Mi ci vollero meno di ventiquattro ore per fare di nuovo qualcosa di assolutamente avventato. Questa volta, tuttavia, avrei potuto finire per pentirmene. Di tutti i modi in cui avevo creduto di poter morire, non mi era mai venuto in mente che potesse accadere prendendo in prestito un libro dall’Ateneo.
Avevo fatto cose molto più pericolose nei miei diciotto anni di vita e c’erano state parecchie occasioni in cui avrei avuto maggiori probabilità di morire. Una valanga di situazioni dalle quali, con mia somma sorpresa, ero uscita indenne e con tutte le membra al loro posto. Eppure mi ritrovai lì, a un passo dal precipitare nella morte, mentre stringevo il presunto diario di una certa signorina Willa Colyns, il libro di cui Loren e Dafina avevano parlato. Ovviamente, si trattava del genere di lettura che la Sacerdotessa Analia avrebbe proibito espressamente e per la quale, se fossi stata sorpresa in suo possesso, lei avrebbe avuto un motivo in più per pensarmi incapace di rispettare i miei doveri di Vergine.
Perciò, naturalmente, dovevo leggerlo.
Mi ero annoiata a morte per tutto il giorno. Avevo già letto almeno tre volte tutti i libri che Tawny mi aveva portato di nascosto, e non riuscivo a costringermi a rileggere anche solo una delle pagine che ormai conoscevo a memoria. Tawny era stata di nuovo convocata dalla duchessa e dalle Madame, e io sapevo che avrei potuto non rivederla fino al mattino successivo. Perciò, avevo davanti un’altra giornata da trascorrere fissando quattro mura di pietra, senza interruzioni a parte l’addestramento con Vikter. E più rimanevo nella mia camera, senza niente che mi occupasse la mente, più pensavo a quello che Hawke aveva detto su tutti i diritti di cui ero stata privata.
Non che non ne fossi più che consapevole, ma non si trattava di qualcosa che gli altri sembravano notare. Forse perché erano talmente abituati alla mia presenza, da vivere tutto ciò che mi circondava come la norma. Ma per Hawke, nuovo a quell’incarico, niente pareva normale.
E fu quel pensiero a spingermi ad attraversare da sola il Boschetto dei Desideri fino all’Ateneo, mentre Hawke faceva la guardia fuori dalla porta della mia camera e credeva che fossi all’interno. Vikter era… Be’, non avevo idea di dove si trovasse. Quel mattino i suoi occhi erano parsi così stanchi e tristi che avevo avuto la sensazione che fosse stato chiamato durante la notte per occuparsi di uno dei maledetti, senza invitarmi.
Avevo anche la sensazione che, da quel momento in poi, non mi avrebbe più coinvolta e questo mi faceva arrabbiare. Naturalmente decisi di discuterne con lui alla prima occasione utile: non mi sarei fatta tagliare fuori se potevo aiutare la gente, e lui avrebbe dovuto accettarlo e basta.
In quel momento, tuttavia, dovevo concentrarmi sul non morire o, peggio ancora, sul non farmi beccare.
L’aria fredda della notte mi schiaffeggiava: ero in piedi, schiacciata contro il muro di pietra, e pregavo tutti gli dei che il cornicione largo trenta centimetri non cedesse sotto il mio peso. Dubitavo che durante la sua costruzione avessero considerato il fatto che, a un certo punto, avrebbe dovuto sorreggere una Vergine completamente idiota. Ma come ero arrivata in quella situazione?
Intrufolarmi nell’Ateneo non era stato difficile. Mentre mi affrettavo lungo il vicolo, verso l’entrata posteriore della biblioteca, con il mantello nero e informe, la fidata maschera al solito posto e il volto nascosto sotto il cappuccio, dubitavo che qualcuno per le strade di Masadonia sarebbe stato in grado di capire se ero uomo o donna, figuriamoci la Vergine. Anche percorrere il reticolo di stretti corridoi e scale senza essere vista era stato tutto sommato facile.
Quando serviva sapevo essere un fantasma, silenzioso e immobile.
I problemi erano però cominciati quando avevo trovato il diario rilegato in pelle della signorina Colyns. Anziché andarmene e tornare immediatamente al castello, come avrei dovuto, mi ero infilata in una stanza vuota.
