9

Con la pelle umida di sudore e la lunga e spessa treccia di capelli che mi sferzava come una frusta, mi chinai e ruotai su me stessa. Sferrai un calcio con il piede nudo e colpii Vikter su un lato dello stinco. Colto di sorpresa, barcollò da una parte e io gli balzai accanto. Lui fece per contrattaccare, ma poi si bloccò. Il suo sguardo cadde sul pugnale che gli puntavo alla gola.

Gli angoli della sua bocca si incurvarono verso il basso.

Sorrisi. «Ho vinto.»

«Non si tratta di vincere, Poppy.»

«Ah no?» Abbassai il pugnale e feci un passo indietro.

«Si tratta di sopravvivere.»

«E non è una vittoria anche quella?»

Lui mi scoccò un’occhiata di sbieco, asciugandosi la fronte con il braccio. «Suppongo che tu possa vederla in quell’ottica, ma non è mai un gioco.»

«Lo so.» Rinfoderai il pugnale. Con indosso un paio di pantaloni aderenti e spessi e una vecchia tunica di Vikter, avanzai sul pavimento in pietra fino a un vecchio tavolaccio di legno. Sollevai il bicchiere e bevvi un sorso d’acqua. Se avessi potuto indossare quegli abiti tutti i giorni, sarei stata felice. «Ma se fosse un gioco, avrei vinto.»

«Hai avuto la meglio solo due volte, Poppy.»

«Sì, ma in entrambi i casi ti avrei tagliato la gola. Tu hai avuto la meglio tre volte, ma sarebbero state solo ferite superficiali.»

«Ferite superficiali?» Scoppiò in una breve, rara risata. «Solo tu potresti credere che finire sventrati sia una ferita trascurabile. Non sai proprio perdere.»

«Credevo che non fosse un gioco.»

Vikter sbuffò.

Sogghignando, mi voltai verso di lui alzando le spalle. Il pulviscolo danzava nella luce del sole che filtrava dalle finestre aperte. Il vetro era stato rimosso da tempo e la stanza era piena di spifferi, perlopiù gelida durante l’inverno e insopportabilmente calda d’estate. Ma qui nessuno veniva mai a cercarci, perciò le estreme variazioni di temperatura erano più che tollerabili.

Era la mattina successiva al funerale di Rylan, troppo presto perché al castello ci fosse fermento. Quasi tutto il personale e gli abitanti della fortezza seguivano gli orari degli Ascesi, e i servitori, così come il duca e la duchessa, credevano che io fossi ancora a letto. Solo Tawny sapeva dove mi trovavo. Nemmeno Rylan aveva conosciuto il mio segreto, dato che al mattino era Vikter a badare alla mia sicurezza.

«Come va la testa?» mi chiese.

«Bene.»

Inarcò un sopracciglio biondo. «Davvero?»

Tutto ciò che rimaneva dell’attacco che avevo subito era un pallido livido bluastro sulla tempia. La pelle intorno alla bocca non era più rossa. Nell’interno della guancia c’era un taglietto superficiale in cui riusciva sempre a infilarsi ogni minimo pizzico di sale, ma, a parte questo, stavo bene. Non l’avrei mai ammesso, ma il suggerimento di Vikter di prendermela con calma e riposare, il giorno precedente, probabilmente c’entrava parecchio.

Dopo il funerale di Rylan, avevo trascorso la giornata nelle mie stanze a leggere uno dei libri che Tawny mi aveva portato. Era la storia di due amanti sfortunati, eppure predestinati. Il titolo era finito nella pila dei testi che mi era proibito leggere, ovvero più o meno tutto ciò che non comprendeva materiale educativo o gli insegnamenti degli dei. La sera prima avevo finito il romanzo e mi ero chiesta se Tawny potesse portarmene un altro. Ne dubitavo. I preparativi per il Rito imminente occupavano gran parte del suo tempo libero. Tutte le volte che Tawny non poteva portarmi da leggere, mi intrufolavo nell’Ateneo e mi servivo da sola. Peraltro, considerato il mio tentato rapimento e quello che era successo a Malessa, non desideravo che lei gironzolasse da sola.

