la mano sotto il mantello, verso la coscia destra, e chiudendo le dita sull’elsa del pugnale, fredda come sempre, mentre mi concentravo sull’uomo. O su ciò che ne restava.

Era giovane, questo si capiva, con capelli castano chiaro e spalle larghe e tremanti. La pelle aveva assunto un pallore grigiastro e le guance erano infossate come se non mangiasse da settimane. Ombre scure gli fiorivano sotto le palpebre, che si contraevano ogni pochi secondi. Le labbra erano più bluastre che rosa. Inspirando a fondo, aprii ancora una volta le mie percezioni.

Soffriva molto, sia a livello fisico che emotivo. Non era lo stesso dolore di Agnes, ma non per questo era meno potente o gravoso. Nel suo caso, l’angoscia non lasciava spazio alla luce ed era più che soffocante. Strangolava, artigliava, nutrendosi della consapevolezza che non esisteva via d’uscita.

In preda a un tremito, mi costrinsi a sedermi accanto a lui. Sfoderai il pugnale e lo tenni nascosto sotto il mantello, mentre con la mano sinistra scostai con prudenza la coperta. L’uomo era a petto nudo, e quando l’aria più fresca della stanza gli sfiorò la pelle cerea, i suoi brividi aumentarono. Percorsi con lo sguardo lo stomaco incavato e vidi la ferita che aveva nascosto alla moglie.

Era sopra l’anca destra, quattro lacerazioni irregolari. Due erano l’una di fianco all’altra, e un paio di centimetri sopra c’era l’altra coppia di ferite identiche.

Era stato morso.

Chiunque avrebbe potuto pensare che l’uomo fosse stato aggredito da un animale selvatico, ma la verità era un’altra. Dalle ferite colavano sangue e una sostanza più scura, oleosa. Pallide linee rosso-bluastre si dipartivano dal morso, diffondendosi sulla parte bassa dello stomaco e scomparendo sotto la coperta.

Un gemito feroce mi fece alzare lo sguardo. La pelle si stava staccando dalle labbra dell’uomo e rivelava quanto fosse vicino a un fato persino peggiore della morte. Le gengive presero a sanguinare, andando a macchiare i denti, canini che avevano già iniziato a mutare, allungandosi, due sull’arcata superiore e due su quella inferiore.

Controllai la sua mano, posata accanto alla mia gamba. Anche le unghie erano cresciute e avevano un aspetto più ferino che umano. Nel giro di un’ora, denti e artigli sarebbero stati duri e affilati, in grado di lacerare e masticare pelle e muscoli.

Quell’uomo sarebbe diventato uno di loro.

Un Craven guidato da un’insaziabile sete di sangue, capace di massacrare chiunque sul proprio cammino. E se qualcuno fosse sopravvissuto all’attacco, alla fine sarebbe diventato proprio come lui.

Be’, non succedeva a tutti.

A me non era successo.

Ma quell’uomo stava diventando una delle creature che si trovavano fuori dall’Alzata, che vivevano dentro la nebbia densa e innaturale, il male impuro calato su quelle terre per la maledizione del perduto Regno di Atlantia. Circa quattrocento anni dopo la fine della Guerra dei Due Re, la pestilenza perdurava.

I Craven erano stati creati dagli Atlantiani grazie al loro bacio velenoso, che agiva come un’infezione, trasformando uomini, donne e bambini innocenti in creature affamate; corpi e menti corrotti e deformati da una fame insaziabile.

Anche se la maggior parte degli Atlantiani era stata braccata e uccisa, ne esistevano ancora molti, e un solo Atlantiano vivo era sufficiente a generare una dozzina di Craven, se non di più. Non erano del tutto privi di raziocinio. Potevano essere controllati, ma solo dall’Oscuro.

Quel pover’uomo sdraiato dinanzi a me aveva reagito combattendo ed era riuscito a fuggire, ma certamente conosceva le implicazioni di quel morso. Le conoscevamo tutti, fin dalla nascita. Era parte della sanguinosa storia del regno. Marlowe era maledetto, e non ci si poteva fare niente. Era tornato per dire addio alla moglie e forse a un figlio. Aveva pensato di essere diverso? Benedetto dagli dei?

Prescelto?

Non importava.

