1
LA colazione consisté in uova strapazzate – uova di oca, a giudicare dalle dimensioni – e pezzi di pane tostato sopra il fuoco appena riacceso. Non c’era burro, ma una fantastica marmellata di fragole. Finito di mangiare, presi lo zaino e me lo misi sulle spalle. Poi legai il guinzaglio al collare di Radar. Non volevo che si mettesse a inseguire i conigli fin nel bosco e si imbattesse nella versione locale del metalupo del Trono di spade.
«Tornerò», dissi a Dora, mostrandomi molto più fiducioso di quanto fossi in realtà. Stavo per aggiungere: E Radar sarà ridiventata giovane, ma pensai che sarebbe stato come tirare troppo la corda. E poi, trovavo l’idea di una rigenerazione magica più facile da auspicare che da credere, perfino a Empis.
«Credo di potermi fermare a casa dello zio di Leah, stanotte, a meno che non sia allergico ai cani, ma vorrei arrivarci prima che faccia buio.» Ovviamente stavo pensando ai lupi (era difficile non farlo).
Annuì, però mi prese per un gomito e mi guidò fuori dalla porta sul retro. Le corde da bucato erano ancora stese lungo il cortile, ma le scarpe, le pantofole e gli stivali erano stati portati dentro, probabilmente per evitare che si bagnassero con la rugiada del mattino (che speravo non fosse radioattiva). Ci spostammo su un lato del cottage e lì c’era il carretto che avevo già visto in precedenza. I sacchi con gli ortaggi che sbucavano dalla cima erano stati sostituiti da un grosso sacco di tela, legato con una corda. Dora indicò prima il sacco, poi la mia bocca. Si portò una mano davanti alla sua e aprì e chiuse le dita parzialmente incollate l’una all’altra nel gesto di masticare. Non occorreva essere degli scienziati per capire che cosa stesse suggerendo.
«Accidenti, no! Non posso prenderti il cibo e il carro! Non è con questo che porti da tuo fratello le scarpe aggiustate?»
Dora accennò a Radar e fece una serie di passi zoppicanti, prima verso il carro e poi verso di me. Quindi indicò a sud (se avevo capito bene quali erano i punti cardinali), e fece il segno di camminare con le dita. La prima metà del messaggio era chiara. Mi stava dicendo che il carretto era per Radar, non appena avesse cominciato a zoppicare. Con la seconda metà immaginai volesse dirmi che qualcuno – probabilmente il fratello – sarebbe venuto a prendere le scarpe.
Dora indicò il carretto, quindi strinse la mano in un pugno grigio e mi colpì tre volte sul petto, con delicatezza: Devi prenderlo.
Capii che cosa intendeva: avevo un cane anziano di cui occuparmi, e una lunga distanza da percorrere. Al tempo stesso, non sopportavo l’idea di prendere da lei più di quanto non avessi già ricevuto. «Sei sicura?»
Annuì. Poi mi tese le braccia e io fui lieto di stringerla a me. Infine si lasciò cadere in ginocchio e abbracciò Radar. Quando si rialzò indicò prima la strada, quindi le corde da bucato e infine se stessa.
Adesso va’. Ho del lavoro da sbrigare.
Le risposi anch’io a gesti, sollevando entrambi i pollici; mi avvicinai al carro e gettai lo zaino sul pianale, insieme alle provviste che aveva preparato… e che, basandomi su ciò che avevo mangiato al cottage fino ad allora, sarebbero state probabilmente molto più gustose delle sardine del signor Bowditch. Afferrai le due lunghe stanghe e constatai con grande piacere che il carretto non pesava quasi niente, come se fosse stato fabbricato con l’equivalente locale del legno di balsa. Per quanto potevo saperne, forse era proprio così. Le ruote erano ben oliate, oltretutto, e non cigolavano come quelle del carro della giovane coppia. Pensai che trascinarmelo dietro sarebbe stato facile quasi quanto spingere la mia carriola rossa quando avevo sette anni.
Ruotai il carro e mi diressi verso la strada, chinandomi per passare sotto altre corde da bucato. Radar trotterellava accanto a me. Quando raggiunsi quella che avevo ormai ribattezzato la Strada per la Città (non c’erano mattoni gialli in vista, quindi il nome Strada dei Mattoni Gialli era escluso dal novero), mi voltai. Dora era in piedi su un lato del cottage, con le mani giunte tra i seni. Quando si accorse che la stavo guardando se le portò alla bocca e poi le tese di slancio verso di me.
Posai a terra le stanghe per il tempo sufficiente a imitare il suo gesto, poi mi misi in cammino. Ecco una cosa che ho imparato a Empis: le persone gentili d’animo splendono ancora di più nei tempi bui.
Devo aiutare anche lei, pensai. Devo aiutare anche Dora.
