11

Quella notte. Casino a scuola. Papà se ne va. Il pozzo dei mondi. L’Altro. La vecchia. Una brutta sorpresa

1

«TI senti bene, Charlie?»

Alzai gli occhi dal mio libro. Ero immerso nella lettura. Avrei detto che niente potesse togliermi dalla mente il nastro che avevo ascoltato nella cucina del signor Bowditch e che adesso era nascosto sulla mensola in alto del mio armadio, sotto una pila di vecchie magliette, ma quel libro c’era riuscito. Quel romanzo, che avevo preso nella camera da letto del signor Bowditch, aveva evocato un mondo tutto suo. Radar dormiva accanto a me, russando ogni tanto.

«Eh?»

«Ti ho chiesto se ti senti bene. Non hai quasi toccato cibo, e mi sei sembrato con la testa altrove per tutta la sera. Stai pensando al signor Bowditch?»

«Be’, sì.» Era la verità, anche se non esattamente nel senso che credeva papà.

«Senti la sua mancanza.»

«Sì, molto.» Mi allungai e accarezzai la nuca di Radar. Adesso era il mio cane, ed era una mia responsabilità.

«È giusto. Lo trovo naturale. Starai meglio, la prossima settimana?»

«Certo. Perché?»

Fece quel tipo di sospiro paziente che forse solo i padri sanno tirare fuori. «Il ritiro. Te ne ho parlato. Ma avevi altro per la testa, immagino. Parto martedì mattina per trascorrere quattro meravigliosi giorni nei boschi del Nord. È un evento riservato ai dipendenti della Overland, ma Lindy mi ha procurato un invito. Ci saranno diversi seminari sul concetto di responsabilità, che mi interessano fino a un certo punto, ma ce ne sarà anche qualcuno su come esaminare le richieste di rimborso fraudolente, che sarà molto interessante, soprattutto per una società che sta ancora muovendo i primi passi.»

«Come la tua.»

«Come la mia. E ci saranno anche attività di team building.» Alzò gli occhi al cielo.

«Ci sarà anche da bere?»

«Ce ne sarà in abbondanza, ma non per me. Tu riuscirai a cavartela, da solo?»

«Certo.» Sempre che non mi perdessi in quella che il signor Bowditch aveva definito una città ‘pericolosa’, governata da un dio dormiente.

E sempre che decidessi di andarci.

«Me la caverò. E se dovessi avere un problema, ti telefono.»

«Stai sorridendo. Che cosa c’è di divertente?»

«È solo che non ho più dieci anni, papà.» In realtà, a farmi sorridere era stato l’interrogativo se il cellulare avrebbe preso, nel pozzo dei mondi. Avevo il sospetto che la Verizon non coprisse ancora quel territorio.

«Sicuro che non ci sia niente in cui posso esserti utile?»

Diglielo, avanti, pensai.

«No, è tutto a posto. Che cosa sono le attività di team building?»

«Te lo faccio vedere. Alzati.» E si alzò lui per primo. «Ora, piazzati dietro di me.»

Posai il libro sulla sedia e mi misi alle sue spalle.

«Lo scopo è imparare ad avere fiducia nella squadra», disse papà. «Non che io ne abbia una, visto che ho scelto di lavorare da solo, ma so essere molto socievole. Saliamo sugli alberi con una…»

«Alberi? Vi arrampicate sugli alberi?»

«Lo si fa in molti dei ritiri della Overland, e a volte non siamo neanche del tutto sobri. Comunque ci arrampichiamo in due, e uno controlla che non ci si faccia male. Lo faremo tutti a parte Willy Deegan, che ha un pacemaker.»

«Cristo santo, papà.»

«E poi facciamo questo.» Si lasciò cadere all’indietro, senza preavviso, con le mani intrecciate all’altezza dei fianchi. Non facevo più sport, ma avevo ancora i riflessi pronti. Lo afferrai con facilità e, guardandolo dall’alto in basso, vidi che aveva gli occhi chiusi e stava sorridendo. Lo amai, per quel sorriso. Gli diedi una lieve spinta e tornò in posizione eretta. Radar ci stava guardando. Fece una specie di sbuffo e posò di nuovo la testa sulle zampe.

«Dovrò fidarmi di chiunque ci sia dietro di me – probabilmente sarà Norm Richards –, ma mi fido più di te, Charlie. Noi due siamo già legati.»

«È tutto fantastico, papà, ma vedi di non cadere da nessun albero. Mi è già bastato dovermi occupare di una persona che era caduta. Ora posso leggere il mio libro?»

«Fa’ pure.» Lo recuperò dalla sedia e guardò la copertina. «È uno dei tascabili del signor Bowditch?»

«Sì.»

«L’ho letto quando avevo la tua età, forse addirittura qualche anno di meno. Un luna park di pazzi arriva in una piccola città qui in Illinois, se non ricordo male.»

«Il grande spettacolo pandemonio di Mr Dark e Mr Cooger.»

«Tutto quello che ricordo è che c’era una chiromante cieca. Mi faceva una paura fottuta.»

«Sì, la Strega della Polvere è veramente terrificante.»

«Leggi pure, allora. Io guarderò la tv sino a friggermi il cervello. Sta’ solo attento a non farti venire troppi incubi.»

Sempre che riesca a dormire, pensai.

2

Sebbene Radar fosse probabilmente in grado di salire le scale con la nuova medicina in corpo, mi spostai nella cameretta degli ospiti e lei mi seguì, già perfettamente a proprio agio in casa nostra. Mi spogliai restando in mutande, mi sistemai il cuscino extra sotto la testa e continuai a leggere. Sul nastro, il signor Bowditch aveva detto che c’era una grossa meridiana in uno slargo dietro un palazzo, che girava come la giostra nel romanzo di Bradbury, e che quella meridiana era il segreto della sua longevità. La meridiana gli aveva concesso di tornare a Sentry’s Rest abbastanza giovane da impersonare il proprio figlio. Nel Popolo dell’autunno, la giostra ti faceva invecchiare muovendosi in avanti e ringiovanire muovendosi all’indietro. E il signor Bowditch aveva detto qualcos’altro, o lo aveva accennato. «Sono sicuro che quell’uomo… non importa.»

Stava per dire che Bradbury aveva tratto l’idea della giostra dalla meridiana in quell’altro mondo? L’idea di guadagnare o perdere anni di vita salendo su una giostra era folle, e l’idea che uno stimato scrittore americano avesse visitato quel mondo era ancora più folle. Ma lo era veramente? Bradbury aveva trascorso i primi anni dell’infanzia a Waukegan, che si trovava a poco più di cento chilometri da Sentry’s Rest. Una breve incursione nella pagina di Wikipedia dedicata a Bradbury mi convinse che si trattava di una semplice coincidenza, a meno che il futuro scrittore non avesse visitato l’altro mondo quando era ancora piccolissimo. E sempre che ci fosse un altro mondo. Comunque, alla mia età di adesso viveva già a Los Angeles.

Sono sicuro che quell’uomo… non importa.