Sospirando, rimisi a posto la coperta, lasciandogli esposta la parte alta del petto. Cercando di non inspirare troppo a fondo, gli posai il palmo sulla pelle. La sua carne aveva una consistenza innaturale, era fredda come il cuoio. Mi concentrai sulle spiagge di Carsodonia, la capitale, e sulle lucenti acque blu di Stroud. Ricordai le nuvole, così gonfie e soffici, e la pace che trasmettevano. Pensai ai Giardini della regina, fuori dal Castello di Teerman, dove potevo concedermi di non pensare o provare nulla, e dove ogni cosa, compresa la mia mente, era tranquilla.

Ripensai al calore che i momenti troppo fugaci trascorsi con Hawke avevano suscitato in me.

I tremiti di Marlowe si placarono, e il guizzo sotto le sue palpebre rallentò. Le grinze ai lati degli occhi si distesero.

«Marlowe?» dissi, ignorando il dolore sordo che aveva iniziato a fiorire dietro ai miei occhi. Sapevo che alla fine mi sarebbe venuto mal di testa: capitava sempre quando aprivo le mie percezioni o usavo il mio dono.

Sotto la mia mano, il suo petto si sollevò e le ciglia arruffate ondeggiarono. Aprì gli occhi, e io mi irrigidii. Erano azzurri, ma lampi rossi gli attraversavano le iridi. Presto non vi sarebbe più stata traccia del colore originario. Sarebbe rimasto solo il rosso del sangue.

Dischiuse le labbra secche. «Sei… sei Rhain? Sei venuto ad accompagnarmi verso il sonno eterno?»

Mi credeva il Dio degli Uomini e della Fine, un dio della morte.

«No. Non sono lui.» Sapendo che il suo dolore si sarebbe placato per un tempo sufficiente a concludere l’operazione, sollevai la mano sinistra e feci l’unica cosa che mi era stato espressamente vietato di fare. Non solo dal duca e dalla duchessa di Masadonia, o dalla regina, ma perfino dagli dei. Feci quello che Hawke mi aveva chiesto di fare, incontrando il mio rifiuto. Abbassai il cappuccio e rimossi la maschera, rivelando il mio volto.

Credevo, o almeno speravo, che in casi come questo gli dei avrebbero fatto un’eccezione.

I suoi occhi venati di rosso mi scrutarono, prima i ciuffi di capelli ramati che mi ricadevano sulla fronte, poi il lato destro del viso, e infine il sinistro. Il suo sguardo indugiò nel punto in cui perdurava la prova di quello che potevano infliggere gli artigli di un Craven. Mi chiesi se pensasse ciò che il duca pensava sempre: che peccato. A quanto pareva era la sua espressione preferita, insieme a mi hai deluso.

«Chi sei?» rantolò Marlowe.

«Mi chiamo Penellaphe, ma mio fratello e pochi altri mi chiamano Poppy.»

«Poppy?» sussurrò lui.

Annuii. «È un nomignolo bizzarro, ma mi chiamava così mia madre. E da lì mi è rimasto.»

Marlowe sbatté lentamente le palpebre. «Perché…?» Gli angoli della sua bocca si aprirono in nuovi tagli, da cui colarono sangue e oscurità. «Perché sei qui?»

Mi sforzai di sorridere, strinsi la presa sull’elsa del pugnale e feci un’altra cosa per la quale mi avrebbero potuta trascinare a forza nel Tempio. Ma non era ancora mai successo, sebbene non fosse la prima volta che rivelavo chi ero a una persona in punto di morte. Dissi: «Sono la Vergine».

Il petto di Marlowe si sollevò in un respiro brusco e lui chiuse gli occhi, attraversato da un tremito. «Siete la Prescelta, venuta alla luce nel sudario degli dei, protetta perfino dentro l’utero, velata fin dalla nascita.»

Ero io.

«Siete… siete venuta per me.» Aprì gli occhi, e notai che il rosso si era espanso, lasciando solo un’ultima traccia di azzurro. «Mi… darete dignità.»

Annuii.

Chiunque fosse maledetto dal morso di un Craven non moriva pacificamente nel proprio letto. Non gli si concedevano premure e compassione. Di solito i malcapitati venivano trascinati nella piazza del paese e bruciati vivi di fronte agli abitanti. E non sembrava importare a nessuno che la maggior parte di loro fosse stata maledetta nel tentativo di proteggere proprio le persone che esultavano di fronte a quell’orribile fine, o cercando di rendere migliore la vita nel regno.

Marlowe spostò lo sguardo sulla porta chiusa alle mie spalle. «È… una brava donna.»

«Ha detto che tu sei un brav’uomo.»

