27

Semisdraiata sul davanzale, fissavo attraverso la finestra le torce accese in lontananza al di là dell’Alzata. Gli occhi mi dolevano per la pressione delle lacrime non versate.

E avrei voluto poterle versare, ma era come se il collegamento tra me e le mie emozioni fosse stato tranciato. Questo non significava che non soffrissi per Vikter – dei, il dolore mi scuoteva da capo a piedi ogni volta che mi veniva in mente il suo nome – ma nella settimana e mezza che era trascorsa dalla sua morte non avevo praticamente provato nient’altro che questo: una pena acuta che mi trapassava il petto. Nessuna tristezza. Nessuna paura. Solo dolore e rabbia… così tanta rabbia.

Forse era anche perché non avevo partecipato al suo funerale. Non ero andata a nessuno dei funerali, in realtà, e i morti erano stati così tanti che avevano dovuto tenere anche dieci esequie in contemporanea. Me lo aveva raccontato Tawny.

Ma non partecipare non era stata una mia scelta. Per la maggior parte del tempo avevo dormito. Dormivo molto, anche giorni interi: sonno pesante e momenti di veglia annebbiata. Non ricordavo nemmeno che Tawny mi avesse aiutata a lavarmi via il sangue di dosso e mi avesse messa a letto. Sapevo di averle parlato, ma non rammentavo una parola. Avevo la strana impressione di non essere stata sola mentre dormivo, che ci fossero state mani ruvide che mi carezzavano le guance e dita che mi scostavano i capelli dal viso. Avevo anche un vaghissimo ricordo di Hawke che mi parlava a sussurri, a volte mentre la camera era invasa dalla luce del giorno, a volte durante la notte. Persino in quel momento mi sembrava di sentire il suo tocco sul volto, sui capelli. Era stato l’unico collegamento con la realtà durante il mio lungo sonno.

Strinsi forte gli occhi finché anche quella sensazione se ne andò. Poi li riaprii.

Solo quattro giorni dopo l’attacco avevo saputo che Hawke aveva usato una sorta di punto di pressione sul mio collo per farmi perdere i sensi. Mi ero svegliata più tardi in camera, e avevo scoperto di non avere più voce: a forza di urlare l’avevo consumata. C’era Hawke lì con me, e anche Tawny, la duchessa e un Guaritore.

Mi avevano offerto un sonnifero e per la prima volta in vita mia avevo accettato. E avrei continuato a prenderlo se Hawke non lo avesse portato via dalla stanza, qualche giorno dopo.

A quel punto mi era stato riferito che l’attacco all’Alzata non era stato l’unico di quella notte: i Caduti avevano dato alle fiamme molte delle case patrizie di Perledoro, attirando numerose guardie sia dall’Alzata che dal castello. Anche Hawke era accorso lì dopo aver lasciato il giardino, e questo spiegava la fuliggine sul suo volto.

Era stata una mossa intelligente da parte del nemico, dovevo ammetterlo: con le guardie distratte dagli incendi, i Caduti avevano potuto muoversi liberamente nella notte e far strage delle sentinelle intorno al castello ancora prima che queste si potessero accorgere di non essere sole. Il massacro era cominciato prima che gli armati accorsi a Perledoro potessero essere richiamati indietro.

Nessuno sapeva con certezza quale fosse il messaggio dietro quell’attacco. Non si sapeva nemmeno se fossi di nuovo io l’obiettivo: nessun Caduto era stato preso vivo, e quelli che erano sfuggiti alla cattura si erano dileguati nella notte.

Gli Ascesi avevano fatto quel che aveva detto la duchessa: per una volta si erano sporcati le mani, ma erano arrivati tardi, quando quasi tutti erano già stati massacrati. I pochi sopravvissuti erano così traumatizzati che la maggior parte di loro non riusciva nemmeno a ricordare l’accaduto.

Le vittime erano più di un centinaio.

Dei, avevo voglia di tornare a dormire.

Almeno nel sonno non avrei pensato al cadavere del duca impalato e avvolto dalle fiamme, né all’occhio azzurro di Dafina, né a Loren che cercava di raggiungere l’amica solo per essere uccisa a sua volta. Non avrei ricordato com’era stato arrancare sopra i corpi dei morti e dei morenti, senza poter fare nulla per aiutarli. Non avrei rivisto davanti agli occhi le maschere da Wolven, o il sorriso che Vikter mi aveva rivolto. Non avrei risentito la sua voce che mi diceva quanto fosse fiero di me, o le sue ultime parole con cui mi pregava di perdonarlo per non avermi saputa proteggere. Nel sonno non avrei rammentato che il mio dono mi aveva abbandonata quando più ne avrei avuto bisogno.