Misi il segno e posai il libro sul pavimento. Ero quasi certo che Will e Jim sarebbero sopravvissuti alle loro avventure, ma ero anche convinto che non sarebbero mai più stati innocenti come prima. I ragazzi non dovrebbero affrontare simili orrori. Lo sapevo per esperienza.

Mi alzai e mi infilai i pantaloni. «Forza, Rades. Devi uscire ad annaffiare l’erba.»

Mi seguì volentieri, senza il minimo accenno di zoppia. La mattina dopo avrebbe faticato di nuovo a camminare, ma dopo un po’ di esercizio il suo passo sarebbe tornato fluido. Almeno, finora era andata così. Non sarebbe durata ancora per molto, però, se l’assistente del veterinario aveva ragione. Aveva detto che sarebbe rimasta sorpresa se Radar fosse arrivata fino a Halloween, e ormai mancavano solo cinque settimane. Un po’ meno, in realtà.

Radar si mise ad annusare il prato. Io guardai le stelle, individuando la Cintura di Orione e il Gran Carro, il mio vecchio punto di riferimento. Secondo il signor Bowditch c’erano due lune nell’altro mondo, e costellazioni che gli astronomi di questo pianeta non avevano mai visto.

Impossibile. È tutto assurdo.

Eppure, il pozzo c’era. Insieme agli scalini di pietra. E a quel cazzo d’insetto. Quelle cose le avevo viste con i miei occhi.

Radar si piegò con delicatezza sulle zampe posteriori e venne da me in cerca di un premio. Le diedi mezzo biscotto a forma di osso e la riportai dentro casa. Avevo letto fino a tardi e mio padre era già andato a letto. Era ora che facessi lo stesso. Il cane del signor Bowditch – il mio cane – si sdraiò sul suo tappetino con un sospiro e una scoreggia lieve come un cinguettio. Spensi la luce e rimasi con gli occhi aperti, al buio.

Racconta tutto a papà. Portalo al capanno. L’insetto che il signor Bowditch ha ucciso sarà ancora lì – almeno in parte – e, anche se fosse sparito il pozzo, ci sarà di sicuro. È un fardello pesante da portare, perciò dividilo con qualcuno.

Ma mio padre avrebbe mantenuto il segreto? Per quanto gli volessi bene, non ne ero del tutto convinto. Ci sono un migliaio di slogan e di motti che circolano tra gli Alcolisti Anonimi, e uno di questi recita: «Sei malato come i tuoi segreti». Si sarebbe confidato con Lindy? Con un amico al lavoro? Con suo fratello, mio zio Bob?

Poi mi tornò in mente una cosa che avevo imparato a scuola, in prima o in seconda media, durante una lezione di storia della signorina Greenfield. Era una citazione da Benjamin Franklin: «In tre si mantiene un segreto solo se due sono morti».

Riesci a immaginare che cosa succederebbe se la gente scoprisse che c’è un altro mondo alla nostra portata?

Era stata quella la domanda del signor Bowditch, e credevo di conoscere la risposta. Quel mondo sarebbe stato conquistato. Cooptato, avrebbe detto la mia insegnante di storia, in omaggio ai suoi anni da hippie. La casa al numero 1 di Sycamore Street sarebbe diventata un’installazione segreta del governo. Per quanto potevo saperne, l’intero quartiere sarebbe stato evacuato. Poi sarebbe cominciato lo sfruttamento a tappeto, e se il signor Bowditch aveva ragione, le conseguenze avrebbero potuto essere terribili.

Finalmente mi addormentai ma sognai di essere sveglio, e che qualcosa si muoveva sotto il letto. Sapevo, come spesso succede nei sogni, di che cosa si trattasse. Uno scarafaggio gigante. Però di quelli che mordevano. Mi svegliai prima dell’alba, convinto che fosse tutto vero. Ma Radar avrebbe abbaiato e invece dormiva della grossa, immersa in un misterioso sogno tutto suo.

3

La domenica andai a casa del signor Bowditch per fare quello che mi ero riproposto già il giorno prima: cominciare a riordinare. C’erano alcune cose che non potevo fare, ovviamente; i cuscini sventrati e la carta da parati strappata avrebbero dovuto attendere. C’erano parecchie altre cose di cui occuparmi, comunque, ma dovetti provvedere a farlo in due turni separati, perché la prima volta portai Radar con me, e fu un errore.

Passò da una stanza all’altra del pianterreno, cercando il signor Bowditch. Non sembrava turbata dagli atti di vandalismo, ma si mise ad abbaiare furiosamente in direzione del divano, fermandosi solo di tanto in tanto per guardare me, come se volesse chiedermi se ero diventato stupido. Non riuscivo a vedere che cosa c’era che non andava? Il letto del suo padrone era scomparso.

La convinsi a seguirmi in cucina e le dissi di mettersi a cuccia, ma lei non ubbidì e continuò a guardare in direzione del salotto. Le offrii un bocconcino di pollo, il suo cibo preferito, ma lei lo lasciò cadere sul linoleum. Decisi di riportarla a casa e lasciarla con papà, però quando vide il guinzaglio attraversò di corsa il salotto, zoppicando leggermente, e salì le scale. La trovai nella camera da letto del signor Bowditch, accoccolata di fronte all’armadio sopra un letto improvvisato di vestiti che erano stati tirati giù dalle rispettive grucce. Sembrava a suo agio, perciò scesi a pianterreno e sbrigai le mie faccende come meglio potei.

Verso le undici sentii il ticchettio delle sue unghie sulle scale. Vederla mi fece male al cuore. Non zoppicava ma si muoveva lentamente, con la testa bassa e la coda pendula. Mi guardò con un’espressione più chiara di qualsiasi parola: Dov’è lui?

«Andiamo, signorina», dissi. «Usciamo da qui.»

Stavolta, quando vide il guinzaglio, non protestò.

4

Nel pomeriggio, feci del mio meglio anche al piano superiore. L’omino con il berretto dei White Sox e i pantaloni di velluto a coste (sempre che fosse stato lui, come sospettavo) non aveva fatto nessun danno al secondo piano, almeno che io potessi vedere. Pensai che doveva aver concentrato la sua attenzione sul primo piano… e sulla cassaforte, una volta che l’aveva trovata. Doveva anche aver tenuto d’occhio l’orologio, sapendo che i funerali non durano all’infinito.