2
Camminammo su per colline e giù per vallate, come si sarebbe potuto leggere in una di quelle vecchie fiabe. I grilli frinivano e gli uccelli cinguettavano. I papaveri sulla nostra sinistra ogni tanto lasciavano spazio a campi coltivati, dove notai uomini e donne grigi – non molti – al lavoro. Appena mi videro, interruppero quello che stavano facendo finché non fui passato oltre. Li salutai con la mano ma solo una di loro, una donna con un grosso cappello di paglia, mi restituì il saluto. C’erano altri campi, lasciati incolti e dimenticati. Le erbacce spuntavano in mezzo agli ortaggi, insieme a macchie brillanti di papaveri che, ne ero convinto, avrebbero finito per occupare tutto lo spazio.
Sulla nostra destra, i boschi proseguivano. C’era qualche fattoria sparsa, ma erano quasi tutte abbandonate. Per due volte dei conigli grossi come cani di piccola taglia attraversarono la strada saltellando. Radar li guardò con interesse, ma non accennò minimamente a volerli inseguire, perciò la liberai dal guinzaglio, che gettai sul pianale del carro. «Non deludermi, signorina», dissi.
Dopo più o meno un’ora mi fermai per slegare l’involto di cibo che Dora mi aveva preparato. Tra le altre prelibatezze c’erano dei biscotti alla melassa. Non c’era cioccolato nell’impasto, perciò ne offrii uno a Radar, che lo sbafò in un sol boccone. C’erano anche tre alti barattoli di vetro avvolti in stracci puliti. Due erano pieni d’acqua e uno conteneva quello che sembrava tè. Bevvi un sorso d’acqua e ne diedi un po’ a Radar in una scodella di porcellana che la mia amica aveva impacchettato insieme al resto. Radar la lappò avidamente.
Mentre finivo di richiudere l’involto, vidi tre persone che mi venivano incontro lungo la strada. I due uomini stavano appena cominciando a ingrigire, ma la donna che camminava tra loro era scura come un temporale estivo. Uno degli occhi era ridotto a una fessura che arrivava fin quasi alla tempia, offrendo uno spettacolo terribile. A parte un luccichio appena accennato dell’iride, che ricordava una scheggia di zaffiro, l’altro occhio era seppellito in un ammasso di pelle grigia. Indossava un vestito lercio che si gonfiava all’altezza del ventre, svelando quella che poteva essere soltanto una gravidanza in stato avanzato. Teneva in mano un fagotto avvolto in una coperta sporca. Uno degli uomini portava un paio di stivali con le fibbie sui lati – che mi ricordavano quello che avevo visto appeso a una corda nel giardino di Dora, quando le avevo fatto la mia prima visita. L’altro uomo indossava dei sandali. La donna era a piedi nudi, e sembrava esausta.
Scorsero Radar seduta in mezzo alla strada e si fermarono.
«Non abbiate paura», gridai. «Non vi morderà.»
Ripresero ad avanzare lentamente, poi si bloccarono di nuovo. Stavolta stavano fissando la pistola dentro la fondina, perciò alzai le mani, con i palmi all’infuori. Ricominciarono a camminare, ma tenendosi sul lato sinistro della strada e guardando prima Radar, poi me, quindi di nuovo Radar.
«Non vogliamo farvi del male», dissi.
Gli uomini erano pelle e ossa e avevano l’aria stanca, mentre la donna era evidentemente esausta.
«Aspettate un minuto», dissi. Nel caso non mi avessero capito, sollevai una mano di fronte a loro, in un gesto da poliziotto. «Per favore.»
Si fermarono. Erano un trio dall’aria decisamente triste. Ora che erano più vicini, notai che le bocche degli uomini cominciavano a piegarsi verso l’alto. Ben presto sarebbero diventate mezzelune in grado appena di muoversi, come quella di Dora.
Quando infilai una mano in tasca, si strinsero accanto alla donna, che a sua volta si portò il fagotto al seno. Tirai fuori uno dei pezzetti di cuoio e glielo porsi.
«Prendilo. Per favore.»
Tese una mano, non senza esitazione, e me lo strappò in fretta e furia, come se temesse che volessi afferrarla. Quando lo fece, la coperta si scostò e vidi che il fagotto era un bambino morto, di un anno o un anno e mezzo di età. Era grigio come il coperchio della bara di mia madre. Ben presto la povera donna avrebbe avuto un altro figlio in sostituzione di quello, e probabilmente anche il secondo sarebbe morto. Se non fosse toccato prima alla donna, o magari durante il travaglio.
«Capisci quello che dico?»
«Sì, ti capiamo», disse l’uomo con gli stivali. La sua voce cominciava a diventare rauca, ma il resto era ancora relativamente normale. «Che cosa puoi chiederci in cambio, straniero, se non le nostre vite? Non abbiamo nient’altro da darti.»
Su questo non c’era il minimo dubbio: non avevano più nulla. Se era stato un essere umano a far loro questo – o a creare le condizioni perché accadesse – quell’essere umano veniva dall’inferno. Anzi, dal pozzo più profondo dell’inferno.