Avrei voluto non avere mai detto quello che avevo detto in giardino.

Avrei voluto… avrei voluto non essere mai andata al Rito, o sotto il salice. Se fossi rimasta nelle mie stanze come tutti si aspettavano, non ci saremmo trovati nel cuore della battaglia. L’attacco sarebbe avvenuto lo stesso e ci sarebbero stati comunque tanti morti, ma forse Vikter non sarebbe stato tra loro.

Eppure, una vocetta in un angolo della mia mente mi diceva che Vikter sarebbe corso a combattere non appena avesse saputo che cosa stava succedendo, e che io sarei andata con lui.

Mi diceva che la morte era venuta lì per lui quella sera, e lo avrebbe trovato in qualunque caso.

Nei giorni che avevo trascorso immersa nel nulla non avevo più pensato nemmeno a quello che avevo fatto a Lord Mazeen e a ciò che avevo provato in quel momento.

O che non avevo provato.

Non c’era un solo briciolo di rimorso dentro di me. Strinsi i pugni fino a sentire le unghie conficcarsi nei palmi: lo avrei rifatto in qualunque momento. Anzi, avrei avuto voglia di rifarlo, e il pensiero mi inquietava.

Nel sonno non ci pensavo. Non provavo niente nei confronti di nulla.

Ma adesso ero sveglia, con la sola compagnia dei miei pensieri, del dolore e della rabbia.

Avrei voluto scovare ogni singolo Caduto esistente e fargli tutto quello che avevo fatto al lord.

E ci provai. Fu la seconda notte senza i sonniferi: indossai la maschera e il mantello e cinsi la spada corta che mi aveva dato Vikter anni prima, perché il mio pugnale era andato perduto nel caos della notte del Rito. Avevo intenzione di fare una visita ad Agnes.

Lei sapeva qualcosa: nulla al mondo avrebbe potuto persuadermi del contrario. Sapeva, e il suo tentativo di avvisarmi non era bastato: il sangue versato quella notte era anche sulle sue mani. Il sangue di Vikter. Il mio mentore e il mio amico, che aveva bevuto la sua cioccolata calda e l’aveva confortata. Lei avrebbe potuto fermare quel che era accaduto.

Hawke mi aveva intercettata a metà strada e mi aveva letteralmente trascinata indietro. In seguito, il baule delle armi era stato portato via dalla mia camera e il vecchio passaggio dei servitori sbarrato dalle scale.

Non mi rimaneva altro che restare seduta. E aspettare.

Ogni sera in cui ero sveglia mi aspettavo la chiamata della duchessa, e la punizione che sarebbe seguita. Avevo commesso un atto talmente proibito che qualunque cosa avessi mai fatto in precedenza sbiadiva nel nulla.

Avevo ucciso un Asceso.

Doveva esserci qualche genere di punizione per quello, non importava che io fossi la Vergine. Mi ero resa indegna.

Bussarono alla porta, e alzai la testa. Hawke entrò a grandi passi e si chiuse la porta alle spalle: indossava l’uniforme nera e il mantello bianco delle guardie reali. Nessuno aveva ancora preso il posto di Vikter, e non sapevo perché. Forse, dopo avere visto quello che ero in grado di fare da sola, la duchessa aveva deciso che in fondo non avevo bisogno di protezione, anche se difendermi da sola non sarebbe stato tanto facile senza l’accesso alle mie armi. O era per via del fatto che avevo già perso tre guardie del corpo in un solo anno. O forse erano morti in così tanti durante l’attacco, che adesso al castello mancava personale armato.

Io e Hawke ci fissammo. Mi irrigidii.

Le cose si erano fatte strane tra di noi.

Non sapevo se fosse per quello che era successo nel giardino e poi con Vikter, o per ciò che avevo fatto dopo la morte di Vikter. Avrebbe potuto essere anche una somma di tutte quelle cose. In ogni caso Hawke ora restava in silenzio quando era in mia presenza, e io non avevo idea di che cosa stesse pensando o provando. Il mio dono era imprigionato dietro un muro talmente spesso che niente al mondo avrebbe potuto aprirvi anche solo una fessura.

Ancora una volta lui rimase zitto e immobile a fissarmi, le braccia incrociate sul petto. Non era la prima volta che faceva così da quando mi ero svegliata. Probabilmente perché, quando aveva tentato di parlarmi, io avevo risposto solo con uno sguardo vuoto.