Raccolsi i miei vestiti e li sistemai in una piccola pila in cima alle scale, con l’intenzione di riportarli a casa. Poi mi misi al lavoro nella camera del signor Bowditch, raddrizzando il letto (che era stato ribaltato completamente), riappendendo i vestiti (e rimettendo a posto le tasche rivoltate), e raccogliendo l’imbottitura dei cuscini. Ero infuriato con il signor Va Beene-Ah-Ah per quella che mi sembrava una profanazione della morte, ma non potei fare a meno di pensare ad alcune delle stronzate peggiori che avevo combinato con Bertie Bird – merda di cane sul parabrezza, petardi dentro le cassette della posta, bidoni dell’immondizia pieni rovesciati, un GESÙ SI FA LE SEGHE scritto con lo spray sulla targa della Chiesa metodista. Non eravamo mai stati beccati, tuttavia io sì. Guardando il casino che il signor Ah-Ah si era lasciato dietro, e odiandolo con tutte le mie forze, mi resi conto che ero stato io a beccare me stesso. A quei tempi ero stato cattivo quanto l’ometto dal buffo modo di camminare e di parlare. Peggiore, per certi versi. L’ometto almeno aveva un motivo per agire come aveva agito; cercava l’oro. Io e Bird Man, invece, eravamo solo una coppia di ragazzini in vena di stronzate e pronti a spargere merda in giro.

C’era un dettaglio non irrilevante, però: io e Bird Man non avevamo ucciso nessuno, mentre, se avevo ragione, il signor Ah-Ah lo aveva fatto eccome.

Uno degli scaffali in camera da letto era stato rovesciato. Lo rimisi al suo posto e cominciai a sistemarci sopra i libri. In fondo alla pila c’era quel tomo dall’aria erudita che avevo notato sul suo comodino insieme al romanzo di Bradbury che stavo leggendo proprio allora. Lo raccolsi e guardai la copertina: un imbuto pieno di stelle. Le origini del fantasy e il suo ruolo nella matrice del mondo – che titolone. E: prospettive junghiane, per buona aggiunta. Scorsi l’indice per vedere se ci fosse qualcosa sulla storia di Giacomino e il fagiolo magico. E, in effetti, qualcosa trovai. Cercai di leggerlo, poi mi limitai a dargli una rapida occhiata. C’era tutto ciò che odiavo in quella che consideravo la spocchiosa scrittura accademica, piena di parole inutilmente pompose e di passaggi sintattici faticosi. Forse è una forma di pigrizia intellettuale da parte mia, ma forse no.

Da quanto riuscii a capire, l’autore di quel particolare capitolo sosteneva che c’erano in realtà due storie del fagiolo magico: l’originale, particolarmente sanguinoso, e la versione edulcorata che i bambini trovavano nei libri di fiabe approvati dalle mamme e nel cartone animato. L’originale si biforcava (ecco una di quelle parole pompose) in due versioni del mito, una tragica e una comica. La versione tragica evidenziava le gioie del saccheggio e dell’omicidio (come quando Giacomino abbatteva la pianta di fagiolo a colpi d’ascia e il gigante si spiaccicava al suolo). La versione comica aveva a che fare con quella che lo scrittore chiamava «epistemologia della fede religiosa wittgensteiniana», e se sapete che cosa significa siete migliori di me.

Sistemai il libro sullo scaffale, uscii dalla stanza e tornai indietro per dare un’altra scorsa alla copertina. L’interno era pieno di una prosa faticosa, di frasi complesse che non permettevano mai all’occhio di riposare, ma la copertina era una piccola lirica, a suo modo perfetta come quella poesia di William Carlos Williams sulla carriola rossa: un imbuto che si riempiva di stelle.

5

Il lunedì andai a trovare la mia vecchia amica, la signora Silvius, in segreteria, e le chiesi se potevo prendermi la giornata che noi studenti dedicavamo semestralmente ai servizi sociali, quello stesso martedì. Lei si allungò verso di me sopra la scrivania e disse, a voce bassa e in tono confidenziale: «Non è che lo fai per marinare la scuola? Te lo chiedo solo perché gli studenti dovrebbero dare almeno una settimana di preavviso, per la giornata dedicata ai servizi. Non è obbligatorio, Charlie, ma è fortemente consigliato».

«No, è la verità», risposi, guardandola negli occhi. Era una tecnica molto utile quando si mentiva, che avevo imparato da Bertie Bird. «Voglio fare il giro dei negozianti del centro, e convincerli a adottare.»

«Adottare?» La signora Silvius sembrava interessata, per quanto si sforzasse di mostrare il contrario.

«Be’, di solito si tratta di adottare un chilometro di statale. È una cosa che ho imparato con il Key Club, ma voglio fare di più. Voglio convincere i proprietari dei negozi a adottare un giardino pubblico – ne abbiamo ben sei, in fondo – e un sottopasso – molti sono in condizioni pietose, ed è una vergogna –, o forse addirittura un terreno abbandonato, se riesco a fargli capire che…»

«Va bene, va bene.» La signora Silvius prese un modulo e ci scribacchiò sopra qualcosa. «Portalo ai tuoi insegnanti, fallo firmare a tutti e torna qui.» Poi, mentre uscivo dalla segreteria, aggiunse: «Charlie? Sento ancora puzza di imbroglio. Te lo sento addosso».

Non stavo mentendo sul mio progetto, ma, in realtà, il giorno libero da scuola non mi serviva per realizzarlo. Durante la quinta ora andai in biblioteca, presi un libretto con la lista completa dei negozi del centro e spedii un’e-mail collettiva, cambiando solo l’intestazione e i nomi dei vari progetti di adozione che avevo escogitato. Mi ci volle mezz’ora in tutto, perciò mi rimasero venti minuti prima che la campanella annunciasse il cambio dell’ora. Tornai al bancone e chiesi alla signora Norman se aveva una copia delle Fiabe dei fratelli Grimm. L’edizione cartacea non era disponibile in biblioteca, perciò mi porse un Kindle con la scritta PROPRIETÀ DELLA HILLVIEW HIGH stampigliata sul lato posteriore, e mi diede un codice, utilizzabile una sola volta, per scaricare il libro.

Non lessi nessuna delle fiabe: mi limitai a scorrere l’indice e a dare una rapida occhiata all’introduzione. Scoprii con interesse (ma senza particolare stupore) che molte delle fiabe che conoscevo sin dall’infanzia avevano delle versioni molto più tragiche. L’originale di Riccioli d’Oro e i tre orsi era un racconto tramandato per via orale che risaliva al Cinquecento, nel quale non c’era nessuna bambina di nome Riccioli d’Oro. La protagonista era una vecchina malvagia che invadeva la casetta degli orsi, faceva a pezzi tutto ciò che possedevano e saltava giù da una finestra e correva via nel bosco ridacchiando. Tremotino era peggio ancora. Nella versione che ricordavo vagamente dagli anni della mia infanzia, il vecchio Tremotino scappava via con rabbia quando la ragazza che trasformava la paglia in fili d’oro indovinava il suo nome. Nella versione dei fratelli Grimm, che risaliva al 1857, Tremotino affondava invece un piede nel terreno, afferrava l’altro con entrambe le mani e si spezzava in due. Come storia dell’orrore, non aveva niente da invidiare alla serie dell’Enigmista.

La sesta ora era dedicata a un corso che si chiamava America oggi. Non avevo idea di che cosa stesse dicendo il signor Masensik; pensavo alla potenza delle finzioni. Al fatto che la giostra del Popolo d’autunno era come la meridiana in quel mondo altro, per esempio. «Il segreto della mia longevità», aveva detto il signor Bowditch. Giacomino aveva rubato l’oro al gigante; anche il signor Bowditch aveva rubato l’oro… a chi? O a che cosa? A un gigante? A un demone che sembrava uscito da un racconto pulp e che si chiamava Gogmagog?