Il fatto era che nella mia camera stavo impazzendo e detestavo l’idea di tornarci. Lì, al contrario, c’erano divani dagli spessi cuscini che mi chiamavano, anche se l’armadietto pieno di liquori, la cui presenza mi era parsa bizzarra in una biblioteca, mi aveva confusa. Mi ero seduta accanto alle grandi finestre affacciate sul panorama della città sottostante e avevo aperto il libro consunto. Alla fine della prima pagina le mie guance erano in fiamme, avevo scoperto che cosa succede quando ci si bacia non sulla bocca o sul seno, come aveva fatto Hawke prima di sapere chi fossi, ma in posti ben più intimi.
Non riuscivo a smettere di leggere: divoravo quelle pagine color crema.
La signorina Willa Colyns aveva certamente vissuto una vita interessante, in compagnia di molte persone affascinanti. Ero arrivata alla parte in cui parlava della sua breve avventura con il re, che non riuscivo nemmeno a immaginare – né desideravo farlo – quando sentii una voce fuori dalla stanza. Una voce che non avrei mai creduto di sentire nell’Ateneo.
Quella del duca.
Udire la sua voce significava che ero stata così assorbita dalla lettura, da non accorgermi che il sole era tramontato.
Non ero stata convocata da lui la notte o il giorno precedenti. A causa dei preparativi del Rito, mi era stata concessa una temporanea tregua, e presumevo che fosse lo stesso anche per Hawke, dato che era ancora la mia guardia. Ma quella tregua sarebbe giunta a una rapida fine se il duca mi avesse scoperta.
Ecco perché adesso mi trovavo in bilico sul cornicione di pietra fuori da quella che si era rivelata essere la stanza personale del duca all’interno dell’Ateneo. L’unica grazia che mi era stata concessa era che la finestra da cui ero fuggita non dava sulla strada, bensì sul Boschetto dei Desideri, al riparo da sguardi indiscreti.
Solo i falchi potevano vedermi… o assistere alla mia caduta.
Il tintinnio del ghiaccio contro il vetro mi spinse a soffocare un gemito. Il duca era nella stanza da almeno trenta minuti, e avrei scommesso che fosse già al secondo bicchiere di whisky. Non avevo idea di che cosa stesse facendo. Con il Rito destinato a iniziare nel giro di poche ore, immaginavo che Teerman sarebbe stato impegnato a incontrare i nuovi Lord e Lady in Attesa, e i genitori che avrebbero consegnato i terzogeniti ai Templi. E invece se ne stava lì a bere whisky da so…
Sentii bussare alla porta. Chiusi gli occhi e appoggiai la nuca contro il muro. Compagnia? Davvero aveva ospiti?
Forse gli dei mi avevano osservata per tutto il tempo, e quella era un’altra punizione.
«Entra» disse il duca, e pochi secondi dopo sentii la porta richiudersi con uno scatto. «Sei in ritardo.»
Oh, cielo. Riconoscevo quel tono freddo e piatto. Il duca non era contento.
«Le mie scuse, Vostra Grazia. Sono venuto non appena ho potuto» fu la risposta. Era una voce maschile, una che non riconobbi immediatamente, il che significava che poteva appartenere a un sacco di persone diverse. Lord Ascesi. Intendenti. Mercanti. Guardie.
«Non abbastanza in fretta» replicò il duca, e io rabbrividii per il malcapitato che senza dubbio in quel momento veniva fissato con grande disapprovazione. «Spero che tu abbia qualcosa per me. Ciò contribuirebbe a ristabilire la mia fiducia in te.»
«Sì, Vostra Grazia. Ci è voluto un po’, come sapete non è un tipo loquace.»
«No, non lo sono mai una volta sottratti all’occhio del pubblico, quando non possono dare spettacolo a parole» commentò il duca. «Immagino che tu abbia dovuto essere estremamente convincente per indurlo a parlare.»
«Sì.» Vi fu una risata roca, poi: «Non è un Atlantiano. Questo è confermato».
«Che peccato» disse il duca, e io mi accigliai. Perché avrebbe dovuto essere una cattiva notizia?
«Ho scoperto il suo nome. Lev Barron, il primo figlio di Alexander e Maggie Barron. Aveva due fratelli, il secondo morì di… malattia prima del suo Rito, e il terzo fu dato ai Templi tre anni fa. Non era noto come persona sospetta, e non ci aspettavamo il comportamento che ha avuto durante l’assemblea.»
