2

Il signor Bowditch. Radar. Una notte nella Casa di Psycho

1

GIRAI l’angolo, mi fermai davanti al cancello che dava su Sycamore Street e appoggiai la bici alla staccionata. Il cancello, che mi arrivava appena alla vita, non si apriva. Mi sporsi all’interno e vidi una grossa sbarra, arrugginita come il cancello che teneva chiuso. Cercai di farla scorrere, ma era incastrata. Il cane abbaiò di nuovo. Mi sfilai lo zaino, che era pieno di libri, e lo usai come scalino. Scavalcai, sbattendo un ginocchio sul cartello ATTENTI AL CANE e ricadendo sull’altro, dato che una delle mie scarpe da ginnastica era rimasta incastrata. Mi chiesi se sarei riuscito a superare di slancio quello stesso cancello e atterrare sul marciapiede, se il cane avesse deciso di attaccarmi come aveva fatto con Andy. Mi tornò in mente il vecchio proverbio sulla paura che ti mette le ali ai piedi e sperai di non dover scoprire di persona se fosse vero o meno. Io giocavo a football e a baseball, ma il salto in alto lo avevo sempre lasciato ai ragazzi che praticavano l’atletica leggera.

Corsi dietro la casa, con l’erba alta che mi strusciava contro i pantaloni. Non credo di aver visto il capanno, non allora, perché ero impegnato a cercare il cane. Era sulla veranda posteriore. Andy Chen aveva detto che doveva pesare come minimo cinquanta chili, e forse era stato veramente così grosso quando noi eravamo solo dei ragazzini, e le scuole superiori appartenevano ancora al nostro futuro; ma il cane che mi trovavo davanti poteva pesarne al massimo trenta. Era magro, con il pelo a chiazze, la coda malconcia e il muso quasi tutto bianco. Mi vide, scese gli scalini traballanti e cadde quasi, per evitare l’uomo che c’era sdraiato sopra. Venne verso di me, non al galoppo ma al trotto, con un passo zoppicante e artritico.

«Radar, a cuccia», dissi. Non mi aspettavo che ubbidisse, invece si distese nell’erba alta con un gemito. In ogni caso feci un giro bello largo, per raggiungere la veranda.

Il signor Bowditch era disteso sul fianco sinistro. C’era una protuberanza che gli tendeva i pantaloni cachi sopra il ginocchio destro. Non c’era bisogno di essere un medico per capire che la gamba era rotta e, a giudicare dal gonfiore, doveva trattarsi di una gran brutta frattura. Non avrei saputo dire con esattezza quanti anni avesse il signor Bowditch, ma era decisamente vecchio. Aveva i capelli quasi tutti bianchi, anche se da giovane doveva essere stato un autentico pel di carota perché aveva ancora delle striature rossicce: sembrava quasi che anche la sua testa si stesse riempiendo di ruggine. Le rughe sulle guance e intorno alla bocca erano così profonde da sembrare solchi. Faceva freddo, ma il signor Bowditch aveva la fronte imperlata di sudore.

«Ho bisogno di aiuto», disse. «Sono caduto da quella scala di merda.» Provò a indicarla, però il gesto lo fece scivolare sui gradini, strappandogli un gemito di dolore.

«Ha chiamato il 911?» chiesi.

Mi guardò come se fossi stupido. «Il telefono è dentro casa, giovanotto. E io sono qua fuori

Non capii il senso di quelle parole se non più tardi. Il signor Bowditch non possedeva un cellulare. Non aveva mai sentito il bisogno di procurarsene uno e non sapeva quasi che cosa fosse.

Provò di nuovo a muoversi e digrignò i denti. «Gesù, quanto fa male.»

«Allora è meglio che non si muova», dissi.

Chiamai il 911 e riferii che mi serviva un’ambulanza all’angolo tra Pine e Sycamore Street, perché il signor Bowditch era caduto e si era rotto una gamba. Aggiunsi che sembrava una brutta frattura, che vedevo l’osso sporgere dalla gamba dei pantaloni e che anche il ginocchio sembrava molto gonfio. La donna del centralino mi chiese il numero civico e io ripetei la domanda al signor Bowditch.

Mi lanciò la stessa occhiata di poco prima e rispose: «Numero 1».

Girai l’informazione alla centralinista, e lei mi disse che l’ambulanza sarebbe partita subito. Mi suggerì di restare vicino al signor Bowditch, e di tenerlo al caldo.

«Sta già sudando», ribattei.

«Se la frattura è grave come hai detto, probabilmente è l’effetto dello shock.»

«Mmh, okay.»

Radar venne verso di noi zoppicando, le orecchie basse, e ringhiando.

«Ferma lì, signorina», ordinò Bowditch. «A cuccia.»

Radar – una femmina, quindi – si distese ai piedi dei gradini con un’aria quasi sollevata, e cominciò ad ansimare.

Mi tolsi il giubbotto della scuola e feci per stenderlo sopra il signor Bowditch.

«Che diavolo stai facendo?»

«Mi hanno detto di tenerla al caldo.»