Una volta che la mia mente si era messa in moto, cominciai a vedere somiglianze dappertutto. Mia madre era morta su un ponte che attraversava il Little Rumple. E, nell’originale tedesco, Tremotino si chiamava Rumpelstilzchen. E che dire di quell’omino con una buffa voce? Non era così che nella fiaba veniva descritto Tremotino? E poi, c’ero io. Quante storie di fantasia avevano come protagonista un giovane eroe (come Giacomino) che partiva per una missione in una terra sconosciuta? Oppure pensate al Mago di Oz, dove un tornado trasporta una ragazzina dal Kansas in un mondo di streghe e di mastichini. Io non ero Dorothy e Radar non era Toto, ma…

«Charles, ti sei addormentato, lì dietro? O forse la mia voce soave ti ha ipnotizzato? Sei entrato in trance?»

I compagni di classe scoppiarono a ridere, anche se per molti di loro la parola «soave» poteva significare qualsiasi cosa, anche un buco lasciato nella neve quando ci pisci sopra.

«No, sono qui.»

«In tal caso, forse potresti darci il tuo prezioso parere sulle morti di Philando Castile e Alton Sterling per mano della polizia.»

«Una vera merda», dissi. Ero ancora immerso nei miei pensieri, e le parole mi uscirono di bocca senza che me ne rendessi conto.

Il signor Masensik mi rivolse il suo solito sorrisetto, poi disse: «Una vera merda, in effetti. Bene, rientri pure nel suo stato di trance, signor Reade».

Riprese la sua lezione. Cercai di stare attento, ma poi mi tornò in mente qualcosa che aveva detto la signora Silvius: non «Fee fi fum fese, sento il sangue di un inglese», ma «Sento ancora puzza di imbroglio. Te lo sento addosso».

Era sicuramente una semplice coincidenza – mio padre diceva sempre che se compravi un’auto blu, cominciavi a vedere auto blu dappertutto –, ma, dopo quello che avevo visto nel capanno, non potei fare a meno di pormi qualche domanda. E c’era anche qualcos’altro. In una storia di fantasia, l’autore doveva inventare un modo per far sì che il suo giovane eroe o eroina potesse esplorare quel mondo che cominciavo a chiamare l’Altro. L’autore, per esempio, poteva inventare un ritiro a cui il padre o entrambi i genitori dovevano prendere parte per diversi giorni, dando così al giovane eroe la possibilità di visitare l’Altro senza sollevare un mucchio di domande alle quali non avrebbe potuto rispondere.

Coincidenze, pensai, mentre suonava la campanella e i miei compagni correvano verso la porta. Sindrome dell’auto blu.

Lo scarafaggio gigante non era un’auto blu, però, e non lo erano neanche quei gradini di pietra che sprofondavano nel buio.

Diedi al signor Masensik il modulo da firmare e lui mi rivolse il suo consueto sorrisetto. «Una vera merda, eh?»

«Mi scusi tanto.»

«Be’, non era sbagliata, come osservazione.»

Riuscii a svignarmela e mi diressi verso il mio armadietto.

«Charlie?»

Era Arnetta Freeman, decisamente carina con i jeans skinny e la blusa senza maniche. Con gli occhi azzurri e i capelli biondi lunghi fino alle spalle, Arnetta era la prova vivente che l’America bianca non è poi così malaccio. L’anno prima – quando ero molto più sportivo e almeno un po’ famoso per la mia impresa eroica al Turkey Bowl – io e Arnetta avevamo studiato insieme diversi giorni, nella sua taverna al piano seminterrato. Un po’ avevamo studiato, in effetti, ma gran parte del tempo era stata dedicata a pomiciare.

«Ehi, Arnie, come va?»

«Vuoi venire da me, stasera? Potremmo studiare per la verifica su Amleto», disse, piantando i suoi occhi azzurri nei miei marroni.

«Mi piacerebbe, ma domani mio padre parte e sta via quasi tutta la settimana, per lavoro. È meglio che resti a casa con lui.»

«Oh, che peccato», rispose, stringendosi teneramente due libri al petto.

«Potrei venire mercoledì sera, però. Se non hai da fare, ovviamente.»

Si illuminò. «Sarebbe fantastico.» Mi prese una mano e se l’appoggiò su un fianco. «Ti farò qualche domanda su Polonio, e tu potresti lavorare sul mio Fortebraccio.»

Mi diede un bacetto su una guancia e si allontanò, facendo ondeggiare le anche in un modo che era, be’, seducente. Per la prima volta dopo l’ora trascorsa in biblioteca non pensavo più ai parallelismi tra il mondo reale e i mondi d’invenzione. La mia mente era tutta concentrata su Arnetta Freeman.

6

Mio padre partì molto presto il martedì mattina, con la sua borsa da viaggio e in tenuta da uomo dei boschi: pantaloni di fustagno, camicia di flanella, berretto dei Bears. Aveva una mantella appoggiata su una spalla. «È prevista pioggia», disse. «Il che esclude la possibilità di arrampicarci sugli alberi, e devo confessarti che la cosa non mi dispiace affatto.»

«E come aperitivo un bel bicchiere di acqua tonica, giusto?»

Sorrise. «Magari con una scorza di limone. Non preoccuparti, figliolo. Ci sarà anche Lindy, e gli resterò sempre appiccicato. Prenditi cura di Radar. Ha ripreso a zoppicare.»

«Lo so.»

Mi strinse un braccio e mi diede un bacio su una guancia. Mentre usciva a marcia indietro dal vialetto, sollevai una mano per chiedergli di fermarsi e corsi al finestrino sul lato del guidatore. Mio padre lo abbassò. «Mi sono dimenticato qualcosa?»

«No, me lo sono dimenticato io.» Mi sporsi dentro l’abitacolo, lo abbracciai e gli diedi un bacio.

Mi rivolse un sorriso stupito. «Come mai quest’abbraccio?»

«Ti voglio bene. Tutto qui.»

«Ti voglio bene anch’io, Charlie.» Mi diede una carezza, uscì in strada e si avviò verso il maledetto ponte. Rimasi a guardarlo finché sparì all’orizzonte.

Credo che, nel profondo del mio cuore, sapessi già qualcosa.

7

Portai fuori Radar nel giardino dietro casa. Non era granché in confronto a quello del signor Bowditch, ma era grande abbastanza per farle scaldare un po’ i muscoli. Cosa che finì per fare, ma sapevo che le restava sempre meno tempo da vivere. Se c’era qualcosa che potevo fare per lei, avrei dovuto pensarci presto. Rientrammo e le diedi qualche cucchiaiata di spezzatino avanzato dal giorno prima, nascondendoci dentro una pillola extra. Lo spazzolò alla velocità della luce e si stese sul tappeto del salotto, un posto del quale aveva già preso possesso. La accarezzai dietro le orecchie, un gesto che le faceva sempre chiudere gli occhi e sorridere beata.