Il che voleva dire che neanch’io avrei dovuto vagare senza protezione, ma l’Ateneo non era molto lontano: si trovava solo a un paio di alloggi dal castello, ed era facile raggiungerlo passando dal Boschetto. Una volta travestita, nessuno avrebbe capito che ero la Vergine. Eppure, imbarcarmi in una simile impresa poteva comunque essere troppo rischioso.

«La notte scorsa mi ha fatto un po’ male, ma non da quando mi sono svegliata.» Feci una pausa. «Il pugno di quell’uomo era debole.»

Vikter sbuffò e si avvicinò, mentre infilava la corta spada nel fodero. «Hai dormito bene?»

Presi in considerazione l’idea di mentire. «Ho l’aria di non avere dormito?»

Lui si fermò di fronte a me. «È raro che tu dorma bene. Immagino che quello che è accaduto a Rylan abbia esacerbato i tuoi problemi.»

«Oh, ti preoccupi per me?» lo presi in giro. «Sei davvero un buon padre.»

La sua espressione si fece piatta. «Smettila di cambiare argomento, Poppy.»

«Perché? Mi riesce così bene.»

«In realtà non direi.»

Roteai gli occhi con un sospiro. «Ci ho messo del tempo ad addormentarmi, ma è da un po’ che non ho incubi.»

Gli occhi di Vikter scrutarono i miei come se volesse stabilire se avessi mentito… E probabilmente era in grado di capirlo. Non stavo dicendo il falso… non esattamente. Non sperimentavo momenti di panico notturno da quando ero andata alla Perla Rossa, e non capivo perché.

Forse addormentarmi pensando a quello che era successo con Hawke aveva in qualche modo distolto la mia mente dai traumi passati. Se era così… be’, a caval donato non si guarda in bocca.

Prima che Vikter potesse farmi altre domande in proposito, cambiai argomento. «Secondo te, chi prenderà il posto di Rylan?»

«Non lo so, ma immagino che verrà deciso a breve.»

Mi venne subito in mente Hawke, anche se non poteva davvero essere un candidato, non quando c’erano così tante altre guardie dell’Alzata che avevano servito molto più a lungo di lui. Ma la domanda in qualche modo mi sfuggì comunque. «Credi che sarà la guardia giunta di recente dalla capitale? Quella che si è messa al mio fianco al funerale?»

E che mi aveva garantito che non mi avrebbero più fatto del male?

«Intendi Hawke?» chiese Vikter, assicurandosi al fianco l’altra spada.

«Oh, si chiama così?»

Lui sollevò gli occhi sui miei. «Sei una pessima bugiarda.»

«Non è vero!» Mi accigliai. «Su che cosa dovrei mentire?»

«Non sapevi come si chiama?»

Pregando che il rossore delle guance non mi tradisse, incrociai le braccia sul petto. «Perché avrei dovuto?»

«Ogni donna di questa città sa il suo nome.»

«E questo che c’entra?»

Le sue labbra fremettero come se stesse trattenendo un sorriso. «È un giovane molto attraente, o almeno così mi è stato detto, e non c’è nulla di male se l’hai notato.» Distolse lo sguardo. «Se ti fermi a questo.»

Arrossii violentemente: avevo fatto decisamente di più che limitarmi a notarlo. «E quando avrei potuto avere la possibilità di fare altro, il che, se posso ricordartelo, è strettamente proibito?»

Vikter rise di nuovo, e io mi accigliai ancora di più. «E quando mai i divieti ti hanno fermata?»

«Quella è una cosa diversa» dissi, chiedendomi se gli dei mi avrebbero abbattuta con un fulmine per quella menzogna spudorata.

«In effetti mi fa piacere che tu abbia tirato fuori l’argomento. Devi farla finita con le tue piccole avventure.»

Ebbi un tuffo allo stomaco. «Non so di cosa tu stia parlando.»