«Ma io ho già caldo.»

Mi resi conto che non era vero, perché aveva cominciato a tremare. Chinò il mento per guardare il mio giubbotto.

«Sei alle superiori, eh?»

«Sì, signore.»

«Giallo e rosso. Quindi vai alla Hillview.»

«Esatto.»

«Pratichi degli sport?»

«Football e baseball.»

«Gli Hedgehogs. Un nome…» Provò a muoversi e gli sfuggì un urlo di dolore. Radar drizzò le orecchie e gli lanciò un’occhiata allarmata. «Un nome veramente stupido

Non potevo dargli torto. «Le conviene restare fermo, signor Bowditch.»

«Questi maledetti gradini mi stanno dando il tormento. Avrei dovuto restare a terra, ma credevo di farcela a salire fino alla veranda. E poi a entrare in casa. Tra poco farà un freddo del cazzo, qui fuori.»

Pensai che faceva già un freddo del cazzo.

«Sono contento che tu sia entrato. Hai sentito i latrati del mio cane, scommetto.»

«Sì. Ho sentito prima Radar, poi la sua voce che chiedeva aiuto», risposi. Guardai la veranda. Vedevo la porta, ma ero quasi sicuro che non saremmo riusciti a raggiungerla se non si fosse alzato reggendosi sul ginocchio sano. E avevo seri dubbi che potesse riuscirci.

Il signor Bowditch seguì il mio sguardo. «C’è una porticina per il cane. Avevo pensato di strisciare fino alla veranda e di entrare da lì.» Fece una smorfia. «Non è che per caso hai un antidolorifico con te? Un’aspirina o qualcosa di più forte? Visto che giochi a football e a baseball?»

Scossi il capo. In lontananza, sentivo il suono di una sirena. «E lei? Ha qualcosa per il dolore?»

Ebbe un’esitazione, poi annuì. «Sì, dentro casa. Prendi il corridoio e va’ dritto. C’è un piccolo bagno, subito dopo la cucina. Dovrebbe esserci un flacone di Empirin nell’armadietto dei medicinali. Non toccare nient’altro.»

«Certo che no.» Sapevo che era vecchio e che soffriva terribilmente, ma ero comunque un po’ infastidito dalle implicazioni delle sue parole.

Si allungò verso di me e mi afferrò per la maglietta. «E non ficcare il naso.»

Mi liberai dalla sua presa. «Ho detto che non lo farò.»

Salii i gradini. Il signor Bowditch disse: «Radar! Va’ con lui!»

Radar salì gli scalini zoppicando e aspettò che aprissi la porta invece di usare lo sportellino inserito nel pannello inferiore. Mi seguì lungo il corridoio, che era buio e sorprendente. Un lato era ingombro di vecchie riviste impilate e legate con lo spago. Alcune le conoscevo di nome, come Life e Newsweek, ma ce n’erano altre – Collier’s, Dig, Confidential e All Man – delle quali non avevo mai sentito parlare. Il lato opposto era pieno di libri, quasi tutti vecchi e con il tipico odore che hanno i libri vecchi. Probabilmente è un odore che non piace a tutti, a me invece sì. È odore di muffa, ma di muffa buona.

La cucina era piena di vecchi apparecchi: la cucina a gas era una Hotpoint, il lavello di porcellana era rigato di ruggine e i rubinetti avevano ancora le manopole a croce, mentre il pavimento di linoleum era così consumato che non riuscivo a riconoscerne il disegno. Ma, in compenso, era tutto pulitissimo. Nella piattaia sopra il lavello c’erano un piatto, una tazza e un solo set di posate – forchetta, coltello e cucchiaio –, il che mi provocò un senso di tristezza. Sul pavimento c’era una ciotola pulita con la scritta RADAR sul bordo, e anche questo mi intristì.

Entrai nel bagno, che non era molto più grande di un ripostiglio: c’erano soltanto la tazza con il coperchio sollevato e altri anelli di ruggine sulla porcellana e un lavabo con sopra uno specchio. Aprii lo specchio e mi trovai davanti un mucchio di medicinali da banco che sembravano appena usciti dall’Arca di Noè. Su un flacone al centro della mensola campeggiava la scritta EMPIRIN. Quando lo afferrai, vidi una pallina subito dietro, e pensai si trattasse di una pasticca di barbiturici.

Radar era rimasta in cucina perché nel bagno non c’era spazio sufficiente per entrambi. Presi la tazza dalla piattaia, la riempii dal rubinetto della cucina e tornai indietro lungo il Corridoio della Lettura con Radar che trotterellava alle mie spalle. Quando uscii, il suono della sirena si era avvicinato di parecchio. Il signor Bowditch era disteso, con la testa appoggiata su un avambraccio.

«Tutto bene?» gli chiesi.

Sollevò il capo in modo che potessi vedere il suo viso sudato e gli occhi sparuti e cerchiati di scuro. «Ti sembra che stia bene?»

«Direi di no, ma non sono sicuro che dovrebbe prendere queste pillole. Sul flacone c’è scritto che scadevano nell’agosto del 2004.»