«Devo controllare una cosa», dissi. «Fa’ la brava. Torno il prima possibile, okay? Cerca di non fare la cacca in casa, ma, se proprio devi, scegli un posto dove sia facile pulirla.»

Sbatté la coda sul tappeto un paio di volte, una risposta sufficiente per me. Andai in bici fino al numero 1 di Sycamore Street, guardandomi intorno con il timore di vedere un buffo ometto con un buffo modo di camminare e di parlare. Ma non vidi nessuno, neanche la signora Richland.

Entrai, salii al piano di sopra, aprii la cassaforte e mi legai il cinturone in vita. Non mi sentivo un pistolero, nonostante le borchie argentate e i legacci di cuoio; mi sentivo un ragazzino spaventato. Se fossi scivolato su quei gradini che scendevano a spirale e fossi caduto, quanto ci sarebbe voluto prima che qualcuno mi trovasse? Forse un’eternità. E se qualcuno fosse arrivato, che cos’altro avrebbe trovato, oltre me? Sul nastro, il signor Bowditch aveva detto che ciò che mi stava lasciando in eredità non era un dono, ma un fardello. Sul momento non avevo capito del tutto che cosa intendesse, però mentre prendevo la pila dalla credenza della cucina e mi infilavo il lungo manico nella tasca posteriore dei jeans, mi fu del tutto chiaro. Uscii e mi diressi verso il capanno, sperando di arrivare in fondo a quei gradini e di trovare non un corridoio che conduceva in un altro mondo, ma solo un mucchio di pietre e una pozza d’acqua fangosa.

E soprattutto, niente scarafaggi. Non m’importa se sono pericolosi o no, però niente scarafaggi.

Entrai nel capanno, puntai la luce della pila tutt’intorno e constatai che lo scarafaggio ucciso dal signor Bowditch si era ridotto a una pozza grigia di materia gelatinosa. Quando lo illuminai con la pila, una delle placche sopra quel che restava della sua schiena scivolò sul pavimento, facendomi sobbalzare.

Accesi le luci di emergenza, raggiunsi le tavole di legno e i blocchi di cemento che coprivano il pozzo e puntai la pila su una delle fessure. Vidi soltanto i gradini, che scendevano nell’oscurità. Nulla si mosse. Nessun fruscio, ma la cosa non contribuì a tranquillizzarmi; ripensai a una battuta che avevo sentito in decine di film horror di serie B, se non in centinaia: «Non mi piace. C’è troppo silenzio».

Non essere stupido, il silenzio è un buon segno, dissi tra me e me, ma quando guardai in quel pozzo circondato dalla pietra, l’idea perse molta della sua forza.

Capii che, se avessi esitato troppo, sarei tornato indietro, e allora sarebbe stato ancora più difficile anche solo rimettere piede in quel capanno. Perciò mi infilai in tasca la pila e sollevai i blocchi di cemento. Scostai le tavole e mi sedetti sull’orlo del pozzo, con i piedi sul terzo gradino. Aspettai che il battito del cuore rallentasse (un pochino), poi mi sollevai su quel gradino, dicendomi che c’era spazio in abbondanza per i miei piedi. Non era esattamente vero. Mi tolsi il sudore dalla fronte con un braccio e mi dissi che sarebbe andato tutto bene, anche se non ne ero affatto convinto.

Ma cominciai comunque la mia discesa.

8

«Centottantacinque gradini di pietra, di altezze diverse», aveva detto il signor Bowditch, e li contai man mano che scendevo. Procedetti molto lentamente, con la schiena appoggiata al muro di pietra e gli occhi sul precipizio. Le pietre erano grezze e umide. Tenevo la pila puntata sui miei piedi. «Altezze diverse.» Non volevo correre il rischio di perdere l’equilibrio, perché sarebbe stata la mia fine.

Al gradino numero novanta, quando non ero ancora a metà strada, sentii un fruscio più sotto. Mi domandai se puntare la pila in direzione del rumore, ma decisi di non farlo. Se avessi spaventato una colonia di pipistrelli giganti e quelli si fossero messi a volarmi intorno, probabilmente sarei caduto.

Era un ragionamento logico, però la paura era più forte. Mi staccai appena dalla parete, puntai la luce sulla curva dei gradini che scendeva verso il basso e scorsi qualcosa di nero acquattato una ventina di scalini più sotto. Quando la mia pila lo illuminò, ebbi appena il tempo di vedere che era uno scarafaggio gigante, prima che fuggisse nelle tenebre.

Feci qualche respiro profondo, mi ripetei che andava tutto bene, non ci credetti e proseguii. Ci vollero nove o dieci minuti per arrivare in fondo al pozzo, perché scendevo molto piano. Mi sembrò di averci messo anche di più. Ogni tanto guardavo in su, e non era particolarmente confortante vedere il cerchio illuminato dalle luci di emergenza farsi sempre più piccolo. Ero nelle profondità della terra, e continuavo a scendere.

Raggiunsi il fondo al centottantacinquesimo gradino. Il pavimento era di terra compatta, proprio come aveva detto il signor Bowditch, e c’erano delle pietre che si erano staccate dalle pareti, probabilmente dalla cima, dove il ghiaccio e il successivo disgelo dovevano averle allentate e poi spinte fuori dalla loro sede. Il signor Bowditch si era aggrappato allo spazio lasciato libero da uno di quei frammenti e si era salvato la vita. Il mucchio di pietre era striato di una materia nera che immaginai fosse sterco di scarafaggio.

Il corridoio era lì. Scavalcai il mucchio di pietre e lo imboccai. Il signor Bowditch aveva ragione: era così alto che non mi venne neppure in mente di chinare il capo. Ora sentivo un fruscio più forte davanti a me, e immaginai fossero i pipistrelli appollaiati sul soffitto dei quali il signor Bowditch aveva parlato per mettermi sull’avviso. Non mi piacciono i pipistrelli – sono portatori di germi, a volte della rabbia –, ma non mi terrorizzano come succedeva al signor Bowditch. Dirigendomi verso la fonte di quel rumore, ero più che altro curioso. I corti gradini («di altezze diverse») che scendevano a spirale verso il fondo del pozzo mi avevano spaventato a morte, ma adesso procedevo su un terreno solido, e mi sentivo molto più tranquillo. Ovviamente c’erano migliaia di tonnellate di roccia e di terra sopra la mia testa, però quel corridoio esisteva chissà da quanti anni, e dubitavo che avrebbe scelto proprio quegli istanti per crollare e seppellirmi. Non dovevo neanche preoccuparmi di finire sepolto vivo: se il tetto avesse ceduto, sarei morto sul colpo.

Allegria, pensai.

Allegro non lo ero di certo, ma la paura venne progressivamente sostituita – o almeno soverchiata – dall’eccitazione. Se il signor Bowditch aveva detto la verità, c’era un altro mondo che mi aspettava poco più avanti. E dato che ero arrivato fin lì, adesso volevo vederlo. L’oro era l’ultimo dei miei pensieri.