Anche questo, penso, si aggiungeva ai motivi che avevano reso strane le cose tra di noi.

Il silenzio si prolungò finché non socchiusi gli occhi. «Che c’è?»

«Nulla.»

«Allora cosa sei venuto a fare?»

«Serve un motivo perché io sia qui?»

«Sì.»

«Non è vero.»

«Stai controllando che io non abbia trovato un altro modo per lasciare questa stanza?» lo sfidai.

«So che non puoi lasciare questa stanza, principessa.»

«Smettila di chiamarmi in quel modo.»

«Scusami, mi serve un attimo per ricordare a me stesso che tutto questo è un progresso.»

Mi accigliai. «Un progresso in che senso?»

«Un progresso per te. Non ti stai comportando in maniera molto cortese, ma almeno parli. Questo è già qualcosa.»

«Non sto dicendo nulla di sbagliato» risposi. «Semplicemente non voglio che mi chiami in quel modo.»

«Ah-ah.»

«Fa’ come vuoi.» Distolsi lo sguardo, provavo… Non sapevo nemmeno che cosa provavo. Mi spostai, a disagio, ma il mio fastidio non aveva nulla a che fare con la durezza del davanzale di pietra sotto di me.

Non ero nemmeno arrabbiata con Hawke. Ero arrabbiata con… tutto.

«Io capisco» fece lui a bassa voce.

Lo guardai di nuovo e mi accorsi che si era avvicinato, senza che lo sentissi. Ora era a pochi passi da me. «Davvero?» Alzai le sopracciglia. «Capisci?»

Lui mi fissò di rimando, e in quel momento avvertii qualcosa di diverso dalla rabbia e dal dolore: vergogna. Di colpo mi bruciò dentro come un acido. Ovvio che Hawke capiva, entro certi limiti. Probabilmente meglio della maggior parte delle persone.

«Mi dispiace.»

«Per cosa?» Il mio tono si era ammorbidito.

«Te lo avevo già detto, poco dopo quel che è successo, ma penso che tu non mi abbia sentito.» Ripensai alla vaga sensazione di averlo avuto accanto mentre ero incosciente. «E avrei dovuto ripeterlo: mi dispiace per tutto quello che è accaduto. Vikter era un brav’uomo e, nonostante l’ultima conversazione che abbiamo avuto, lo rispettavo. Mi è dispiaciuto non aver potuto fare nulla.»

Ogni singolo muscolo del mio corpo si irrigidì. «Hawke…»

«Non so se le cose sarebbero andate diversamente se io fossi stato presente» continuò lui. «Ma avrei dovuto esserci, e mi dispiace che non sia stato possibile. Che non ci fosse più nulla da fare quando infine sono arrivato. Mi dispiace…»

«Non c’è nulla di cui tu debba scusarti.» Mi alzai, con le giunture rigide per la lunga immobilità. «Non incolpo te per quello che è successo. Non ce l’ho con te.»

«Lo so.» Fissò la finestra dietro di me e l’Alzata in lontananza. «Ma questo non cambia il fatto che avrei voluto poter fare qualcosa per impedirlo.»

«Ci sono migliaia di cose che anch’io avrei voluto fare diversamente» ammisi, fissandomi le mani. «Se fossi tornata subito qui in camera…»

«Sarebbe successo lo stesso. Non è una responsabilità tua.» Un istante dopo sentii le sue dita sotto il mento, che mi sollevavano il viso per farmi incontrare il suo sguardo. «Non è colpa tua, Poppy. Proprio per niente. Semmai io…» Si interruppe e imprecò sottovoce. «Non farti carico di colpe che appartengono ad altri, capito?»

Sì che avevo capito, ma questo non cambiava nulla. Perciò dissi: «E fanno dieci».

Hawke aggrottò la fronte. «Cosa?»

«È la decima volta che mi chiami Poppy.»

Un angolo della sua bocca si sollevò e apparve una vaghissima traccia della fossetta. «Mi piace chiamarti così. Ma mi piace di più chiamarti principessa.»

«Bastardo.»

Lui abbassò il mento. «Non c’è niente di sbagliato, lo sai?»

«In cosa?»

«In tutto quello che stai provando adesso. E in tutto quello che non sei.»