«Non posso darvi il mio carretto, o del cibo, perché sono diretto molto lontano e il mio cane è anziano. Ma se proseguite altri cinque…» Provai a dire chilometri, ma la parola non mi uscì di bocca. Ritentai. «Se camminate più o meno fino a mezzogiorno, vedrete un’insegna con una scarpa rossa. La donna che vive in quella casa vi farà riposare e, forse, vi darà qualcosa da mangiare e da bere.»
Non era esattamente una promessa (mio padre si divertiva a sottolineare le parole ambigue con le quali, alla tv, venivano pubblicizzati certi farmaci miracolosi), e sapevo che Dora non poteva certo nutrire e dissetare ogni gruppo di rifugiati che si trovasse a passare dal suo cottage. Ma ero convinto che quando avesse visto lo stato in cui versava la donna e l’orribile fagotto che portava con sé si sarebbe commossa e avrebbe sicuramente aiutato quei tre. Nel frattempo, l’uomo con i sandali stava esaminando il pezzetto di cuoio. Mi chiese a che cosa servisse.
«Più avanti, dopo la casa della donna di cui vi ho parlato, troverete un negozio dove potrete consegnare quel pegno e ricevere in cambio un paio di scarpe.»
«C’è anche un posto dove poter seppellire un corpo?» Stavolta a parlare era stato l’uomo con gli stivali. «Mio figlio merita una sepoltura.»
«Non lo so. Sono uno straniero in questo mondo. Potete chiederlo quando arriverete all’insegna della scarpa rossa, oppure alla fattoria della ragazza delle oche, un po’ più avanti. Signora, mi rincresce davvero per il suo lutto.»
«Era un bravo bambino», disse la donna, guardando il figlio morto. «Il mio Tam era un bravo bambino. Quando è nato stava bene, era rosa come l’alba, ma poi il grigio è caduto su di lui. Proseguite pure per la vostra strada, signore, e noi procederemo per la nostra.»
«Aspettate un minuto. Per favore.» Aprii lo zaino, ci frugai dentro e trovai due scatole di sardine King Oscar. Gliele porsi, ma i tre si ritrassero. «No, non dovete preoccuparvi. È cibo. Sono sardine. Piccoli pesci. Dovete tirare l’anello del coperchio per prenderli. Qui, vedete?» E diedi un colpetto alla scatola.
I due uomini si scambiarono un’occhiata, poi scossero il capo. Non volevano avere niente a che fare con quelle scatole di latta, o così pareva, mentre la donna si era totalmente scollegata dalla conversazione.
«Dobbiamo proseguire», disse l’uomo con i sandali. «Quanto a te, giovane uomo, stai andando nella direzione sbagliata.»
«È da questa parte che devo andare», risposi.
Mi guardò dritto negli occhi e disse: «Da quella parte c’è solo morte».
Quindi ripartirono, sollevando una nube di polvere sulla Strada della Città, mentre la donna continuava a reggere il suo orribile fagotto. Perché uno dei due uomini non provava a toglierle quel fardello? Ero solo un ragazzo, ma pensavo di conoscere la risposta a quell’interrogativo. Era il suo bambino, il suo Tam, e spettava a lei trasportarne il cadavere, almeno finché ce l’avesse fatta.
3
Mi sentivo stupido per non aver offerto loro il resto dei biscotti, ed egoista per essermi tenuto il carretto. Ma solo fino a quando Radar non crollò a terra alle mie spalle.
Quando accadde ero troppo immerso nei miei pensieri per accorgermene e forse vi stupirà (o forse no) sapere che quei pensieri avevano poco a che spartire con le parole cupe con cui l’uomo con i sandali si era congedato. L’idea che potessi essere ucciso sulla Strada della Città non mi sorprendeva poi così tanto, ai miei occhi: il signor Bowditch, Dora e Leah me lo avevano chiarito tutti, ciascuno a suo modo. Ma quando sei giovane è facile convincerti di rappresentare l’eccezione, l’unico che potrà trionfare sulle avversità e conquistare gli allori. Dopo tutto, chi aveva realizzato il touchdown vincente nel Turkey Bowl? Chi aveva disarmato Christopher Polley? Avevo un’età in cui è possibile credere che dei buoni riflessi e un ragionevole grado di prudenza possano sormontare qualunque ostacolo.
Stavo pensando alla lingua che parlavamo. Quello che sentivo non era esattamente l’inglese colloquiale che si usa negli Stati Uniti, ma non era neanche l’inglese arcaico. Non era l’inglese inglese di certi film fantasy della IMAX, dove tutti gli hobbit, gli elfi e i maghi parlano come membri del Parlamento. Era il tipo di inglese che ci si aspetterebbe di trovare in una fiaba appena adattata ai nostri tempi.
Poi, c’ero io.