Lui mi ignorò. «In passato non ho detto granché su te e Tawny che ve la svignate, ma dopo quello che è successo in giardino la cosa non può continuare.»

Richiusi la bocca di scatto.

«Credevi che non lo sapessi?» Vikter fece un sorriso lento e compiaciuto. «Ti controllo anche quando pensi che non lo stia facendo.»

«Be’, è una cosa… inquietante.» Non volevo nemmeno sapere se aveva scoperto che ero stata alla Perla Rossa.

«Inquietante o no, ricordati di quello che ho detto, la prossima volta che penserai di svignartela nel cuore della notte.» Prima che potessi replicare, aggiunse: «E per quanto riguarda Hawke, direi che la sua età rende improbabile che possa diventare la tua guardia personale».

«Ma?» Il cuore iniziò a battermi forte, e mi accorsi a malapena che Vikter mi aveva tolto di mano il bicchiere.

«Ma è straordinariamente dotato, più di molte delle guardie reali che abbiamo al momento. Non intendevo lusingarlo, ieri, quando ho detto quelle cose. Da quando è arrivato gode di grande stima nella capitale, e sembra avere un rapporto stretto con il Comandante Jansen.»

Vikter finì il mio bicchiere d’acqua. «Non sarei poi così sorpreso se venisse effettivamente promosso al posto degli altri.»

Adesso il cuore mi martellava contro le costole. «Ma… ma diventare la mia guardia personale? Di sicuro sarebbe più adatto qualcuno che conosce meglio la città.»

«In realtà una persona nuova avrebbe meno probabilità di agire in modo superficiale, e quindi sarebbe meglio» rispose lui. «Vedrebbe le cose in maniera diversa rispetto a noi che viviamo qui da anni, se non da sempre. Noterebbe debolezze e minacce che potremmo avere trascurato a causa dell’abitudine. E ieri ha dimostrato che non è un problema per lui farsi avanti mentre tutti gli altri rimangono in disparte.»

Aveva tutto senso, ma… ma Hawke non poteva diventare la mia guardia personale. Se fosse successo, avrei dovuto parlargli, e se lo avessi fatto, prima o poi mi avrebbe riconosciuta.

A quel punto, se fosse stato deciso a fare carriera, avrebbe di sicuro riferito tutto al comandante, con il quale aveva un rapporto di confidenza. In fin dei conti, le uniche guardie che riuscivano a sopravvivere fino a una pensione ben retribuita erano le guardie reali che proteggevano il duca e la duchessa di Masadonia.

Durante il giorno, quando il sole era alto, la Sala Grande in cui si tenevano i Consigli Cittadini settimanali e le celebrazioni importanti era una delle stanze più belle dell’intero castello.

Ogni sei metri circa c’erano finestre più alte di quelle della maggior parte delle abitazioni della città, che consentivano al sole caldo e brillante di inondare le pareti e i pavimenti in lucida pietra calcarea, e permettevano di osservare i giardini sulla sinistra e i Templi in cima alle Colline Eterne.

Pesanti e candidi arazzi, lunghi quanto le finestre, coprivano gli spazi tra di esse. Lo Stemma Reale dorato era intarsiato al centro di ciascuno stendardo. Colonne color crema, punteggiate d’oro e d’argento, si ergevano per tutta la stanza. Fiori di gelsomino bianchi e viola si riversavano a cascata da urne d’argento e profumavano l’aria con il loro aroma dolce e terroso.

Il soffitto dipinto a mano era il vero capolavoro della Sala Grande. In alto si vedevano tutti gli dei che vegliavano su di noi. Ione e Rhahar. La fiammeggiante Aios dai capelli rossi, Dea dell’Amore, della Fertilità e della Bellezza. Saion dalla pelle scura, Dio del Cielo e del Suolo: egli era terra, vento e acqua. Accanto a lui c’era Theon, il Dio degli Accordi e della Guerra, e la sua gemella Lailah, la Dea della Pace e della Vendetta. La bruna Dea della Caccia, Bele, con il suo arco. Il pallido Perus dai capelli bianchi, Dio del Rito e della Prosperità. Accanto a lui stava Rhain, il Dio degli Uomini e della Fine. E poi c’era quella da cui prendevo il nome, Penellaphe, la Dea della Saggezza, della Lealtà e del Dovere… fatto che trovavo assai ironico. I loro volti erano raffigurati con dettagli straordinariamente vividi… tutti tranne Nyktos, il re degli dei, che aveva creato la prima Benedizione. Il suo volto e la sua figura non erano altro che sfavillante, argentea luce lunare.