Una stretta al cuore mi troncò il respiro, e non era solo per il dolore. Questa volta era qualcosa di più lieve, di più caldo. Hawke aveva già passato tutto quello che stavo passando io, per questo comprendeva: ora ne avevo la prova. Non so se fui io a muovermi o se lo fece lui, ma un attimo dopo gli gettai le braccia al collo, e lui mi strinse allo stesso modo. Appoggiai la guancia contro il suo petto, appena sopra il cuore, e quando sentii che posava il mento sulla mia testa ebbi un tremito di sollievo. Quell’abbraccio non avrebbe rimesso a posto il mondo. La rabbia e il dolore erano ancora presenti. Ma Hawke era così caldo e la sua stretta… dei, mi trasmetteva una tale speranza! Era la promessa che non mi sarei sentita per sempre come in quel momento.

Rimanemmo abbracciati ancora per un po’, poi lui si tirò indietro e mi scostò alcune ciocche ribelli dal viso. Quel gesto ormai familiare mi regalò un brivido.

«In realtà avevo davvero un motivo per venire qui: la duchessa ti vuole parlare.»

Sbattei le palpebre. Dunque il momento era arrivato. «E me lo dici solo adesso?»

«Quello di cui abbiamo parlato prima era più importante.»

«Non credo che la duchessa sarebbe d’accordo.» La sua espressione mi fece capire che non gliene importava granché. «È venuto il momento che io conosca la mia punizione per… per quello che ho fatto al lord, non è così?»

Hawke si accigliò. «Se avessi pensato di doverti condurre ad affrontare una punizione, ti avrei portata da tutt’altra parte.»

Mi accorsi che c’era un’altra emozione che ero capace di provare di nuovo: la sorpresa. «E dove?»

«Da qualche parte lontano da qui.» Gli credetti. Lui avrebbe fatto per davvero quello che non aveva mai fatto nessun altro… nemmeno Vikter. «La duchessa ti vuole vedere perché è arrivato un messaggio dalla capitale.»

Quando Tawny venne ad aiutarmi con il velo mi sentii strana. Indossarlo di nuovo dopo tutto quello che era successo e, ancora di più, rendermi conto che l’aspetto del castello era esattamente lo stesso di prima dell’attacco sembrava surreale. L’unica differenza era la Sala Grande, che da quel che potevo vedere era stata sbarrata. Diedi un’occhiata alla stanza in cui Vikter aveva perso la vita: avevano sostituito la porta.

Non serviva che io sapessi altro.

La duchessa era vestita di bianco, come me. Ma nel mio caso erano gli abiti della Vergine, nel suo il colore del lutto. La trovai seduta a quella che era stata la scrivania del duca, intenta a esaminare un foglio. Non era lo stesso scrittoio che c’era nell’ufficio privato di Teerman. Se l’incontro si fosse tenuto lì, non so come avrei reagito.

Ancora non riuscivo a credere che il duca fosse stato assassinato. Di sicuro l’arma del delitto non era stata altro che una coincidenza, ma una parte della mia mente non riusciva a smettere di pensarci.

Quando la porta si chiuse alle nostre spalle, la duchessa alzò la testa. Sembrava… diversa. Non era solo il colore che indossava, o i capelli legati in una semplice acconciatura all’indietro: c’era qualcos’altro, ma non riuscii a decidere che cosa. Oltrepassammo le panche, su cui sedevano altre due persone: il comandante e una guardia reale.

Lo sguardo della duchessa indugiò su di me, e mi domandai se si fosse resa conto che sotto il velo avevo i capelli sciolti. «Spero che tu stia bene.» tacque un attimo. «O almeno meglio dell’ultima volta che ti ho vista.»

«Sto bene» risposi, e non mi sembrò né una menzogna né la verità.

«Ottimo. Siediti, per favore.» indicò una panca e io obbedii.

Tawny sedette con me, Hawke rimase in piedi alla mia sinistra. Dovetti ricorrere a tutte le mie energie per non pensare a quanto in quella situazione mi mancasse Vikter.

«Sono accadute molte cose mentre… riposavi» cominciò la duchessa. «La regina e il re sono stati informati degli ultimi avvenimenti.» Batté il dito affusolato sul foglio che aveva davanti.

La notizia doveva essere giunta alla capitale grazie a un piccione viaggiatore, ma solo un Cacciatore avrebbe potuto recapitare la risposta dei sovrani, qualcuno che aveva cavalcato giorno e notte, cambiando molti destrieri lungo la strada: in genere ci volevano settimane per coprire quella distanza.

«Dopo il tentato rapimento e l’attacco durante il Rito» annunciò la duchessa, «la regina e il re ritengono che tu non sia più al sicuro qui: sei stata richiamata a Carsodonia.»