Stavano parlando del Caduto… quello che aveva scagliato la mano del Craven mentre il duca e la duchessa parlavano al popolo.
«Avete indagato sulla sua famiglia?» chiese il duca.
«Sì. Il padre è deceduto. La madre vive da sola nel Distretto Inferiore. È stata utile per farlo parlare.»
Il duca ridacchiò, e quel suono mi fece rivoltare lo stomaco. «Che cos’altro avete appreso?»
«Non credo che avesse molti legami all’interno della comunità dei Caduti. Sostiene di non avere mai incontrato l’Oscuro, né crede che si trovi in città.»
Un’ondata di sollievo mi invase nonostante il vento che sollevava i bordi del mio mantello.
«E tu gli hai creduto?» chiese il duca.
«Gli ho dato una buona ragione per non mentire» rispose l’uomo, che presumevo fosse una delle guardie. Ripensai alla madre dell’uomo: era stata lei una delle ragioni che lo avevano spinto a parlare?
Quell’ipotesi divenne per me un peso sulla bocca dello stomaco. Era necessario occuparsi dei Caduti con severità, ma non ero certa di approvare che i loro familiari venissero utilizzati per estorcere informazioni.
«E ti ha detto nulla delle sue affermazioni sui terzogeniti?»
«Ha detto solo che sapeva la verità… che non stavano servendo gli dei, e che presto tutti lo avrebbero saputo.»
«Non ha detto che cosa ritiene sia vero?»
Voltai la testa verso la finestra, praticamente trattenendo il fiato. Morivo dalla voglia di sapere che cosa credeva stesse succedendo.
«No, Vostra Grazia. L’unica altra informazione che sono riuscito a estorcergli è stata come è riuscito a entrare in possesso della mano di un Craven» disse. E quello, pensai, era bene saperlo. «A quanto pare, l’ha staccata dal corpo di una delle guardie infettate e tornate in città. Ha aiutato la famiglia ad abbattere la guardia dopo il cambiamento.»
«Morte con dignità.» Il duca sbuffò, e io sgranai gli occhi. Lo… lo sapeva? Sapeva di noi? «Questi cuori misericordiosi saranno la rovina dell’intera città, uno di questi giorni.»
Era un’affermazione eccessiva, ma non avevo considerato che nella rete avrebbero potuto esserci dei Caduti.
«Ti ha per caso detto chi sono le persone coinvolte nelle uccisioni dei nuovi Craven?» chiese il duca.
«No, non ha fatto nomi.»
«Anche questo è un peccato. Vorrei davvero sapere chi non ci ha contattato e perché.» Il duca sospirò come se non conoscere quella risposta fosse la cosa peggiore di tutte. «Hai altro da riferire?»
«No, Vostra Grazia.»
A questo non vi fu replica immediata, poi però il duca chiese: «Il Caduto è ancora vivo?».
«Per adesso.»
«Bene.» Mi parve di sentire il duca alzarsi, e sperai che ciò significasse che era pronto ad andarsene. Vi prego, dei, fate che se ne stia andando. «Credo che andrò a trovarlo io stesso.»
Inarcai le sopracciglia: quella sì che era una sorpresa.
«Come desiderate.» Ci fu un istante di silenzio. «Dobbiamo prepararci per un processo?»
Quasi mi venne da ridere. Ai Caduti non era concesso un vero processo. Venivano esposti al pubblico durante la lettura delle accuse contro di loro. Dopodiché seguiva una rapida esecuzione.
«Dopo che sarò andato da lui, non ce ne sarà bisogno» disse il duca. Rimasi a bocca aperta.
Il senso era chiaro. Se il processo non avesse avuto luogo, significava che non ci sarebbe stata un’esecuzione pubblica, e l’unica ragione possibile per una simile circostanza era che il Caduto fosse già morto. Morto precedentemente, mentre era in cella. Di solito si pensava che accadesse per suicidio o a causa di una guardia troppo zelante. Forse, però, poteva essere il duca a farsi giustizia da sé.
Lo stesso Asceso che dubitavo si fosse sporcato le mani di una sola goccia di sangue fin dai tempi della Guerra dei Due Re.