Ma in quel momento, mentre me ne stavo in piedi sulla pedana rialzata, alla sinistra della duchessa seduta, dalle finestre non si riversavano raggi solari: c’era solo l’oscurità della notte. Diversi candelabri da parete e lampade a olio, sistemati in modo da fornire più luce possibile, emanavano un bagliore dorato in tutta la sala.

Gli dei non camminavano sotto il sole, perciò nemmeno gli Ascesi lo facevano.

Come aveva fatto Ian ad adattarsi a una vita simile? Se c’era il sole, un tempo lo si sarebbe trovato all’aperto, intento a scarabocchiare su uno dei suoi diari le storie che la sua mente inventava. Scriveva alla luce della luna, adesso? Presto o tardi lo avrei scoperto, se fossi stata riconvocata nella capitale.

Quel pensiero mi rese ansiosa, ma lo accantonai prima che la sensazione di disagio si diffondesse. Scrutai la folla che riempiva la Sala Grande, fingendo di non cercare un volto in particolare e fallendo miseramente nel mio intento.

Sapevo che Hawke era là. C’era sempre, ma ancora non lo avevo visto.

Nervosa, sciolsi le dita che avevo intrecciato e mi torsi le mani mentre un uomo – un banchiere – continuava a elogiare i Teerman.

«Stai bene?» Vikter inclinò la testa, curandosi di tenere la voce sufficientemente bassa per farsi sentire solo da me.

Mi voltai leggermente verso sinistra e annuii. «Perché me lo domandi?»

«Perché da quando la serata è iniziata ti stai agitando come se avessi il vestito pieno di ragni» rispose lui.

Il vestito pieno di ragni?

Se avessi avuto degli insetti sulle vesti, non mi sarei agitata. Avrei urlato e mi sarei spogliata, incurante dei testimoni.

Non sapevo di preciso perché fossi così irrequieta. Probabilmente era per una miriade di motivi, considerando tutto quello che era successo, ma sembrava ci fosse… di più.

Era cominciato dopo che avevo lasciato Vikter: un lieve mal di testa che avevo attribuito al pugno e agli eccessivi sforzi dell’allenamento. Ovviamente non l’avrei mai ammesso… Dopo pranzo, comunque, il mal di testa era svanito ed era stato rimpiazzato da un nervosismo insistente. Mi ricordò gli effetti della miscela di chicchi di caffè che Ian aveva inviato dalla capitale. Tawny e io ne avevamo bevuta solo mezza tazza e per entrambe era stato impossibile stare ferme o sedute per il resto della giornata.

Sforzandomi di rimanere immobile, spostai lo sguardo a sinistra, verso i giardini, dove in passato avevo trovato grande pace. Sentii una fitta al petto. Anche se non mi era stato proibito di farlo, non li avevo visitati né la sera precedente, né quel giorno. Sapevo che se vi avessi messo piede mi sarei ritrovata circondata da guardie.

Non riuscivo nemmeno a immaginare come sarebbe andato il Rito imminente.

Ma non credevo che sarei mai potuta tornare nei giardini, per quanto li amassi e adorassi le loro rose. Perfino in quel momento, soltanto osservare dalla finestra il profilo in ombra degli alberi rievocava in me il ricordo dello sguardo vuoto di Rylan.