Avevo detto di non poter dare loro il mio carretto perché ero diretto molto lontano e il mio cane era anziano. Se mi fossi rivolto a qualcuno a Sentry, avrei detto: Perché ho un mucchio di strada da fare. Avevo parlato di «un’insegna con una scarpa rossa» invece di dire «una casetta con una scarpa sopra la porta». E avevo chiamato la donna incinta «signora», quando forse, nella mia città e data la poca differenza di età tra lei e me, mi sarei risparmiato quell’appellativo. Pensai ancora una volta all’imbuto che si riempiva di stelle, e mi venne in mente che ero una di quelle stelle, adesso.
Stavo diventando parte integrante della storia.
Cercai Radar accanto a me, non la vidi ed ebbi un sussulto. Posai a terra le stanghe del carretto e mi voltai. Era venti metri più indietro, e avanzava zoppicando, il più in fretta possibile, con la lingua che le penzolava da un lato della bocca.
«Oh, Cristo santo, perdonami, signorina!»
La portai in braccio fino al carretto, assicurandomi di reggerla sotto il ventre, ben lontano dalle zampe posteriori doloranti. Le diedi da bere dalla scodella, inclinandola perché potesse prendere tutta l’acqua che voleva, e la grattai dietro le orecchie.
«Perché non hai detto niente?»
Be’, che cavolo. Non era una fiaba di quelle in cui i cani parlano.
4
Proseguimmo nel nostro cammino, in un saliscendi continuo. Incrociammo altri rifugiati. Alcuni si scostavano il più possibile, ma due uomini che viaggiavano insieme si fermarono e si sollevarono in punta di piedi per sbirciare dentro il carretto e vedere che cosa ci fosse. Radar li accolse con un ringhio, ma con quel pelo arruffato e il muso imbiancato era improbabile che li avesse spaventati più di tanto. La pistola che portavo al fianco, però, era tutta un’altra faccenda. Avevano entrambi un paio di scarpe ai piedi, perciò non cedetti il mio ultimo pegno. Comunque, non credo che avrei suggerito loro una sosta da Dora, anche se fossero stati a piedi nudi. Non diedi loro neanche un po’ del mio cibo. C’erano dei campi dove avrebbero potuto procurarsi qualcosa da mangiare, se avessero avuto abbastanza fame da accontentarsi.
«Se è a Seafront che sei diretto puoi pure tornare indietro, ragazzo. Il grigio è arrivato anche lì.»
«Grazie per…» La parola «informazione» si rifiutò di uscire dalla mia bocca. «Grazie per avermelo detto.» Sollevai di nuovo le stanghe del carretto ma li tenni d’occhio, per assicurarmi che procedessero per la loro strada.
Verso mezzogiorno arrivammo in una zona paludosa che si era estesa anche alla strada, coprendola di fango. Piegai la schiena e trascinai il carretto più forte, per evitare che si impantanasse. Il carro non era molto più pesante, con Radar sul pianale, e non si trattava di un buon segno.
Una volta all’asciutto, accostai il carro all’ombra di quella che sembrava una delle querce di Cavanaugh Park. C’era del coniglio fritto in uno dei piccoli involti che Dora aveva preparato per noi, e lo divisi in parti uguali con Radar… o almeno ci provai. Mangiò due pezzi di carne ma il terzo le cadde tra le zampe, e lei mi guardò con aria mortificata. Perfino all’ombra della quercia mi accorsi che gli occhi le erano diventati nuovamente cisposi. Pensai per un attimo che potesse essersi presa la malattia che circolava in quelle terre – il grigio, insomma –, però poi scartai l’idea. Era l’età, molto più semplicemente. Non era facile indovinare quanto tempo le fosse rimasto da vivere, ma sospettavo che non fosse più molto.
Mentre mangiavamo, vidi degli altri conigli giganti che attraversavano la strada a grandi balzi. Poi scorsi un paio di grilli grandi più o meno il doppio rispetto a quelli cui ero abituato, che saltellavano sulle zampe posteriori. Restai sorpreso da quanto riuscissero a rimanere in aria tra un salto e l’altro. Un falco – di dimensioni normali – calò in picchiata per acchiapparne uno, ma il grillo compì una perfetta azione diversiva e sparì rapidamente tra le erbacce che costeggiavano la foresta. Radar osservò con interesse quella parata di forme viventi, senza però sollevarsi sulle zampe posteriori e tanto meno provare a lanciarsi all’inseguimento.
Bevvi un po’ del tè, che era ben zuccherato e delizioso. Dovetti fermarmi dopo tre o quattro sorsi. Dio solo sapeva quando avrei potuto trovarne dell’altro.
«Forza, signorina. Dobbiamo arrivare a casa dello zio. L’idea di fermarci a dormire vicino a questi boschi non mi entusiasma affatto.»
La presi in braccio, poi mi fermai. Sul tronco della quercia, in un rosso scolorito, avevo visto le due iniziali AB. Sapere che il signor Bowditch era stato lì prima di me mi fece sentire meglio. Era come se non fosse morto del tutto.