Il pavimento divenne di pietra. Anzi, lastricato, come in quei vecchi film della TCM ambientati nella Londra dell’Ottocento. Ora il crepitio era sopra la mia testa, e spensi la pila. Le tenebre risvegliarono la mia paura, ma non volevo trovarmi in mezzo a una nube di pipistrelli. Per quanto ne sapevo, potevano anche essere vampiri. Improbabile, in Illinois… però in fondo non ero più in Illinois, giusto?

«Proseguii per almeno un chilometro e mezzo», aveva detto il signor Bowditch, perciò memorizzai i miei passi fino a quando non persi il conto. Se non altro, non c’era ragione di temere che la pila non si accendesse se ne avessi avuto nuovamente bisogno; le batterie erano nuove. I pipistrelli erano davvero grossi come avvoltoi dal collo rosso? Non avevo nessuna voglia di scoprirlo.

Alla fine vidi una luce – un lampo, proprio come aveva detto il signor Bowditch. Continuai ad avanzare e il lampo si trasformò in un cerchietto, così luminoso da rimanermi impresso negli occhi ogni volta che li chiudevo. Mi ero dimenticato completamente della sensazione di vertigine della quale aveva parlato il signor Bowditch, ma, quando mi colpì, capii subito che cosa aveva voluto dire.

Una volta, quando avevo più o meno dieci anni, io e Bertie Bird eravamo andati stupidamente in iperventilazione e poi ci eravamo abbracciati stretti per vedere se saremmo svenuti, come un amico di Bertie sosteneva che sarebbe successo. Non era accaduto a nessuno dei due, ma a me era girata la testa ed ero caduto sul sedere, con la sensazione che tutto avvenisse al rallentatore. Era più o meno la stessa impressione. Continuai a camminare, però mi sembrava di essere un pallone pieno di elio che fluttuava sopra il mio stesso corpo, e temevo che, se il filo si fosse spezzato, sarei volato lontano.

Poi quella sensazione svanì, proprio come era successo al signor Bowditch. Aveva detto che c’era un confine, ed era esattamente quello che avevo appena superato. Mi ero lasciato alle spalle Sentry’s Rest. E l’Illinois. E l’America. Ero nell’Altro mondo.

Raggiunsi l’apertura e vidi che il soffitto sopra la mia testa era diventato di terra, con delle sottili radici che sporgevano. Mi piegai per evitare alcuni viticci e sbucai sul fianco di una collina. Il cielo era grigio, ma il campo davanti ai miei occhi era di un rosso acceso. I papaveri formavano una splendida coperta che si stendeva a destra e a sinistra fin dove arrivava il mio sguardo. C’era un sentiero tra i fiori, che sbucava su una strada. Sul lato opposto della carreggiata, il manto di papaveri proseguiva per più di un chilometro sino a un fitto bosco, che mi ricordò le foreste che un tempo crescevano dove adesso sorge la cittadina in cui vivo. Il sentiero era appena tracciato, tuttavia non si poteva dire altrettanto della strada. Era sterrata però larga: non un viottolo, ma una vera via di comunicazione. Nel punto in cui si univa al sentiero c’era un piccolo cottage ben tenuto, con del fumo che usciva dal comignolo di pietra. C’erano delle corde da bucato alle quali erano appese delle cose che non erano vestiti. Non riuscivo a capire che cosa fossero.

Guardai all’orizzonte e scorsi i pinnacoli di una grande città. La luce del giorno si specchiava sulle torri più alte, come se fossero fatte di vetro. Vetro verde. Avevo letto Il mago di Oz e avevo visto il film, perciò sapevo riconoscere una Città di Smeraldo, quando ne avevo davanti una.

9

Il sentiero che portava alla strada e al cottage era lungo ottocento metri circa. Mi fermai due volte, per guardare il buco nel fianco della collina – sembrava l’ingresso di una piccola caverna, con quei viticci che penzolavano sopra l’imboccatura – e per dare un’occhiata al cellulare. Mi sarei aspettato un messaggio che segnalava l’assenza di rete, ma non ricevetti neanche quello. Più semplicemente, il mio iPhone non si accendeva. Era solo un rettangolo di vetro nero, che in quel mondo sarebbe stato utile tutt’al più come fermacarte.

Non ricordo di essermi sentito confuso o sbalordito, neanche alla vista di quelle spirali di vetro. Non dubitavo di ciò che mi comunicavano i sensi. Potevo vedere il cielo grigio sopra la mia testa, una specie di soffitto basso che sembrava promettere pioggia. Potevo sentire l’erba crescere contro i miei pantaloni mentre percorrevo il sentiero. Scendendo lungo il fianco della collina, quasi tutti gli edifici della città scomparvero alla vista; potevo scorgere solo i tre pinnacoli più alti. Cercai di indovinare quanto fosse lontana la metropoli, ma non ci riuscii. Cinquanta chilometri? Sessanta?

La cosa più bella era il profumo dei papaveri, che ricordava il cacao, la vaniglia e le ciliegie. A parte quando affondavo il viso nei capelli di mia madre per respirarne il profumo, quando ero piccolo, era l’aroma più delizioso che avesse mai onorato il mio olfatto. Senz’ombra di dubbio. Speravo che la pioggia tardasse ancora un po’ ad arrivare, ma non perché non volessi bagnarmi. Sapevo che la pioggia avrebbe reso ancora più intenso quel profumo, e temevo che la sua bellezza potesse uccidermi. (Sto esagerando, ma meno di quanto possiate credere.) Non vidi conigli, grandi o piccoli, ma li sentivo saltellare in mezzo all’erba e ai fiori e, a un certo punto, per un breve istante, scorsi un paio di lunghe orecchie. Sentivo anche il frinire dei grilli, e mi domandai se fossero grossi come gli scarafaggi e i pipistrelli.

Mentre mi dirigevo verso il retro del cottage – pareti di legno, tetto di paglia –, mi fermai, stupefatto da ciò che ora riuscivo a distinguere con chiarezza. Appese alle corde da bucato, dietro il cottage e su entrambi i lati, c’erano delle scarpe. Di legno, di tela, sandali, pantofole. Una delle corde era piegata dal peso di uno stivale di cuoio con delle fibbie d’argento. Era uno stivale delle sette leghe, come nelle vecchie fiabe? Sicuramente ci assomigliava parecchio. Mi avvicinai e mi allungai per toccarlo. Era morbido come burro e liscio come raso. Modellato per la strada, pensai. Modellato per il Gatto con gli stivali. Dov’è l’altro?