Con il respiro affannoso, riportai l’attenzione alla Sala. I membri della Corte che erano Ascesi erano i più vicini e sostavano in piedi ai lati della pedana. Dietro di loro si trovavano le Lady e i Lord in Attesa. In quel gruppo c’erano anche le guardie reali, con le spalle coperte da bianchi mantelli adorni dello Stemma Reale. Mercanti e uomini d’affari, abitanti dei villaggi e braccianti affollavano invece la sala, ed erano tutti in quel luogo per avanzare richieste alla Corte, esprimere lamentele o cercare di ingraziarsi il duca e la duchessa.

Molte delle facce che ci fissavano esibivano occhi sgranati e bocche spalancate per via della soggezione che provavano. Per alcuni, si trattava della prima volta al cospetto della bella Duchessa Teerman dai capelli bruni o del duca dall’algido fascino e dai capelli così biondi da sembrare quasi bianchi. La maggior parte dei presenti non si era mai avvicinata tanto a un Asceso.

Avevano l’aria di trovarsi in presenza degli dei, e in un certo senso immagino fosse così. Gli Ascesi erano i discendenti delle divinità, per sangue se non per nascita.

E poi c’ero… io.

Quasi nessuno dei cittadini presenti nella Sala Grande aveva visto la Vergine prima di allora. Per tale ragione, ero vittima di sguardi rapidi e incuriositi. Inoltre, immaginavo che le notizie della morte di Malessa e del mio tentato rapimento si fossero ormai diffuse, ed ero sicura che fossero la ragione per cui la Sala era permeata da un brusio ansioso e interessato.

Tutti sembravano in fermento, tranne Tawny, che dava l’impressione di essere mezza addormentata. A un certo punto soffocò uno sbadiglio, e io dovetti mordermi l’interno della guancia per non scoppiare a ridere. Eravamo lì da quasi due ore, e mi domandavo se il sedere dei Teerman dolesse quanto i miei piedi.

Probabilmente non era così.

Entrambi sembravano solennemente a proprio agio. La duchessa indossava un abito di seta gialla, e perfino io dovevo ammettere che il duca, con i pantaloni neri e la giubba a coda di rondine, aveva un’aria affascinante.

Mi ricordava il serpente pallido in cui mi ero imbattuta una volta vicino alla spiaggia, da bambina: bellissimo da ammirare, ma dal morso pericoloso e letale.

Quando il banchiere iniziò a decantare la grande capacità di comando dei Teerman, soffocai un sospiro e spostai lo sguardo sui Templi…

Fu allora che lo vidi.

Hawke.

Appena lo individuai, un lieve, strano, buffo formicolio mi pervase il petto. La guardia se ne stava tra due colonne, con le braccia incrociate sull’ampio petto. Come il giorno precedente, sul suo volto non c’era traccia del mezzo sorrisetto ironico che ricordavo, e il suo aspetto si sarebbe detto austero, se non fosse stato per le ciocche ribelli di capelli del colore della mezzanotte che gli ricadevano sulla fronte, addolcendone l’espressione.

Un brivido di consapevolezza mi scivolò lungo la schiena, facendomi venire la pelle d’oca. Hawke aveva sollevato lo sguardo sulla pedana, fino al punto in cui mi trovavo io, e perfino attraverso la sala e da sotto il velo avrei giurato che i nostri sguardi si fossero incontrati. L’aria abbandonò i miei polmoni, e l’intera Sala Grande sembrò svanire nel silenzio mentre ci fissavamo.

Con il cuore che palpitava, aprii e richiusi le mani in uno spasmo. Era vero che mi stava fissando, ma lo stesso si poteva dire degli altri. Perfino gli Ascesi erano soliti posare gli occhi su di me. Ero un elemento curioso, un’attrazione secondaria che veniva esposta una volta alla settimana come monito, per ricordare che gli dei potevano intervenire attivamente nelle nascite e nelle vite.

Ma provavo ancora una strana sensazione alle gambe, e il mio polso correva come se avessi passato l’ora precedente a provare diverse tecniche di combattimento con Vikter.

Magnus, un intendente del duca, annunciò gli interventi successivi, attirando la mia attenzione. «Il signore e la signora Tulis hanno chiesto di parlare, Vostre Grazie.»