«Dammene tre.»

«Cavolo, signor Bowditch, forse dovrebbe aspettare l’ambulanza, avranno sicuramente…»

«Dammele e basta. Quello che non mi uccide mi fortifica. Non credo tu sappia di chi è questa frase, o sbaglio? Ormai non vi insegnano più niente.»

«Nietzsche», risposi. «Il crepuscolo degli idoli. Nell’ultimo trimestre ho seguito un corso di filosofia.»

«Buon per te.» Si frugò nelle tasche dei pantaloni con un gemito di dolore, ma non si fermò fino a quando non ebbe tirato fuori un mazzo di chiavi bello pesante. «Chiudi la porta, giovanotto. La chiave è quella color argento, con la testa quadrata. Poi ridammi il mazzo.»

Tirai fuori dal mazzo la chiave color argento e gli restituii il resto. Il signor Bowditch si rimise il mazzo in tasca, con un altro gemito. La sirena era vicina, ormai. Sperai che avessero più fortuna di me con la sbarra del cancello. In caso contrario, sarebbero stati costretti a scardinarlo. Feci per alzarmi, poi guardai il cane. Aveva la testa appoggiata a terra, tra le due zampe anteriori. E non staccava mai gli occhi dal signor Bowditch.

«E Radar?» chiesi.

Mi lanciò la solita occhiata di commiserazione. «Può entrare dalla porticina e uscire quando deve fare i suoi bisogni.»

Un ragazzino o un adulto non troppo alto che volesse dare un’occhiata dentro casa e rubare qualcosa potrebbe usare anche lui quella porticina, pensai. «Certo, ma chi le darà da mangiare?»

Probabilmente non è necessario che ve lo dica, ma la mia prima impressione del signor Bowditch non era stata affatto positiva. Pensavo che fosse un orso, che avesse un pessimo carattere e che vivesse da solo non certo per caso; una moglie lo avrebbe fatto fuori, o lo avrebbe lasciato. Ma quando guardò il suo vecchio pastore tedesco, vidi qualcos’altro in lui: amore misto a sgomento. Avete presente quando qualcuno dice di non sapere più dove sbattere la testa? Be’, l’espressione del signor Bowditch suggeriva proprio questo. Doveva soffrire le pene dell’inferno, ma in quel momento l’unica cosa a cui riusciva a pensare – e l’unica cosa che gli importava – era il suo cane.

«Merda. Merda, merda. Non posso lasciarla qui. Devo portarla con me in quel maledetto ospedale.»

La sirena arrivò di fronte a casa e si spense. Sentii le portiere che sbattevano.

«Non glielo permetteranno», dissi. «Dovrebbe saperlo.»

Strinse le labbra. «E allora non ci vado neanch’io.»

Altroché, se ci andrai, pensai. E poi pensai anche un’altra cosa, anche se non mi parve farina del mio sacco. Sono sicuro che lo fosse, ma la prima impressione fu diversa. Avevamo fatto un patto. Ed è questo il momento di rispettarlo, altro che raccogliere l’immondizia sul ciglio di una strada.

«Ehi?» gridò una voce. «Siamo arrivati. C’è qualcuno che può aprire il cancello?»

«Lasci la chiave a me», dissi. «Posso darle da mangiare io. Mi dica solo la quantità e…»

«Ehi? Rispondete o entriamo!»

«…e gli orari.»

Ora il signor Bowditch sudava copiosamente e le occhiaie erano ancora più scure, come lividi. «Falli entrare, prima che sfondino quel cavolo di cancello», disse, poi fece un sospiro stentato e faticoso. «Che cazzo di casino.»

2

L’uomo e la donna sul marciapiede indossavano dei giubbotti con la scritta Arcadia County Hospital. Avevano una barella con una tonnellata di attrezzature sopra. Avevano spostato il mio zaino e l’uomo stava cercando in tutti i modi di far scorrere la sbarra, ma con gli stessi risultati che avevo ottenuto io.

«È dietro la casa», dissi. «L’ho sentito che chiamava aiuto.»

«Benissimo, però non riesco ad aprire questo maledetto cancello. Proviamoci insieme, giovanotto.»

Afferrai la sbarra e cominciammo a tirare finché non scivolò sui cardini, schiacciandomi il pollice. Sul momento me ne accorsi appena, ma quella sera l’unghia mi diventò quasi nera.

Girarono intorno alla casa, con la barella che sobbalzava in mezzo all’erba alta e le attrezzature che tintinnavano e ballavano la giga. Radar sbucò da dietro l’angolo, zoppicante, ringhiando nel tentativo di spaventarli. Stava facendo del suo meglio, ma dopo tutta quell’agitazione era evidente che non aveva più molte energie.

«A cuccia, Radar», le dissi, e lei si distese a terra, quasi con gratitudine. I due infermieri preferirono comunque girarle alla larga.

Videro il signor Bowditch sdraiato sui gradini della veranda e si misero subito a scaricare le loro attrezzature. La donna cercò di rassicurarlo dicendo che la situazione non era poi così grave, e che gli avrebbero dato subito qualcosa per il dolore.