Come se fosse stata evocata dai miei pensieri, la porta sul retro si aprì e una donna uscì con l’altro stivale in mano, e con la fibbia che brillava alla luce tenue del cielo bianco. Capii che era una donna perché indossava un abito rosa e un paio di scarpe rosse, e anche perché due seni prosperosi le gonfiavano il corpetto, ma la sua pelle era grigio ardesia e il viso era crudelmente deformato. Era come se i suoi lineamenti fossero stati disegnati a carboncino e una divinità malevola ci avesse passato sopra una mano, sporcandoli e confondendoli fin quasi a cancellarli. Gli occhi erano due fessure, come anche le narici. La bocca era una mezzaluna senza il minimo accenno di labbra. Si rivolse a me, ma non riuscii a capire che cosa dicesse. Credo che le sue corde vocali fossero semicancellate, proprio come la faccia. Ma quella mezzaluna senza labbra era innegabilmente un sorriso, e una sensazione – o una vibrazione, se preferite – mi suggeriva che non avevo niente da temere da lei.

«Hizz, huzz! Azzie? Ern?» Toccò lo stivale appeso alla corda da bucato.

«Sì, è molto bello», dissi. «Mi capisce?»

Lei annuì e fece un gesto che conoscevo bene: un cerchietto con il pollice e l’indice che, in ogni angolo della terra, significava «Okay». (Fatta eccezione, credo, per alcuni rari casi in cui degli imbecilli lo usano con il significato di «supremazia bianca».) Produsse qualche altro hizz e huzz, poi indicò le mie scarpe da tennis.

«Cosa?»

Staccò lo stivale dalla corda, alla quale era appeso con due mollette di legno di quelle antiche, che non avevano ancora la molla, in realtà. Tenendo lo stivale in una mano, indicò le mie scarpe da tennis con l’altra. Poi tornò a fare cenno agli stivali.

Forse mi stava chiedendo se volevo fare uno scambio.

«Sono tentato, ma non mi sembrano della mia misura.»

Si strinse nelle spalle e appese tutti e due gli stivali. Le altre scarpe – e una pantofola di raso verde scompagnata, con la punta arricciata, simile a quella che avrebbe potuto indossare un califfo – oscillarono e ruotarono su se stesse, sospinte da un accenno di brezza. Guardare quella faccia semicancellata mi faceva sentire un po’ frastornato. Continuavo a cercare di cogliere i suoi lineamenti come dovevano essere stati un tempo, e ci riuscivo quasi.

Mi si avvicinò e mi annusò la maglietta, con quel naso ridotto a una fessura. Poi si portò le mani all’altezza delle spalle e le sventolò come se volesse afferrare l’aria.

«Non capisco.»

Spiccò un salto e fece un suono che, aggiunto al modo in cui mi aveva annusato, contribuì a chiarirmi le idee.

«Si riferisce a Radar?»

Annuì, con tanto vigore che i suoi capelli castani e radi svolazzarono. Fece un verso, wuzz-wuzz-wuzz, che probabilmente era il massimo che sapeva fare per imitare un latrato.

«È a casa mia.»

Annuì e si portò una mano al petto, poco sopra il cuore.

«Se intende dire che le vuole bene, voglio bene anch’io, a Radar», dissi. «Quando è stata l’ultima volta che l’ha vista?»

La donna delle scarpe guardò il cielo, sembrò impegnata in una serie di calcoli, poi si strinse nelle spalle. «’Anto

«Se vuol dire ‘da tanto’ dev’essere effettivamente così, perché è vecchia, ormai. Non fa quasi più salti, da un po’ di tempo a questa parte. Ma il signor Bowditch… l’ha conosciuto? Se conosce Rades, deve aver conosciuto anche il signor Bowditch.»

Annuì con lo stesso vigore, e quel che restava della sua bocca si inarcò in un altro sorriso. Le erano rimasti pochi denti, però quelli che potevo vedere erano sorprendentemente bianchi contro il grigio della pelle.

«A’riyan.»

«Adrian? Adrian Bowditch?»

Annuì così forte da farsi quasi male al collo.

«Ma non sa quanto tempo fa è stato qui?»

Guardò il cielo, poi scosse il capo.

«Radar era giovane, allora?»

«Ui-olo

«Un cucciolo?»

Annuì ancora.

Mi prese per un braccio e mi portò dietro l’angolo. (Dovetti chinarmi sotto un’altra fila di scarpe appese per evitare che mi decapitassero.) Là c’era un piccolo pezzo di terra che era stato vangato e rastrellato, come se quella donna si stesse preparando a piantarci qualcosa. C’era anche un carretto male in arnese, appoggiato a una coppia di lunghe stanghe di legno. Sul carretto c’erano due sacchi di tela, con qualcosa di verde che sbucava dalla cima. Si inginocchiò e mi fece segno di fare altrettanto.

Restammo a fissarci in quella posizione. Il suo dito si mosse lentamente e con molte esitazioni mentre scriveva nella polvere. Si interruppe un paio di volte per ricordare che cosa veniva dopo, credo, e poi proseguire.

Uto bll vit.

E quindi, dopo una lunga pausa:

?

Provai a capire che cosa intendesse, ma scossi il capo. La donna si mise a quattro zampe e ripeté la sua versione di un latrato. A quel punto ci arrivai.

«Sì», dissi. «Ha avuto una gran bella vita. Ma ora è vecchia, come le dicevo. E… non sta molto bene.»

Fu allora che capii. Non si trattava solo di Radar e del signor Bowditch, ma di tante cose insieme. Del dono, un fardello che ero destinato a portare. Degli scarafaggi in decomposizione e della casa al numero 1 di Sycamore Street che avevo trovato devastata, probabilmente dall’uomo che aveva ucciso il signor Heinrich. Della pura follia di stare lì, in ginocchio nella polvere di fronte a una donna quasi senza volto, che collezionava scarpe e le appendeva su delle corde da bucato. Però sì, principalmente si trattava di Rades. Del fatto che a volte faticasse ad alzarsi la mattina, o dopo un sonnellino. O di come a volte non mangiasse tutto il suo cibo e poi mi lanciasse un’occhiata come se volesse dirmi: Lo so che dovrei averne voglia, ma non è così. Scoppiai a piangere.

La donna delle scarpe mi mise un braccio intorno alle spalle e mi strinse a sé. «O’ay», disse. Poi, con uno sforzo, riuscì a pronunciare perfettamente la parola «Okay».

Le restituii l’abbraccio. Aveva un odore appena accennato, però gradevole. Era, mi resi conto, lo stesso profumo dei papaveri. Piansi ancora, con una serie di lunghi singhiozzi, e la donna mi tenne stretto, dandomi delle leggere pacche sulla schiena. Quando mi staccai non stava piangendo – forse non era in grado –, ma la mezzaluna della bocca era piegata verso il basso. Mi asciugai il viso con la manica e le chiesi se era stato il signor Bowditch a insegnarle a scrivere, o se sapeva già farlo da prima.

Accostò il pollice grigio alle altre due dita, che erano pressoché incollate l’una all’altra.

«Ti ha insegnato un pochino?»

Annuì, poi scrisse di nuovo nella polvere.

mici

«Era anche amico mio. È passato a miglior vita.»

Piegò il capo, e le ciocche stoppose dei suoi capelli le caddero sulle spalle del vestito.