Non avrei dovuto esserne sorpresa. Il duca aveva una grossa vena di crudeltà e ferocia, ma la teneva sempre ben celata sotto la maschera dell’educazione. Non avrei nemmeno dovuto essere turbata dall’idea del Caduto che veniva ucciso senza un finto processo. I Caduti sostenevano l’Oscuro, e anche se alcuni di loro non erano coinvolti in rivolte e stragi, le loro parole da sole avevano piantato semi capaci di causare spargimenti di sangue in più di un’occasione.
Eppure… eppure l’idea di una persona uccisa in una cella buia e umida, per mano di un Asceso che era a stento meglio di qualsiasi Atlantiano, mi sconvolgeva.
Finalmente la porta si aprì e si richiuse e non vi fu altro che silenzio. Attesi, tendendo l’orecchio. Non sentii nulla. Chiedendomi perché il duca avesse deciso di fissare quell’incontro nell’Ateneo, e sorpresa dal fatto che conoscesse così bene la nostra rete, mi spostai lentamente sul cornicione. Stringendo il diario al petto con dita insensibili, mi avvicinai alla finestra…
Dentro la stanza sentii uno scatto. Mi bloccai. Era la porta che si chiudeva? O che veniva chiusa a chiave? Oh, dei, se era stata chiusa a chiave avrei dovuto forzarla… ma la porta, ricordai, si poteva chiudere a chiave solo dall’interno… Era entrato qualcun altro? Il duca? Non poteva sapere che ero lì, a meno che di colpo non fosse in grado di vedere attraverso le pareti. Chi altri…?
«Sei ancora là fuori, principessa?»
Al suono della sua voce, dischiusi le labbra e sgranai gli occhi. Hawke. Era Hawke. In quella stanza. Non riuscivo a crederci.
«Oppure sei precipitata?» continuò. Valutai rapidamente i vantaggi di saltare giù. «Spero davvero che non sia così, dato che sono piuttosto sicuro che si rifletterebbe negativamente su di me, considerato che credevo ti trovassi nella tua stanza.» Una pausa. «E che ti stessi comportando bene. Non che fossi su un cornicione, a metri e metri da terra, per ragioni che non posso nemmeno immaginare, ma che muoio dalla voglia di sentire.»
«Maledizione» sussurrai, guardandomi intorno come se potessi trovare un’altra via di fuga. Una reazione certamente stupida: a meno che di colpo non mi fossero spuntate le ali, l’unico passaggio possibile era attraverso la finestra.
Un istante dopo, Hawke sporse fuori la testa e mi guardò. Il morbido bagliore della lampada si rifletté sui suoi zigomi mentre inarcava un sopracciglio.
«Ciao» squittii.
Lui mi fissò per un momento. «Vieni dentro.»
Non mi mossi.
Con un sospiro così pesante che avrebbe dovuto far tremare i muri, allungò la mano verso di me. «Subito.»
«Potresti dire per favore» borbottai.
Lui strinse gli occhi. «Ci sono molte cose che potrei dirti e dovresti essere grata che me le stia tenendo per me.»
«Come ti pare» brontolai. «Spostati.»
Hawke attese, ma visto che non prendevo la sua mano, scomparve all’interno, mugugnando sottovoce: «Se cadi finirai in grossi guai».
«Se cado sarò morta, perciò non credo che potrei essere anche nei guai.»
«Poppy» sbottò lui, e io non riuscii a trattenermi. Sogghignai.
Era la prima volta che mi chiamava così? Credo che lo fosse. Mi spostai con cautela sul cornicione, afferrai il bordo superiore della finestra e mi chinai. Hawke era accanto al divano, ma non appena mi scorse, si mosse a velocità incredibile. Mi ritrassi sorpresa, ma non caddi. Il braccio di Hawke mi strinse intorno alla vita. Un secondo dopo mi ritrovai dentro la stanza, con i piedi sul solido pavimento e il diario schiacciato tra il suo petto e il mio. I nostri corpi si toccavano parecchio. Avevo stomaco e gambe premuti contro i suoi, e quando inspirai riuscii praticamente a sentire il suo profumo di pino e spezie sulla lingua. Prima che potessi dire una parola, lui alzò la mano e strinse con il pugno la parte posteriore del mio cappuccio.
«Non…» iniziai.
Troppo tardi.
Tirò giù il cappuccio. «Una maschera. Risveglia vecchi ricordi.» Il suo sguardo vagò sulle ciocche di capelli che mi erano sfuggite dalla treccia e mi ricadevano sulle guance.