«Ha già preso delle pillole», dissi, e tirai fuori dalla tasca il flacone di Empirin. L’infermiere lo guardò e disse: «Gesù, ma è roba antica. Non fa più nessun effetto, sicuramente. CeeCee, del Demerol. Venti cc dovrebbero bastare».

Radar era tornata. Fece un ringhio dimostrativo a CeeCee, poi si avvicinò al suo padrone, uggiolando. Bowditch le accarezzò la testa con la mano a coppa e, quando la ritrasse, il cane gli si accoccolò accanto, sui gradini.

«Quel cane le ha salvato la vita, signore», dissi. «Non può venire in ospedale, ma non può neanche soffrire la fame.»

Gli mostrai la chiave della porta di servizio. La guardò, mentre CeeCee gli faceva un’iniezione senza quasi che se ne accorgesse. Fece un altro sospiro carico di fatica. «E va bene, tanto non ho scelta, che diavolo. Il suo cibo è in un grosso secchio di plastica nella dispensa. Dietro la porta. Ne prende un misurino alle sei e un altro alle sei del mattino, se mi trattengono in ospedale per la notte.» Guardò l’infermiere. «Pensa che mi tratterranno?»

«Non lo so, signore. Questo va oltre le mie competenze», rispose l’infermiere, aprendo il manicotto per misurare la pressione. CeeCee mi diede un’occhiata per farmi capire che sì, lo avrebbero trattenuto per la notte, e sarebbe stato solo l’inizio di una lunga degenza.

«Un misurino stasera alle sei e un altro domattina sempre alle sei. Tutto chiaro.»

«Non so quanto cibo è rimasto nel secchio.» I suoi occhi cominciavano a farsi vitrei. «Se devi comprarne dell’altro va’ da Pet Pantry. Radar mangia solo gli Orijen Regional Red. Niente carne e snack. Un ragazzo che conosce Nietzsche non dovrebbe avere problemi a ricordarlo.»

«Sì, me ne ricorderò.»

L’infermiere aveva appena finito di misurare la pressione, e qualunque cosa avesse registrato non gli era piaciuta affatto. «Ora la spostiamo sulla lettiga, signore. Io mi chiamo Craig, e lei è CeeCee.»

«Io invece sono Charlie Reade», dissi. «E lui è il signor Bowditch. Il nome di battesimo non lo conosco.»

«Howard», disse il signor Bowditch. Fecero per sollevarlo ma lui pregò loro di aspettare. Strinse tra le mani il muso di Radar e la guardò negli occhi. «Fa’ la brava, mi raccomando. Ci vediamo presto.»

Lei uggiolò e gli leccò il viso. Vidi una lacrima scorrere sulla guancia del signor Bowditch. Forse era dolore, ma ne dubito.

«Ci sono dei soldi nel barattolo della farina, in cucina», disse. Poi gli occhi si rianimarono per un istante, e serrò le labbra. «Come non detto. Il barattolo della farina è vuoto. Me n’ero dimenticato. Se hai…»

«Signore», intervenne CeeCee, «dobbiamo assolutamente spostarla sulla…»

Il signor Bowditch le lanciò un’occhiataccia e le chiese di stare zitta ancora qualche istante. Quindi tornò a rivolgersi a me. «Se hai bisogno di comprare un’altra confezione di cibo, pagala con i tuoi soldi e io te li restituirò. Capito?»

«Sì», risposi. Avevo capito anche un’altra cosa. Sebbene gli antidolorifici avessero già cominciato a fare effetto, il signor Bowditch sapeva perfettamente che non sarebbe tornato a casa quella sera, e neanche il giorno dopo.

«D’accordo, allora. Abbi cura di lei. È tutto ciò che mi rimane.» Accarezzò Radar per un’ultima volta, strofinandole le orecchie, poi rivolse un cenno agli infermieri. Quando lo sollevarono, lanciò un urlo, serrando i denti, e Radar abbaiò.

«Giovanotto?»

«Sì?»

«Non ficcare il naso dentro casa.»

Non lo degnai neppure di una risposta. Craig e CeeCee cercarono di tenere la lettiga sollevata da terra per non sballottarlo troppo mentre giravano intorno alla casa. Io li seguii per qualche passo e lanciai un’occhiata alla scala abbandonata in mezzo all’erba alta, quindi al tetto. Probabilmente stava pulendo le grondaie, quando era caduto. O comunque, aveva provato a farlo.

Tornai ai gradini della veranda e mi sedetti. La sirena ripartì, prima a tutto volume e poi sempre più lontana, mentre l’ambulanza scendeva giù per la collina in direzione del maledetto ponte. Radar si voltò in direzione dell’ululato, con le orecchie tese. Provai ad accarezzarla, lei non cercò di mordermi e non ringhiò neppure, perciò lo feci una seconda volta.

«A quanto pare siamo rimasti tu e io, signorina», dissi.

Radar mi appoggiò il muso su una scarpa.

«Non mi ha neanche ringraziato», commentai. «Che vecchio brontolone.»