Quegli occhi inquietanti tornarono a fissarmi. «Non lo sarò…» Arricciò il labbro superiore, rivelando un dente spaventosamente affilato. «Non lo sarò ancora per molto.»

«È vero.»

«Ho tentato di farlo da solo, ma…»

«Va tutto bene.» Lentamente, estrassi il pugnale da sotto il mantello. Il bagliore della candela più vicina strappò un luccichio alla lama rossa.

Marlowe osservò il pugnale. «Diaspro sanguigno.»

Prima che la maledizione si rivelasse, un mortale poteva morire in una quantità di modi diversi, ma quando i segni comparivano, solo il fuoco e il diaspro sanguigno potevano uccidere chi ne era stato colpito. Quelli, oppure un paletto di legno proveniente dalla Foresta di Sangue.

«Volevo solo… solo dire addio.» Marlowe rabbrividì. «Tutto qui.»

«Capisco» gli dissi, desiderando che non fosse mai tornato: non era necessario essere d’accordo con le sue decisioni per comprenderle. Il dolore stava tornando, aumentando in ondate brusche e poi calando di nuovo.

«Sei pronto, Marlowe?»

Il suo sguardo tornò ancora una volta alla porta, poi chiuse gli occhi. E annuì.

Con un peso sul petto, incerta se a intorpidirmi fosse il mio dolore o il suo, mi spostai lievemente. Per uccidere un Craven bisognava trafiggergli il cuore o distruggere il cervello. Nel primo caso, non si trattava mai di una morte istantanea: potevano volerci vari minuti per il dissanguamento; era un lavoro doloroso e sporco.

Posai la mano sinistra sulla guancia troppo fredda dell’uomo e mi chinai su di lui.

«Non sono stato l’unico» sussurrò.

Mi si fermò il cuore. «Come?»

«Ridley… anche lui è stato… è stato morso.» Rilasciò un respiro sibilante. «Voleva dire addio al padre. Non so se se ne sia occupato di persona o meno.»

Se questo Ridley aveva aspettato che la maledizione cominciasse a rivelarsi, non era possibile che fosse riuscito a occuparsene da solo. Qualunque cosa ci fosse nel sangue dei Craven – e degli Atlantiani – scatenava una specie di istinto di sopravvivenza primordiale.

Oh, dei.

«Dove vive suo padre?»

«A due isolati da qui. La terza casa. Blu… Credo che abbia le persiane blu, ma Ridley… lui vive nelle camerate con gli altri.»

Santi numi, poteva finire male.

«Hai fatto la cosa giusta a dirmelo.» Magari l’avesse fatta prima. «Grazie.»

Marlowe fece una smorfia, e aprì di nuovo gli occhi. Niente più azzurro. Era vicino. Questione di secondi. «Non ho…»

Colpii rapida come le vipere nere annidate nelle valli che portavano ai Templi. Il pugnale affondò nella carne soffice alla base del cranio. Inclinato in avanti e conficcato tra le vertebre, penetrò a fondo e recise il tronco encefalico.

Marlowe sobbalzò.

Questo fu quanto. Aveva esalato l’ultimo respiro ancora prima di saperlo. La morte non avrebbe potuto essere più istantanea.

Mi alzai dal letto ed estrassi la lama. Marlowe aveva gli occhi chiusi. Quella era una piccola benedizione. Agnes non avrebbe mai visto quanto era stato prossimo a trasformarsi in una creatura spaventosa.

«Possa Rhain scortarti in paradiso» sussurrai, ripulendo il pugnale dal sangue con un piccolo asciugamano lasciato sul tavolino. «E che tu possa trovare la pace eterna insieme a coloro che sono scomparsi prima di te.»

Voltai le spalle al letto, rinfoderai il pugnale, indossai di nuovo la maschera e sollevai il cappuccio, drappeggiandolo intorno alla testa.

Ridley.

Andai alla porta.

Se Ridley era ancora vivo, si sarebbe trasformato nel giro di pochi minuti. Era notte. Se si fosse trovato nel dormitorio insieme ai compagni che riposavano…

Rabbrividii.

Per quanto quegli uomini fossero addestrati, quando dormivano erano vulnerabili come chiunque altro. Cominciai a preoccuparmi per una certa guardia dell’Alzata, e la paura mi trafisse il petto e lo stomaco.

Poteva diventare un massacro.

Peggio ancora: la maledizione si sarebbe diffusa, e io più di chiunque altro sapevo con quanta rapidità potesse devastare una città fino a lasciare solo strade vuote e macchiate di sangue.