5
Metà pomeriggio. La giornata era abbastanza calda da ritrovarmi madido di sudore. Non avevamo visto altri rifugiati per un bel po’, però, quando raggiungemmo i piedi di una salita – lunga, ma con un pendio troppo dolce perché la si potesse definire una collina –, udii un tramestio alle mie spalle. Radar si era spostata sul lato anteriore del pianale. Era seduta con le zampe sul bordo e le orecchie tese. Mi fermai e sentii qualcosa che poteva essere una risata soffocata. Ripartii, ma mi arrestai subito prima della cresta, in ascolto.
«Ti piace, tesorino? Un gran bel solletico, eh?»
Era una voce leggermente stridula e flautata, che si rompeva sulle parole «tesorino» e «solletico». Per il resto era vagamente familiare, e dopo un istante capii il perché. Sembrava quella di Christopher Polley. Sapevo che era impossibile, ma l’impressione era quella.
Ripresi la marcia, fermandomi non appena potei scorgere la discesa sul lato opposto. Avevo già notato delle cose strane in quel mondo, ma nessuna più di un bambino seduto in mezzo alla polvere, con una mano stretta sulle zampe posteriori di un grillo. Non ne avevo mai visto uno così grande, ed era rosso anziché nero. Nell’altra mano il bambino stringeva quello che sembrava un coltello con la lama corta e l’impugnatura spezzata e tenuta insieme con della corda.
Era troppo assorto in ciò che stava facendo per vederci. Pugnalò il grillo nello stomaco, producendo uno schizzo di sangue. Fino ad allora non avevo mai saputo che i grilli potessero sanguinare. C’erano altre gocce rosse nell’erba, a suggerire che il bambino doveva essere occupato in quella tortura già da un po’.
«Ti piace così, tesoro?» Il grillo provò a spiccare un salto, ma le zampe posteriori erano bloccate e il ragazzino lo tirò indietro con facilità. «Che ne dici se passo al…»
Radar abbaiò. Il ragazzino si guardò intorno, senza mollare la presa sulle zampe posteriori del grillo, e io mi resi conto che non era un bambino, ma un nano. E vecchio, per giunta. I capelli, bianchi, gli ricadevano in grosse ciocche sulle guance. La faccia era coperta di rughe, e quelle intorno alla bocca erano così profonde da farlo sembrare il classico pupazzo che Leah avrebbe potuto usare per i suoi esercizi da ventriloquo (se non avesse finto che il suo cavallo potesse parlare). I lineamenti del viso erano ancora integri, ma la sua pelle era color dell’argilla. E mi ricordava sempre Polley, in parte perché era piccolo, ma soprattutto per l’espressione scaltra sulla sua faccia. Considerata poi l’attività nella quale era impegnato, non avevo difficoltà a immaginare che potesse uccidere un vecchio gioielliere zoppo.
«Chi sei?» mi chiese, senza la minima ombra di timore, perché ero a una certa distanza da lui e mi stagliavo controsole. Non aveva ancora notato la pistola.
«Che cosa stai facendo?»
«Ho acchiappato questa bestiola. Era veloce, ma il vecchio Peterkin è stato più svelto di lei. Sto cercando di capire se prova dolore. Dio solo sa quanto posso provarne io.»
Stuzzicò di nuovo il grillo con il coltello, stavolta scegliendo un punto tra due placche del carapace. Il grillo rosso riprese a sanguinare e a dibattersi. Io ricominciai a spingere il carretto giù per la collina. Radar abbaiò ancora. Era in posizione eretta, con le zampe anteriori appoggiate al bordo del pianale.
«Fa’ stare zitto il tuo cane, figliolo. Io lo farei, se fossi in te. Se si avvicina, gli taglio la gola.»
Posai le stanghe del carretto ed estrassi per la prima volta la calibro .45 del signor Bowditch dalla fondina. «Non farai niente del genere, né al mio cane né a me. E lascia andare quel grillo.»
Il nano – Peterkin – guardò la pistola, più perplesso che spaventato. «Perché vuoi che lo lasci andare? Mi sto solo divertendo un po’ in un mondo in cui è diventato impossibile farlo.»
«Stai torturando quella povera bestia.»
Peterkin parve ancora più stupito. «Torturando, hai detto? Torturando? È solo un maledettissimo insetto, idiota che non sei altro. Perché dovrebbe interessarti?»
Mi interessava perché guardarlo mentre teneva bloccate le zampe posteriori di quella creatura, l’unico mezzo di fuga del quale disponeva, e continuava a stuzzicarla con la punta del coltello, era uno spettacolo orribile e crudele.
«Non te lo ripeterò un’altra volta.»
Scoppiò a ridere e mi sembrò quasi di sentire Polley, con i suoi «Ah-ah». «Vorresti spararmi per un insetto? Non credo che…»
Puntai in alto alla sua sinistra e premetti il grilletto. Il rimbombo fu più forte di quello che avevo sentito provenire dall’interno del capanno del signor Bowditch. Radar abbaiò. Il nano ebbe un sussulto e si lasciò scappare il grillo, che si mise a saltellare nell’erba alta, zoppicando leggermente. Quel maledetto nanerottolo lo aveva azzoppato. Era solo un insetto, ma questo non significava che Peterkin avesse il diritto di fare ciò che aveva fatto. E quanti grilli rossi avevo visto, in vita mia? Solo quello. Probabilmente erano rari quanto i cervi albini.