Sapevo che quel momento sarebbe arrivato. Lo sapevo fin dal giorno del mio tentato rapimento. Il che significava anche che la mia Ascensione si sarebbe tenuta prima del previsto e ciò spiegava la mia totale mancanza di sorpresa; ma non capivo perché in me non ci fosse la minima traccia di ansia o paura.

Provavo solamente un senso di accettazione. E sollievo, perché quel castello, adesso, era l’ultimo posto al mondo in cui avevo voglia di restare. Allo stesso tempo, però, non avevo riflettuto su che cosa sarebbe potuto succedere una volta rientrata nella capitale. Non avevo pensato nemmeno che avrei potuto rivedere Ian. Ero certa di provare un’unica sensazione in quel momento: confusione.

«Mi dispiace» borbottai. «Perché non verrò punita?»

Hawke si voltò verso di me e, anche senza guardarlo, intuii che doveva avere la stessa espressione che mi avrebbe rivolto Vikter.

La duchessa rimase a lungo in silenzio. «Immagino che tu ti riferisca a Lord Mazeen» disse infine.

Mi si annodò lo stomaco. Annuii.

La duchessa piegò la testa di lato. «Ritieni che dovresti essere punita?»

Aprii la bocca per dare il genere di risposta che avrei dato due settimane prima, quando ancora non eravamo stati attaccati, quando ancora mi sforzavo terribilmente di essere ciò che ormai avevo cominciato a credere non sarei stata mai. «Non penso di poter rispondere a questa domanda.»

La curiosità si fece strada sul viso della duchessa. «E perché mai?»

«Perché… non è una questione semplice.» Sentii che Tawny si era spostata in modo da premere la gamba contro la mia. «So che dovrei essere punita.»

«È vero. Lord Mazeen era un Asceso, uno dei più vecchi tra noi.»

Anche Hawke si spostò leggermente verso di me, e avvertii la tensione che irradiava da lui.

«Lo hai fatto a pezzi come un macellaio con un quarto di bue» continuò la duchessa, e io pensai che avrei dovuto provare orrore o disgusto… o una qualunque altra sensazione diversa dalla vampata di gratificazione che mi attraversò in quel momento. «Ma sono certa che avessi le tue ragioni.»

Rimasi a bocca aperta.

La duchessa si sporse a raccogliere una penna. «Conoscevo Bran da molti, molti anni e non c’era granché della sua… personalità che mi fosse ignoto. Speravo per lui che, conoscendoti, si sarebbe comportato in maniera più saggia. A quanto pare mi sbagliavo.»

Mi sporsi in avanti. «Voi… voi sapevate…»

«Io eviterei di fare questa domanda» mi interruppe, gli occhi che non battevano mai le palpebre puntati su di me. «Non ti piacerebbe la mia risposta, e nemmeno la capiresti. D’altronde non mi aspetterei che tu lo facessi. Prendila come una lezione assai necessaria, Penellaphe: alcune verità non fanno altro che distruggere e deteriorare ciò che non cancellano. La verità non rende sempre liberi: soltanto un imbecille nutrito a menzogne per tutta la vita ci può credere.»

Chiusi la bocca e arretrai, tornando a sedermi normalmente, con un respiro profondo. La duchessa sapeva. Aveva sempre saputo del lord e del duca. Magari non i dettagli, ma sapeva.

Affondai le dita nella gonna.

«Tu sei la Vergine» riprese la duchessa. «Per questo non verrai punita. Considerala come una delle tue benedizioni, e non aprire mai più bocca per contestarle.» Un muscolo guizzò sotto uno dei suoi occhi. «E fai un favore a te stessa: non sprecare un solo altro minuto del tuo tempo a pensare a quei due. Puoi stare certa che io non lo farò.»

Fissai la sua mano, e la stretta sulla penna che le aveva fatto sbiancare le nocche si allentò. E solo a quel punto compresi: se il duca trattava me in quel modo, perché avrebbe dovuto trattare diversamente sua moglie? Ripensai al fatto che non li avevo mai visti in atteggiamenti amorevoli l’uno con l’altra, e questo andava anche al di là della natura piuttosto fredda degli Ascesi. Non li avevo mai visti neppure toccarsi. Essere Ascesi non significava avere raggiunto una posizione in cui non si potesse più essere vittime di abusi.

Abbassai lo sguardo e annuii. «Quando… quando partirò per la capitale?»

«Domattina. Al sorgere del sole.»