«È morto», precisai.

Si coprì gli occhi ridotti a due fessure, nell’espressione di dolore più pura che avessi mai visto. Poi mi abbracciò ancora. Quindi mi lasciò andare, indicò le scarpe appese alla corda più vicina e scosse il capo.

«No», dissi. «Ha ragione. Le scarpe non gli serviranno. Non più.»

Fece un gesto a indicare la sua bocca e masticò: uno spettacolo piuttosto sgradevole. Poi puntò il dito verso il cottage.

«Se mi sta chiedendo se voglio qualcosa da mangiare, la ringrazio, ma non posso. Devo tornare indietro. Forse un’altra volta. Presto. Porterò Radar con me, se ci riesco. Prima di morire, il signor Bowditch mi ha detto che c’è un modo per farla tornare giovane. So che sembra una follia, però ha detto che con lui ha funzionato. È una grande meridiana. Laggiù.» E indicai la città.

Le fessure che aveva al posto degli occhi si dilatarono leggermente, e la sua bocca si aprì fino a disegnare quasi una O. Si portò le mani sulle guance grigie, come in quel famoso quadro della donna che urla. Poi si piegò nuovamente a terra e cancellò quello che aveva scritto. Stavolta scrisse più in fretta, e doveva essere una parola che aveva usato spesso, perché non commise errori.

pericolo

«Lo so. Starò attento.»

Si portò le due dita fuse l’una con l’altra alla bocca, nel segno del silenzio.

«Lo so. Devo stare attento a non fare rumore, laggiù. Mi ha detto anche questo. Signora, come si chiama? Può dirmi il suo nome?»

Scosse il capo, spazientita, e indicò la sua bocca.

«Per lei è faticoso esprimersi con chiarezza.»

Annuì e scrisse di nuovo per terra.

Deerie. Guardò ciò che aveva scritto, scosse il capo, lo cancellò e fece un altro tentativo. DORA.

Le chiesi se Deerie fosse un nomignolo. O, meglio, provai a farlo, ma la parola «nomignolo» non mi usciva dalla bocca. Non era che l’avessi dimenticata; sembrava semplicemente che non sapessi più pronunciarla. Ci rinunciai e chiesi: «Deerie era il nome che le ha dato il signor Bowditch, Dora?»

Annuì e si alzò, pulendosi le mani. Mi tirai su anch’io.

«È stato bello incontrarla, Dora.» Non la conoscevo abbastanza bene per chiamarla Deerie, ma capivo perché il signor Bowditch le avesse dato quel soprannome. Era una donna dal cuore gentile.

Annuì, mi diede un colpetto sul cuore e poi fece altrettanto con se stessa. Credo volesse farmi capire che ci eravamo simpatici a vicenda. Che eravamo «mici». La mezzaluna della sua bocca si sollevò di nuovo verso l’alto e Dora spiccò un saltello sulle sue scarpe rosse, come probabilmente faceva Radar prima che le articolazioni le procurassero tutta quella sofferenza.

«Sì, la porterò, se ci riesco. E la porterò anche alla meridiana.» Però non avevo idea di come avrei fatto.

Indicò me, poi sventolò le mani, con i palmi all’ingiù. Non ne sono sicuro, ma penso volesse dirmi di stare attento.

«Lo farò. Grazie per la sua gentilezza, Dora.»

Mi voltai in direzione del sentiero, ma lei mi prese per la maglietta e mi trascinò verso la porta di servizio del suo piccolo domicilio.

«Veramente, non posso…»

Annuì per dirmi di aver capito che non potevo fermarmi a mangiare, ma continuò a spingermi. Giunti davanti alla porta, puntò un dito verso l’alto. Qualcosa era stato inciso sul legno dell’architrave, così in alto che Dora non poteva raggiungerlo. Erano le sue iniziali: AB. Le sue iniziali originali.

Ebbi un’idea, che derivava dalla mia incapacità, poco prima, di pronunciare la parola «nomignolo». Indicai le iniziali e dissi: «È…» «Tanta roba» era l’espressione che avevo in mente, una delle più stupide a cui potessi pensare, ma un buon esempio sul quale mettermi alla prova.

Non riuscii a farmela uscire dalla bocca, per quanto ci provassi.

Dora mi stava guardando.

«Fantastico», dissi. «È fantastico.»

10

Salii la collina, passai sotto i viticci e imboccai il corridoio in direzione contraria. La sensazione di vertigine, di alterità, andava e veniva. I pipistrelli si agitavano sopra la mia testa, ma ero troppo preoccupato da ciò che era appena accaduto per dedicare molta attenzione al loro rumore, e stupidamente accesi la pila per controllare quanto ci volesse ancora prima di arrivare in fondo al tunnel. Non si alzarono tutti in volo, ma un paio lo fecero, e li vidi passare davanti al raggio della torcia. Erano grossi, come previsto. Enormi. Avanzai al buio, con una mano tesa in avanti per cacciarli se fossero tornati in volo verso di me, ma non lo fecero. Se c’erano dei grossi scarafaggi, non li sentii.

Non ero riuscito a pronunciare la parola «nomignolo». O «tanta roba». Sarei stato capace di dire «furbacchione», «mollare una pizza» o «come te la passi, bro?» Ne dubitavo. Non ero sicuro al cento per cento di sapere che cosa significasse questa mia incapacità, ma mi ero fatto un’idea che mi sembrava sensata. Avevo creduto che Dora mi capisse perché sapeva la mia lingua… E se invece mi aveva capito perché ero io a parlare la sua lingua? Una lingua nella quale parole come «nomignolo» ed espressioni come «tanta roba!» non esistevano?

Quando il lastricato finì e fu sostituito dalla terra battuta, mi sentii abbastanza sicuro da riaccendere la pila, anche se la tenni puntata verso il basso. C’erano poco meno di quattrocento metri tra il punto in cui il lastricato finiva e i gradini di pietra, aveva detto il signor Bowditch; sosteneva addirittura di averli misurati. Stavolta non persi il conto dei miei passi, ed ero appena arrivato a cinquecentocinquanta quando vidi gli scalini. In alto, in cima al pozzo, potevo scorgere le luci di emergenza che il signor Bowditch aveva installato.

Salii con maggior disinvoltura di quanta ne avessi mostrata scendendo, ma tenni comunque la spalla destra ben piantata contro la parete. Riemersi senza incidenti e mi stavo piegando per rimettere a posto la seconda tavola quando qualcosa di duro, a forma di cerchio, venne premuto contro la nuca. Rimasi paralizzato.

«Bravo, stattene fermo e buono e non avremo problemi. Ti dirò io quando muoverti.» Era molto facile immaginare quella voce acuta e cantilenante mentre diceva: Che cosa mi dai, se ti filo io l’oro dalla paglia?

«Non voglio spararti, giovanotto. E non lo farò, se otterrò quello per cui sono venuto.» Poi aggiunse, non a mo’ di risata, ma come un libro stampato: «Ah-ah».