Il nano si alzò, spazzolandosi le brache di un verde brillante. Si tirò indietro le ciocche di capelli bianchi come un pianista pronto a esibirsi nel suo numero preferito. Nonostante il colore smorto della pelle, sembrava abbastanza arzillo. Come un grillo, per così dire. E anche se non avrebbe mai partecipato ad American Idol, aveva una voce molto più squillante rispetto a quella di quasi tutte le persone che avevo incrociato nelle ultime ventiquattr’ore, e la sua faccia era integra e ben riconoscibile. Al di là del fatto di essere un nano («Non chiamarli mai gnomi, non lo sopportano», mi aveva detto una volta mio padre), e avere un colorito di merda che avrebbe sicuramente beneficiato di un bello strato di fondotinta, sembrava a posto, tutto sommato.
«Sei un ragazzo decisamente irritabile, a quel che vedo», disse, guardandomi con aria disgustata, e forse (almeno speravo) con un po’ di paura. «Che ne dici se proseguiamo ognuno per la propria strada?»
«Niente in contrario, ma voglio chiederti una cosa, prima che te ne vada. Come mai la tua faccia è più o meno normale, mentre ci sono tante persone che diventano più brutte ogni giorno che passa?»
Non che lui fosse un campione di bellezza, e sono sicuro che la mia domanda gli sia suonata scortese, ma se non puoi essere scortese con una persona che hai appena beccato a torturare un grillo gigante, con chi altro puoi permetterti di esserlo?
«Forse perché gli dei, se credi nella loro esistenza, mi avevano già tirato un brutto scherzo. Come può un tipo grande e grosso come te sapere cosa significa essere piccoli come me?» La sua voce aveva assunto il tono lamentoso di chi – per usare il gergo degli Alcolisti Anonimi – ha ancora un cerchio sul culo perché è stato seduto per troppo tempo sulla tazza del cesso.
Unii pollice e indice e feci il gesto di cancellare qualcosa. «Lo vedi questo? È il violino più piccolo del mondo, e sta suonando ‘Il mio cuore piscia sangue per te’.» La parola piscia mi era uscita di bocca senza sforzo, notai.
Peterkin aggrottò la fronte. «Come hai detto?»
«Non importa. Era una battuta come un’altra. Un modo per stuzzicarti.»
«Ora me ne vado, se non ti dispiace.»
«Fa’ pure, ma io e il mio cane ci sentiremmo più tranquilli se mettessi via quel coltello.»
«Credi di essere migliore di me solo perché fai parte degli integri», disse il piccoletto. «Vedrai che cosa fanno a quelli come te, se ti prendono.»
«Di chi parli?»
«Dei soldati della notte.»
«Chi sono, e che cosa fanno a quelli come me?»
Sogghignò. «Non ha importanza. Spero solo che tu sia in grado di batterti, ma ne dubito. A guardarti da fuori sembri forte, però sono convinto che in realtà sei una mammoletta. È così che sono quelli che non devono combattere ogni giorno. Non hai saltato molti pasti in vita tua, vero, giovane signore?»
«Hai ancora il coltello in mano, signor Peterkin. Mettilo via, se non vuoi che ti costringa a liberartene.»
Il nano si infilò il coltello alla cintola, e sperai quasi che si procurasse un taglio mentre lo faceva – il più profondo possibile. Un pensiero decisamente meschino. Ma poi me ne venne in mente uno anche peggiore: afferrare la mano che aveva stretto le zampe posteriori del grillo e spezzargli il polso, come avevo fatto con Polley. Sarebbe stata una specie di lezione: Ecco che cosa si prova. Potrei dirvi che non lo pensavo sul serio, ma credo che vi mentirei. Era troppo facile immaginarlo mentre afferrava Radar per il collo e la tormentava con il coltello. Non avrebbe mai potuto farlo quando Radar era nel pieno delle forze, ma erano trascorsi diversi anni da quei tempi felici.
Comunque, lo lasciai andare. Si voltò indietro prima di inerpicarsi su per la collina, e l’occhiata che mi lanciò non significava: Lieto di averti incontrato sulla Strada per la Città, giovane straniero. Significava piuttosto: Spera solo che non ti becchi mentre dormi.
Era un’ipotesi improbabile, perché viaggiava nella stessa direzione di tutti gli altri rifugiati, ma fu solo quando ormai era lontano che mi resi conto di una cosa: avrei dovuto costringerlo a gettare a terra il suo coltello e ad andarsene disarmato.