Vestiti con abiti semplici, ma puliti, due personaggi biondi emersero dal gruppo di cittadini in attesa in fondo alla sala. Il marito cingeva con un braccio le spalle della moglie, più minuta, tenendola vicino a sé. La donna aveva i capelli scostati dal viso esangue e non indossava gioielli; sorreggeva però un fagottino tutto fasciato. Nell’istante in cui si avvicinarono alla pedana, il fagotto si mosse e due paia di braccine e gambette tesero la copertina azzurra. I coniugi tennero lo sguardo puntato a terra e le teste lievemente chine, finché la duchessa non diede loro il permesso di alzare gli occhi.

«Potete parlare» disse, con una voce dalla femminilità ammaliante e infinitamente dolce. Sembrava che non fosse capace di gridare o agitarsi in preda all’ira. E in effetti entrambe le cose erano vere, tanto che per la centesima volta mi chiesi che cos’avessero esattamente in comune lei e il duca. Non riuscivo a ricordare l’ultima volta che li avevo visti toccarsi… Non che fosse necessario nelle unioni tra
Ascesi.

A differenza di altre coppie, i signori Tulis condividevano evidentemente un grande affetto l’uno per l’altra. Lo si capiva da come il signor Tulis cingeva la moglie, e dal modo in cui lei alzò lo sguardo, prima su di lui e poi sulla duchessa.

«Grazie.» Gli occhi nervosi della donna si spostarono verso il duca. «Vostra Grazia.»

Il Duca Teerman inclinò il capo in risposta. «È un piacere per noi» le disse. «Che cosa possiamo fare per voi e la vostra famiglia?»

«Siamo qui per presentare nostro figlio» spiegò la donna, voltando il fagotto verso la pedana. Il bimbo sbatté i grandi occhi, con il visino rugoso e rosso.

La duchessa si sporse, tenendo le mani intrecciate in grembo. «È un amore. Come si chiama?»

«Tobias» rispose il padre. «Assomiglia a mia moglie ed è grazioso come una bambola, se posso permettermi, Vostra Grazia.»

Curvai le labbra in un sorriso.

«Lo è davvero.» La duchessa annuì. «Spero che voi e il vostro piccolo stiate bene.»

«Sì. Siamo entrambi in perfetta salute, e lui è una gioia, una vera benedizione.» La signora Tulis si raddrizzò, tenendo il bimbo vicino al petto. «Gli vogliamo molto bene.»

«È il vostro primogenito?» domandò il duca.

Il signor Tulis deglutì visibilmente. «No, Vostra Grazia. È il terzo.»

La duchessa batté le mani. «Allora Tobias è davvero una benedizione, e riceverà l’onore di servire gli dei.»

«È per questo che siamo qui, Vostra Grazia.» L’uomo spostò il braccio che avvolgeva la moglie. «Il nostro primo figlio – il nostro caro Jamie – è… è venuto a mancare non più di tre mesi fa.» Il signor Tulis si schiarì la gola. «Una malattia del sangue, ci hanno detto i Guaritori. Si è manifestata molto in fretta. Un giorno stava bene e se ne andava in giro a cacciarsi nei guai… e la mattina dopo non si è svegliato più. Ha resistito qualche giorno, ma poi ci ha lasciato.»

«Mi spiace moltissimo.» Il dolore riempì la voce della duchessa, che si appoggiò di nuovo allo schienale. «E il vostro secondogenito?»

«Lo abbiamo perso per la stessa malattia che ci ha portato via Jamie.» La madre iniziò a tremare. «Aveva appena un anno.»

Avevano perso due figli? Il mio cuore si addolorò per loro. Nonostante i lutti che avevo sofferto, non potevo minimamente comprendere l’angoscia che un genitore doveva provare per la perdita di un figlio, tantomeno due. Se l’avessi percepita, sapevo che avrei voluto intervenire per lenirla, e non potevo. Non in quel luogo. Avevo bloccato il mio dono.