Ma non ero arrabbiato, in realtà, perché non aveva importanza. Non c’era bisogno che mi ringraziasse. Stavo pagando il mio debito.

3

Telefonai a papà e lo informai di quanto era accaduto mentre giravo intorno alla casa, sperando che non mi avessero rubato lo zaino. Non solo era ancora lì, ma uno degli infermieri si era anche premurato di spostarlo dentro il cancello. Papà mi chiese se c’era qualcosa che potesse fare. Gli risposi di no, e che sarei rimasto dov’ero e avrei studiato fino alle sei. Poi avrei dato da mangiare a Radar e sarei tornato a casa. Disse che avrebbe ordinato del cibo cinese e mi avrebbe aspettato per cenare. Io gli dissi che gli volevo bene e lui rispose che me ne voleva tanto anche lui.

Tirai fuori dallo zaino il lucchetto della bici, pensai di sollevare la mia Schwinn e portarla in giardino, poi cambiai idea e la legai al cancello. Feci un passo indietro e ci mancò poco che non incespicassi su Radar. Lei lanciò un guaito e si scostò.

«Scusa, signorina, scusa.» Mi inginocchiai e tesi una mano. Dopo un paio di secondi lei si avvicinò, la annusò e le diede una leccatina. Con buona pace di Cujo il Terribile.

Tornai dietro la casa con Radar alle calcagna e fu allora che notai la dépendance. Immaginai fosse un capanno degli attrezzi; non era abbastanza grande per ospitare un’auto. Pensai di rimettere dentro la scala e decisi che non era necessario, dato che non minacciava pioggia. Come scoprii in seguito, l’avrei trascinata inutilmente per quasi quaranta metri, perché c’era un grosso lucchetto sulla porta e il signor Bowditch si era portato dietro il resto delle chiavi.

Entrai in casa insieme a Radar, trovai un vecchio interruttore, di quelli che vanno fatti ruotare, e mi avviai lungo il Corridoio della Lettura in direzione della cucina. La luce veniva da una lampada di vetro smerigliato che sembrava uscita dalle scenografie di uno di quei vecchi film che trasmettevano sul canale TCM e che piacevano tanto a papà. Il tavolo della cucina era coperto da una tovaglia cerata a scacchi, stinta ma pulita. Decisi che tutto in quella cucina sembrava preso dal set di un vecchio film. Riuscivo quasi a immaginare Mr Chips che faceva il suo ingresso in tocco e toga. O magari Barbara Stanwyck che diceva a Dick Powell: «Sei arrivato appena in tempo per un drink». Mi sedetti al tavolo, mentre Radar si infilava sotto e si sistemava, con un elegante grugnito. Le dissi che era proprio una brava signorina, e lei si mise a scodinzolare.

«Non preoccuparti, tornerà presto», le dissi. Forse, pensai.

Tirai fuori i libri dallo zaino, feci degli esercizi di matematica, poi mi infilai gli auricolari e ascoltai la canzone francese che ci era stata assegnata per il giorno successivo, un pezzo pop che si intitolava Rien qu’une fois, che significa, più o meno, soltanto una volta. Non era esattamente il mio genere, perché io sono molto più rocchettaro, ma era una di quelle canzoni che più le ascolti, più ti piacciono. Fino a quando non si trasformano in un tormentone, e finisci per odiarle. La ascoltai tre volte di fila, poi provai a cantarla, come avremmo dovuto fare a lezione: «Je suis sûr que tu es celle que j’ai toujours attendue…»

Dopo quel primo verso guardai sotto il tavolo e vidi Radar che mi fissava con le orecchie basse e un’espressione quasi compassionevole. Scoppiai a ridere. «Pietoso, vero?»

Rispose scodinzolando.

«Non prendertela con me: è un compito che mi hanno assegnato. Vuoi sentirla un’altra volta? No? Be’, neppure io.»

Scorsi quattro barattoli identici in fila sul bancone, a sinistra della cucina a gas, con le scritte ZUCCHERO, FARINA, CAFFÈ e BISCOTTI. Avevo una fame bestiale. Se fossi stato a casa, avrei aperto il frigorifero e saccheggiato metà del contenuto, ma ovviamente non ero a casa mia e non ci sarei tornato prima di – controllai l’orologio – un’altra ora. Decisi di aprire il barattolo dei biscotti, visto che non era certo un modo di ficcare il naso. Era pieno zeppo di biscotti alle noci e di marshmallow con la glassa di cioccolato. Decisi che al signor Bowditch non sarebbe importato se ne avessi mangiato uno, dato che ero lì per badare al suo cane. Anzi, potevo concedermene due. Addirittura quattro. A quel punto mi imposi di smettere, non senza fatica. Quei biscotti erano un’autentica delizia.

Guardai il barattolo della farina e ripensai a quando il signor Bowditch mi aveva detto che lì dentro c’erano dei soldi. Poi i suoi occhi si erano rianimati. «Come non detto. Il barattolo della farina è vuoto. Me n’ero dimenticato.» Fui molto tentato di dare un’occhiata, e c’era stato un tempo, non molto lontano, in cui non avrei esitato a farlo, ma le cose erano cambiate, da allora. Tornai a sedermi e aprii il mio manuale di storia.