6
Nel tardo pomeriggio non c’erano più campi coltivati o fattorie che sembrassero abitate. Non c’erano nemmeno più rifugiati, anche se in una cascina deserta vidi dei carretti carichi di masserizie nell’erba alta del giardino, e del fumo che usciva dal comignolo. Probabilmente si trattava di un gruppo di viandanti che avevano deciso di mettersi al coperto prima che i lupi cominciassero a ululare, pensai. Se non fossi arrivato presto a casa dello zio di Leah, sarebbe stata un’idea saggia seguire il loro esempio. Avevo il revolver del signor Bowditch e l’automatica di Polley, ma i lupi generalmente si muovono in branchi, e potevano essere grossi come alci, per quanto ne sapevo. E poi, cominciavo a sentire le braccia, le spalle e la schiena affaticate. Il carretto era leggero, e non avevo più incontrato punti della strada infangati, ma lo avevo spinto per un bel pezzo, da quando avevo lasciato il cottage di Dora.
Scorsi le iniziali del signor Bowditch – le sue iniziali originarie, AB – altre tre volte, due su altrettanti alberi che sovrastavano la strada, e la terza su una grossa roccia. A quel punto, la macchia indistinta del sole era caduta dietro gli alberi, e le ombre stavano inghiottendo la terra. Non vedevo abitazioni già da un po’, e cominciavo a temere che il buio potesse coglierci mentre eravamo ancora lungo la strada. Non volevo che accadesse. Al primo anno delle superiori ci era stato dato il compito di imparare a memoria almeno sedici versi di una poesia. La signora Debbins ci aveva dato una ventina di testi tra i quali scegliere. Io avevo optato per un pezzo della Ballata del vecchio marinaio, e ora avrei tanto voluto aver imparato a memoria qualcos’altro, perché quei versi descrivevano fin troppo bene la mia situazione: Ero come un uomo che lungo una strada solitaria proceda con terrore e gran paura e, voltatosi, prosegue, senza più girarsi…
«Perché sa che un orrendo demonio segue i suoi passi», completai i versi a voce alta. Posai le stanghe del carretto a terra e sciolsi le spalle, mentre guardavo le iniziali AB sulla roccia. Il signor Bowditch si era davvero superato: le lettere erano alte quasi un metro. «Rades, tu abbaieresti per avvertirmi se vedessi un orrendo demonio alle nostre spalle, vero?»
Ma Radar dormiva della grossa sul pianale del carro. Se fosse saltato fuori un orrendo demonio, non avrei potuto contare su di lei.
Pensai di bere un sorso d’acqua – avevo la gola secca –, ma decisi che era meglio aspettare. Volevo proseguire, sfruttando la poca luce che restava. Sollevai le stanghe e ripresi il cammino, pensando che anche una baracca di legno avrebbe fatto al caso nostro, data la situazione.
La strada curvava intorno alla roccia e poi correva dritta nel tramonto. E, poco più avanti, a non più di un chilometro e mezzo, potei vedere le finestre illuminate di una casa. Avvicinandomi, scorsi una lanterna appesa a un palo di fronte all’abitazione. Notai che la strada si biforcava sessanta o settanta metri oltre la casa, che era effettivamente di mattoni… come quella del porcellino industrioso nella fiaba.
Un sentiero lastricato portava all’ingresso, ma, prima di imboccarlo, mi fermai a esaminare la lanterna, che proiettava una luce bianca e intensa, difficile da fissare troppo da vicino. Ne avevo vista una simile nella cantina del signor Bowditch, e non dovetti controllarne la base per capire che era una Coleman, disponibile in qualunque negozio americano di ferramenta. Immaginai che quella lanterna, come la macchina per cucire di Dora, fosse un dono del signor Bowditch. «I vigliacchi portano doni e basta», aveva detto.
Al centro della porta c’era un battente dorato a forma di pugno. Abbassai il carretto e sentii uno scricchiolio mentre Radar scendeva lungo il pianale per raggiungermi. Stavo per bussare quando la porta si aprì. Sulla soglia c’era un uomo alto più o meno come me, ma molto più magro, quasi macilento. Era illuminato alle spalle da un fuoco acceso, perciò non potei scorgere i suoi lineamenti: vidi solo il gatto appollaiato sulla sua spalla e un filo sottile di capelli bianchi che gli contornava la testa, per il resto calva. Quando aprì bocca, fu ancora una volta difficile credere di non essere finito in un libro di fiabe, nel ruolo di uno dei personaggi.
«Salve, giovane principe. Ti aspettavo. Sei il benvenuto. Entra pure.»
7
Mi resi conto di aver lasciato il guinzaglio di Radar sul carretto. «Mmh, credo proprio che prima dovrei recuperare il guinzaglio del mio cane, signore. Non so come si potrebbe comportare, in presenza di un gatto.»
«Andranno d’amore e d’accordo», disse il vecchio, «ma se hai del cibo sul carro ti suggerisco di portarlo dentro. Se non vuoi che domattina sia sparito, ovviamente.»
Tornai indietro e presi l’involto di Dora e il mio zaino. E anche il guinzaglio, nel caso dovesse servirmi. Il padrone di casa si spostò di lato, accennando un inchino.
«Entriamo, Rades, ma fai la brava. Conto su di te.»