«È una vera tragedia. Spero che troviate consolazione sapendo che il vostro caro Jamie ha raggiunto gli dei, insieme al vostro secondogenito.»

«Sì. È ciò che ci ha fatto superare la sua scomparsa.» La signora Tulis cullò dolcemente il neonato. «Veniamo oggi nella speranza… per chiedere…» La voce le si spense, come se non riuscisse a concludere.

Fu il marito a continuare in sua vece. «Veniamo qui oggi a chiedere che nostro figlio non venga preso in considerazione per il Rito, quando raggiungerà l’età giusta.»

Un ansito percorse tutta la sala, echeggiando nello stesso momento in ogni dove.

Il signor Tulis irrigidì le spalle, ma non si arrese. «So che stiamo chiedendo moltissimo, a voi e agli dei. È il nostro terzo figlio, ma abbiamo perso i primi due, e i Guaritori ritengono che mia moglie non debba più avere bambini, nonostante ne desideri ancora. È l’unico figlio che ci resta. E sarà l’ultimo.»

«Ma è comunque il vostro terzogenito» rispose il duca, e io sentii un vuoto nel petto. «Che il vostro primogenito sia vivo e sano oppure no, non cambia il fatto che il vostro secondo nato, e ora il terzo, siano destinati a servire gli dei.»

«Ma non abbiamo altri figli, Vostra Grazia.» Il labbro inferiore della signora Tulis tremò, e un respiro affannoso le scosse il petto. «Se restassi incinta potrei morire. Noi…»

«Lo capisco.» Il tono del duca non cambiò. «E voi capite che se anche gli dei ci hanno concesso grande potere e autorità, noi non possiamo cambiare il Rito.»

«Ma potete parlare con loro.» Il signor Tulis fece per avvicinarsi, ma si fermò di colpo quando diverse guardie avanzarono nella sua direzione.

Dagli astanti si levò un basso mormorio. Lanciai un’occhiata verso Hawke, che osservava il pubblico svolgimento di quella che consideravo la terza tragedia dei Tulis, con espressione dura quanto la pietra calcarea che ci circondava. Aveva forse un fratello o una sorella nati dopo di lui, che erano stati consegnati al Rito? Uno che sarebbe andato a servire a Corte ricevendo la Benedizione, e l’altro che non avrebbe mai più potuto rivedere?

«Potete intercedere con gli dei per noi, vero?» domandò il signor Tulis, con voce ruvida come sabbia. «Siamo brave persone.»

«Vi prego.» Il volto della madre era rigato di lacrime, e a me prudevano le dita per il bisogno di toccarla, di alleviare il suo dolore anche solo per un po’. «Vi imploriamo di tentare, almeno. Sappiamo che gli dei sono misericordiosi. Abbiamo pregato Aios e Nyktos ogni mattina e ogni notte per ricevere questa grazia. Chiediamo solo che…»

«Ciò che chiedete non può essere concesso. Tobias è il vostro terzo figlio, e tale è l’ordine naturale delle cose» affermò la duchessa. Alla donna sfuggì un singhiozzo straziante. «So che è difficile, e ora è un dolore, ma vostro figlio è un dono per i numi, non un dono da parte loro. Ecco perché non potremmo mai chiedere una cosa simile.»

Perché no? Che male avrebbe fatto chiedere? Di sicuro, gli dei avevano abbastanza servitori e un unico ragazzo non avrebbe sconvolto l’ordine naturale delle cose.

E poi, in passato, erano state fatte eccezioni. Mio fratello ne era la prova.

Molti dei presenti sembravano paralizzati dallo stupore, come se non riuscissero a credere all’audacia di quella richiesta. Altri, tuttavia, mostravano espressioni piene di compassione, segnate dalla rabbia. Fissavano la pedana – il Duca e la Duchessa Teerman – e anche me.

«Vi prego. Vi supplico. Vi supplico.» Il padre cadde in ginocchio, con le mani giunte come in preghiera.