Cercai di scostarmi, arrossendo. Lui non mi lasciò andare. «Capisco che probabilmente sei arrabbiato…»
Hawke rise. «Probabilmente?»
«E va bene. Sei senza dubbio arrabbiato» mi corressi. «Ma posso spiegare.»
«Lo spero proprio, perché ho moltissime domande.» I suoi occhi dorati fissarono i miei con un luccichio. «Prima di tutto, come hai fatto a uscire dalla tua stanza? E poi perché sei finita sul cornicione, in nome degli dei?»
L’ultima cosa che volevo era dirgli del vecchio ingresso di servizio. Cercai di mettere dello spazio tra noi. «Puoi lasciarmi andare adesso.»
«Posso, ma non so se dovrei. Potresti fare qualcosa di più sconsiderato che arrampicarti su un cornicione non più largo di trenta centimetri.»
Strinsi gli occhi. «Non sono caduta.»
«Come se questo migliorasse la situazione.»
«Non ho detto questo. Sto solo sottolineando che avevo la situazione completamente sotto controllo.»
Hawke sbatté le palpebre, poi rise, una risata fragorosa, che rimbombò dentro di me suscitandomi un’intensa ondata di brividi caldi. Grazie al cielo, parve non accorgersi della mia reazione. «Avevi la situazione sotto controllo? Ho paura di sapere cosa succede quando non ce l’lhai.»
Non replicai, perché dubitavo che qualunque cosa potessi o volessi dire mi avrebbe aiutata. Né lo faceva la nostra vicinanza. Come sull’Alzata, il modo in cui mi teneva stretta a sé mi ricordava il nostro incontro alla Perla Rossa, e non mi serviva aiuto per rammentarlo. Era difficile pensare con chiarezza quando mi teneva così vicina. Mi dimenai, cercando di liberarmi, ma il risultato fu che le parti inferiori dei nostri corpi si toccarono ancora di più.
Hawke mi strinse più forte con il braccio e mi parve che la sua presa fosse cambiata. Era come se non mi stesse più tenendo ferma dov’ero, bensì… bensì come se mi stesse sostenendo. In un abbraccio. Il mio stomaco si contorse mentre lentamente alzavo gli occhi sui suoi.
Lui mi fissò, e le linee intorno alla bocca si fecero più marcate, mentre il silenzio tra noi si prolungava. Sapevo che avrei dovuto esigere che mi lasciasse. Meglio ancora, avrei dovuto costringerlo. Sapevo come sfuggire a una presa, ma… ma non mi mossi. Nemmeno quando sollevò l’altra mano e posò le dita appena sotto la maschera.
Rimanere lì, permettergli di toccarmi, era probabilmente la tortura più dolce a cui mi fossi mai sottoposta. Hawke esitò, e io mi chiesi se stesse aspettando di vedere cosa avrei fatto, cosa avrei detto. Ma io non feci nulla, e i suoi occhi divennero di un color ambra bruciante, intenso. Le dita si allontanarono dalla maschera e lentamente tracciarono la curva del mio zigomo. Seguiva con lo sguardo il percorso dei suoi polpastrelli, e la mia pelle pareva vibrare. Mosse le dita sul mio viso e sulle labbra dischiuse. Inspirai in un brusco ansito, con il petto che di colpo mi si serrò. Lui chinò il mento, e quando abbassò la testa mi mancò il fiato. Ogni muscolo del mio corpo sembrò tendersi in un inebriante miscuglio di panico ed eccitazione. C’era una certa decisione nel modo in cui aveva chiuso le palpebre e si protendeva verso di me. Stava per baciarmi. Le sue labbra calarono oltre la mia guancia, lasciandosi dietro una scia di fuoco, e il mio cuore prese a danzare. Sapevo quello che avrei dovuto fare, ma non lo feci. Forse Hawke aveva ragione quando aveva detto che potevo avere tutto ciò che volevo quando indossavo una maschera. Avevo la possibilità di fingere che nessuno sapesse chi ero. Aveva certamente ragione.
Chiusi gli occhi e non mi mossi. Hawke era stato il mio primo bacio, ma se mi avesse baciata in quel momento, quello… quello sarebbe stato il nostro vero primo bacio. Sapeva chi ero. Mi aveva vista senza velo. Sapeva.
E io lo volevo… volevo lui.