Lessi una parte bella tosta sul Trattato di Versailles e sulle riparazioni di guerra tedesche, e quando diedi un’altra occhiata al mio orologio (ce n’era uno anche sopra il lavello, ma era fermo), vidi che erano le sei meno un quarto. Decisi che avevo studiato abbastanza, e che era ora di dare da mangiare a Radar.

Avevo pensato che la porta accanto al frigorifero fosse quella della dispensa, e avevo pensato bene. C’era il profumo tipico delle dispense. Tirai la cordicella per accendere la luce e, per un istante, mi dimenticai completamente del pasto da dare al cane. Lo stanzino era pieno di cibo in scatola o essiccato, su tutti e quattro i lati, dal pavimento fino al soffitto. C’erano carne e fagioli in scatola, sardine, cracker, zuppa Campbell’s; pasta e salsa di pomodoro, bottiglie di succo d’uva e di mirtillo, barattoli di gelatina e di marmellata, barattoli di verdure a decine se non a centinaia. Il signor Bowditch era pronto ad affrontare l’apocalisse.

Radar richiamò la mia attenzione con un guaito. Guardai dietro la porta e trovai il secchio di plastica con il suo cibo. Potevano starcene dieci o dodici chili, ma i croccantini coprivano appena il fondo. Se Bowditch fosse rimasto ricoverato per qualche giorno – o addirittura per una settimana –, avrei dovuto comprarne una nuova confezione.

Il misurino era dentro il secchio. Lo riempii fino all’orlo e versai i croccantini nella ciotola con il nome di Radar sul bordo. Il cane si mise subito a mangiare, scodinzolando piano. Era vecchio, ma aveva ancora molto appetito, e la cosa mi parve incoraggiante.

«Sta’ tranquilla, mi raccomando», dissi, infilandomi il giubbotto. «Fa’ la brava, e ci vediamo domattina.»

Solo che non andò così.

4

Io e papà ci facemmo un’abbuffata di cibo cinese e gli raccontai più nei dettagli la mia avventura pomeridiana, cominciando da Bowditch sui gradini per poi passare al Corridoio della Lettura e concludere con la Dispensa del Giorno del Giudizio.

«È un accumulatore compulsivo», commentò papà. «Mi è capitato spesso di vedere spettacoli del genere, di solito dopo che l’accumulatore in questione era morto. Ma la casa è pulita, dicevi?»

Annuii. «La cucina, almeno. Un posto per ogni cosa, e ogni cosa al suo posto. C’era un po’ di polvere sui flaconi di medicine nel mobiletto del bagno, ma per il resto non ne ho visto traccia.»

«E non c’erano automobili.»

«No. E il capanno degli attrezzi era troppo piccolo per mettercene una.»

«Evidentemente si fa consegnare la spesa a domicilio. E c’è sempre Amazon, che entro il 2040 governerà il mondo, lo spauracchio dei gruppi di estrema destra. Mi chiedo solo da dove vengano i suoi soldi, e quanti gliene siano rimasti.»

Me l’ero domandato anch’io. Credo che questo tipo di curiosità sia normale, quando hai rischiato di restare senza un quattrino.

Papà si alzò da tavola. «Mi sono occupato io della cena. Ora ho un po’ di scartoffie da sbrigare. I piatti spettano a te.»

Rassettai la cucina e mi esercitai alla chitarra suonando qualche pezzo blues. (Ero in grado di suonare quasi tutto, purché fosse nella tonalità di Mi.) Di solito andavo avanti fino a quando non mi facevano male le dita, ma non quella sera. Rimisi la mia Yamaha in un angolo e dissi a papà che volevo tornare a casa del signor Bowditch per controllare come stava Radar. Continuavo a pensare a lei, tutta sola lassù. Forse ai cani non importava trovarsi in una situazione come quella, ma forse invece era vero il contrario.

«D’accordo, basta che non decidi di portarlo qui.»

«Portarla. È una femmina.»

«Okay, ma non ho nessuna voglia di sentire un cane triste e abbandonato che ulula alle tre del mattino, maschio o femmina che sia.»

«Non la porterò a casa», dissi. Non era necessario confessargli che l’idea mi era quanto meno passata per la testa.

«E attento a Norman Bates, mi raccomando.»

Lo guardai, stupito.

«Be’? Credevi che non lo sapessi?» Stava sorridendo. «La gente chiama quel posto la Casa di Psycho da molto prima che tu e il tuo amico veniste al mondo, mio piccolo eroe.»

5

La battuta di papà mi aveva strappato un sorriso, ma quando arrivai all’angolo tra Pine e Sycamore Street la voglia di ridere svanì all’istante. Sembrava che la casa torreggiasse in cima alla collina, oscurando il cielo stellato. Ripensai a Norman Bates che diceva: «Mamma! Cos’è tutto questo sangue?» e avrei tanto voluto non aver mai visto quel maledetto film.