Trasalii e provai una stretta al petto. In quel momento, senza sapere bene come o perché, il controllo che stavo esercitando sul mio dono s’infranse e le mie percezioni si aprirono. Inspirai bruscamente, inondata da un dolore gelido come il ghiaccio. La potenza di ciò che sentivo mi fece tremare le ginocchia e riuscivo a malapena a respirare.

L’attimo seguente sentii la mano di Vikter sulla schiena, e seppi che era pronto ad afferrarmi in caso avessi voluto raggiungere i Tulis. Mi ci volle tutta la forza che avevo in corpo per rimanere lì, senza fare nulla.

Distolsi lo sguardo dal signor Tulis e mi costrinsi a fare respiri profondi e regolari. Con gli occhi sgranati percorsi la folla, immaginando di vedere un muro, uno grande quanto l’Alzata, così alto e spesso che nessuna sofferenza altrui potesse passare. Aveva già funzionato in passato, e funzionò anche allora. Le grinfie del dolore allentarono la presa, ma…

Il mio sguardo si fermò su un uomo biondo che sostava diverse file indietro, con il mento chino e gran parte del volto nascosta dalla cortina di capelli che gli erano ricaduti in avanti. Sentii… qualcosa bruciare e perforare la muraglia che avevo eretto, ma non sembrava esattamente angoscia. Era un sentimento caldo, come il dolore fisico, ma dotato di un sapore amaro, che persisteva in fondo alla gola facendomi sentire come se avessi ingoiato dell’acido. L’uomo sicuramente soffriva, ma…

Turbata, chiusi gli occhi e ricostruii il muro finché non sentii altro che il martellare del mio cuore. Dopo alcuni secondi riuscii a tirare un respiro più profondo e sicuro, e finalmente quella strana sensazione svanì. Aprii gli occhi, mentre il padre implorava.

«Vi prego. Amiamo nostro figlio» pianse. «Vogliamo crescerlo e farlo diventare un brav’uomo, per…»

«Sarà cresciuto nei Templi di Rhahar e Ione, dove si prenderanno cura di lui mentre presterà servizio agli dei, com’è stato fatto fin dalla prima Benedizione.» La voce del duca rivelava che non avrebbe tollerato discussioni, e i singhiozzi della donna si fecero più forti. «Attraverso di noi, i numi proteggono ognuno di voi dagli orrori che si annidano al di là dell’Alzata. Da ciò che giunge nella nebbia. E tutto ciò che dobbiamo fare è fornire loro dei servitori. Siete disposti a far adirare le divinità per tenere a casa un bambino che invecchierà o magari si ammalerà e perirà?»

Il signor Tulis scosse la testa e perse ogni colore in viso. «No, Vostra Grazia, non vorremmo rischiare una cosa simile, ma si tratta di nostro figlio…»

«Questo è ciò che chiedete, tuttavia» lo interruppe il duca. «A un mese dalla nascita, lo consegnerete ai Sommi Sacerdoti, e ne sarete onorati.»

Incapace di osservare ancora i volti rigati di lacrime dei Tulis, chiusi di nuovo gli occhi e desiderai di poter coprire il suono dei loro cuori infranti. Tuttavia, se anche vi fossi riuscita, non li avrei dimenticati. E, a essere sincera, avevo bisogno di sentire il loro dolore. Avevo bisogno di assistervi e ricordarlo. Servire gli dei nei Templi era un onore, ma la loro era comunque una perdita.

«Frenate le vostre lacrime» implorò la duchessa. «Sapete che ciò che gli dei hanno richiesto è la cosa giusta.»

Ma non sembrava affatto equo. Quale danno avrebbe arrecato chiedere che un unico bambino rimanesse a casa con i propri genitori? E che crescesse, vivesse, e diventasse un utile membro della società? Né il duca né la duchessa erano disposti a piegarsi per concedere un favore così semplice. Come potevano dei mortali rimanere così indifferenti di fronte alle suppliche di quella madre, al suo pianto, e alla dolorosa disperazione di suo marito?

Ma conoscevo già la risposta.

Gli Ascesi non erano più mortali.