Se non altro, aprire il cancello fu più semplice. Usai la torcia del cellulare per girare intorno alla casa. La puntai una sola volta verso uno dei muri e mi pentii subito di averlo fatto. Le finestre erano ricoperte di polvere e con le tende tirate. Sembravano occhi ciechi che riuscivano ugualmente a vedermi e non gradivano affatto la mia intrusione. Svoltai l’angolo e, intanto che mi avviavo verso la veranda, udii un tonfo. Fui colto di sorpresa e feci cadere il cellulare. Mentre precipitava a terra scorsi un’ombra in movimento. Non gridai, ma sentii le palle ritrarsi e cercare rifugio dentro il mio scroto. Rimasi paralizzato mentre l’ombra avanzava ondeggiando verso di me e poi, prima che potessi voltarmi e darmela a gambe, Radar si mise a uggiolare e ad annusarmi le gambe dei pantaloni, cercando di saltarmi addosso. Aveva la schiena e le anche così malconce che poté soltanto provare a spiccare un paio di salti, ricadendo subito. Il tonfo doveva essere stato provocato dalla porticina che si richiudeva alle sue spalle.

Mi inginocchiai e la afferrai, accarezzandole la testa con una mano e grattandola sotto il collare con l’altra. Lei mi leccò la faccia e mi si strinse addosso con tanta forza che rischiai di cadere.

«Va tutto bene», dissi. «Hai avuto paura a stare da sola? Scommetto di sì.» Quando era stata l’ultima volta in cui si era ritrovata da sola, se il signor Bowditch non aveva un’auto e si faceva consegnare la spesa a casa? Forse parecchio tempo prima. «È tutto okay. Andiamo, adesso.»

Recuperai il cellulare, lasciai il tempo alle mie palle di tornare al loro posto, poi mi avviai verso la porta sul retro, con Radar che mi trotterellava così vicino che continuava a sbattermi la testa contro il ginocchio. Tanto tempo prima Andy Chen aveva incontrato un cane mostruoso nel giardino davanti alla Casa di Psycho, o così aveva detto. Ma erano trascorsi anni. Quella che avevo davanti era solo una vecchia signora terrorizzata, che mi aveva sentito arrivare ed era schizzata fuori dalla sua porticina per venirmi incontro.

Salimmo gli scalini sul retro, aprii la porta e usai l’interruttore a scatto per illuminare il Corridoio della Lettura. Controllai la porticina del cane e vidi che c’erano tre piccoli chiavistelli, uno per lato e un terzo sopra lo sportello. Ricordai a me stesso di chiuderli prima di andarmene, per evitare che Radar uscisse e si mettesse a gironzolare. Era probabile che anche il giardino dietro la casa fosse recintato, ma non potevo esserne certo e, per il momento, il cane era sotto la mia responsabilità.

In cucina mi inginocchiai davanti a Radar e la accarezzai sui lati del muso. Lei mi guardò con attenzione, drizzando le orecchie. «Non posso rimanere qui, ma lascerò una luce accesa e tornerò domattina presto per darti da mangiare. Okay?»

Lei uggiolò, mi leccò la mano e andò a piazzarsi davanti alla sua ciotola. Era vuota, ma le diede un paio di leccate e poi mi fissò. Il messaggio era molto chiaro. «Non avrai più niente fino a domattina», le dissi.

Lei si sdraiò a terra e appoggiò il muso su una zampa, senza mai staccarmi gli occhi di dosso.

«Be’…»

Presi il barattolo con la scritta: BISCOTTI. Il signor Bowditch aveva detto niente carne e niente snack, e io decisi che forse aveva inteso dire niente snack a base di carne. La semantica è una cosa meravigliosa, non trovate? Ricordavo vagamente di aver letto o sentito da qualche parte che i cani sono allergici al cioccolato, perciò presi un biscottino alle noci e ne staccai un pezzo, porgendoglielo. Radar lo annusò e lo prese con delicatezza dalle mie dita.

Mi sedetti al tavolo dove avevo fatto i compiti, pensando che dovevo andare via. Era un cane, santo cielo, non un bambino. Forse non le piaceva restare da sola, ma non si sarebbe certo infilata nell’armadietto sotto il lavello per bere della candeggina.

Il mio cellulare si mise a squillare. Era papà. «Tutto a posto lassù?»

«Sì, ma ho fatto bene a tornare. Avevo lasciato aperta la porticina del cane. Quando mi ha sentito arrivare, è uscita.» Preferii non aggiungere che quando avevo visto la sua ombra in movimento mi era apparsa per un istante Janet Leigh nella doccia, che gridava cercando di schivare le coltellate.

«Non è colpa tua. Non puoi mica pensare a tutto. Stai per tornare?»

«Tra poco.» Guardai Radar che guardava me. «Papà, forse dovrei…»

«Non è una buona idea, Charlie. Domani devi andare a scuola. E Radar è un cane adulto. Starà benissimo, stanotte.»

«Ma certo, lo so.»

Radar si sollevò sulle zampe, uno spettacolo un po’ doloroso da vedere. Poi si spostò nel buio di quello che probabilmente era il salotto.

«Resto ancora qualche minuto, non di più. È un bravo cane.»

«Okay.»

Chiusi la telefonata e udii una specie di squittio. Radar tornò con un giocattolo in bocca. Probabilmente si trattava di una scimmietta, ma era stata masticata così tante volte che era difficile stabilirlo. Avevo ancora il cellulare in mano, perciò le scattai una foto. Mi portò il giocattolo e lo lasciò cadere accanto alla mia sedia. I suoi occhi mi suggerivano con chiarezza che cos’avrei dovuto fare.

Con un colpetto, spedii la scimmietta dall’altra parte della stanza. Radar la rincorse zoppicando, la raccolse, la fece squittire due o tre volte per farle capire chi comandava e me la riportò, depositandola di nuovo accanto alla mia sedia. Non faticavo a immaginarla più giovane, più robusta e molto più agile, mentre inseguiva al galoppo quella povera vecchia scimmia (o il suo predecessore). Alla stessa velocità con la quale, secondo Andy, era corsa incontro a lui. Ora quei giorni felici appartenevano al passato, ma Radar provava comunque a fare del suo meglio. La immaginai mentre pensava: Visto quanto sono brava? Fermati qui, posso continuare anche tutta la notte!

In realtà, non ce l’avrebbe fatta e io non potevo fermarmi. Papà mi voleva a casa e, comunque, dubitavo che sarei riuscito a dormire, se fossi rimasto lì. Troppi scricchiolii e gemiti misteriosi, troppe stanze dove poteva esserci qualcosa in agguato… pronto a strisciare verso di me non appena avessi spento la luce.

Radar mi riportò la scimmia. «Ora basta», dissi. «Riposati, signorina.»

Stavo per imboccare il corridoio che portava all’uscita sul retro quando ebbi un’idea. Mi diressi verso la stanza buia dove Radar aveva trovato il suo giocattolo e cercai a tentoni un interruttore, sperando di non sentirmi afferrare la mano (magari dalla madre mummificata di Norman Bates). Quando lo trovai, l’interruttore si accese con uno schiocco.

Come la cucina, il salotto del signor Bowditch era antiquato ma pulito. C’era un divano foderato di marrone scuro. Mi dava l’impressione che fosse stato utilizzato di rado. Chi si era seduto in quella stanza aveva usato soprattutto una poltrona buttata lì al centro di un vecchio tappeto liso. Riuscivo a vedere l’avvallamento lasciato dal sedere ossuto del signor Bowditch. C’era una camicia azzurra di chambray appoggiata allo schienale. La poltrona era piazzata davanti a un televisore preistorico, con un’antenna in cima. Le scattai una foto con il cellulare. Non sapevo se un apparecchio così antico potesse funzionare ancora, ma, a giudicare dai libri impilati su entrambi i lati, molti dei quali contrassegnati da post-it, si sarebbe detto che venisse usata molto poco. Nell’angolo più lontano della stanza c’era un cesto di vimini pieno di giocattoli, a dimostrare quanto il signor Bowditch amasse il suo cane. Radar attraversò il salotto trascinandosi sulle zampe e afferrò un coniglietto imbottito. Me lo portò, con aria speranzosa.

«Non posso», dissi. «Ma tu puoi prendere questa. Probabilmente ha lo stesso odore del tuo padrone.»

Recuperai la camicia dallo schienale della poltrona e la stesi sul pavimento della cucina, accanto alla sua ciotola. Radar la annusò e ci si distese sopra. «Brava signorina», dissi. «Ci vediamo domani mattina.»

Mi avviai verso la porta di servizio, ci ripensai di nuovo e le diedi la sua scimmietta. La masticò un paio di volte, forse solo per compiacermi. Feci tre o quattro passi indietro e scattai un’altra foto con il cellulare. Poi me ne andai, chiudendo a chiave la porticina. Se Radar avesse fatto i suoi bisogni dentro casa, avrei dovuto semplicemente pulire.

Mentre tornavo a casa a piedi, pensai alle grondaie, che dovevano di sicuro essere piene di foglie. Al prato con l’erba alta. La casa andava assolutamente ridipinta, il che andava ben oltre le mie capacità, ma potevo fare qualcosa per quelle finestre sporche, senza parlare della staccionata cadente. Se avessi avuto tempo, ovviamente, e dato che la stagione di baseball stava per cominciare, in realtà non ne avevo affatto. E poi, c’era Radar. Il nostro era stato un amore a prima vista. Per lei quanto per me, forse. E se quest’idea vi sembra strana o troppo sdolcinata, tanto peggio per voi. Come avevo detto a mio padre, Radar era un bravo cane.

Quando andai a letto, quella sera, puntai la sveglia alle cinque. Poi mandai un messaggio al signor Neville, il mio insegnante d’inglese, e gli scrissi che avrei saltato la prima ora, e di avvisare la signora Friedlander che forse non sarei riuscito ad arrivare neanche per la seconda. Spiegai che dovevo andare a trovare una persona in ospedale.