Radar mi seguì in un salotto tirato a lucido, con un tappeto sopra un pavimento di legno. C’erano due poltrone davanti al fuoco, una con un libro aperto su un bracciolo. C’era qualche altro libro su una mensola accanto al camino. L’altro lato della stanza era occupato da una cucina, piccola e angusta come la cambusa di una nave. Sul tavolo c’erano pane, formaggio, pollo freddo e una scodella piena di quella che quasi sicuramente era gelatina di mirtilli. C’era anche una brocca di ceramica. Il mio stomaco si mise a brontolare.
L’uomo scoppiò a ridere. «L’ho sentito», disse. «C’è un vecchio proverbio che dice: ‘I giovani vanno serviti’. Al quale andrebbe aggiunta la parola ‘spesso’.»
La tavola era apparecchiata per due, e c’era una scodella sul pavimento accanto a una delle poltrone, dalla quale Radar stava già bevendo rumorosamente.
«Sapevi che sarei venuto, vero? Ma come facevi a saperlo?»
«Conosci il nome che preferiamo non pronunciare?»
Annuii. In storie come quella nella quale sembrava fossi entrato c’è spesso un nome che non va pronunciato, se non si vuole risvegliare il male.
«Non ci ha portato via tutto. Hai visto che mia nipote è stata in grado di parlare con te, giusto?»
«Usando come tramite il suo cavallo.»
«Falada, esatto. Leah parla anche con me, giovane principe, sebbene lo faccia di rado. Quando succede, le sue comunicazioni non sono sempre chiare, e dare forma ai suoi pensieri le risulta faticoso anche più che parlare. Abbiamo molte cose di cui discutere, ma prima mangiamo. Vieni.»
Sta parlando di telepatia, pensai. Dev’essere così, perché sicuramente Leah non gli ha telefonato, o mandato un messaggino.
«Perché mi chiami giovane principe?»
Si strinse nelle spalle, e il gatto ebbe un sussulto. «Un modo familiare di rivolgersi al prossimo, tutto qui. Molto antico. Forse un giorno verrà un vero principe, ma dal suono della tua voce quel principe non sei tu. Sei molto giovane.»
Sorrise e si voltò verso la cambusa. Il fuoco nel camino gli illuminò il viso per la prima volta, ma credo lo avessi già capito dal modo in cui teneva una mano tesa davanti a sé mentre camminava, saggiando l’aria in cerca di eventuali ostacoli. Era cieco.
8
Quando si sedette, il gatto saltò sul pavimento. La sua pelliccia era di un marrone scuro e lucido. Si avvicinò a Radar e io mi preparai ad afferrarla per il collare se avesse cercato di aggredirlo. Ma lei non fece niente del genere: chinò il capo e annusò il muso del gatto. Poi si distese a terra. Il gatto camminò avanti e indietro davanti a Radar, come un ufficiale che ispezioni un soldato durante una parata (con risultati non soddisfacenti), quindi si spostò con disinvoltura in salotto. Saltò sulla poltrona con il libro aperto su un bracciolo, e si acciambellò.
«Mi chiamo Charles Reade. Charlie. Leah te l’ha detto?»
«No, non funziona così. È più come avere un’intuizione. È un piacere fare la tua conoscenza, principe Charlie.» Ora che il suo viso era illuminato, potei vedere che i suoi occhi erano svaniti come la bocca di Leah, e c’erano solo due cicatrici, rimarginate da tempo, a segnare il punto dove si erano trovati in passato. «Il mio nome è Stephen Woodleigh. Un tempo avevo un titolo nobiliare – quello di principe reggente –, ma quei giorni sono ormai lontani. Chiamami Woody, se ti fa piacere, dato che io e Catriona viviamo vicino ai boschia.»
«È il tuo gatto?»
«Esatto. Credo che il tuo cane invece si chiami… Raymar? Qualcosa del genere, ne sono certo. Ma non riesco a ricordare il nome preciso.»
«Radar. Apparteneva al signor Bowditch, che però è morto.»
«Ah, mi dispiace molto saperlo.» Aveva l’aria triste, in effetti, ma non stupita.
«Lo conoscevi bene, signore?»
«Chiamami Woody, per favore. Abbiamo trascorso del tempo insieme. Come faremo io e te, Charlie, almeno spero. Ma adesso dovremmo mangiare, perché devi aver fatto parecchia strada per arrivare fin qui.»
«Posso farti una domanda, prima?»
Fece un ampio sorriso, che trasformò la sua faccia in un fiume di rughe. «Se vuoi sapere quanti anni ho, non me lo ricordo. A volte penso di essere stato già vecchio quando il mondo era ancora giovane.»
«No, non era questo che volevo sapere. Ho visto il libro e mi sono domandato… se sei, insomma…»
«Come faccio a leggere se sono cieco? Da’ un’occhiata e capirai. Nel frattempo, preferisci la coscia o il petto?»
«Il petto, grazie.»
Cominciò a riempire i piatti, e doveva essere abituato da parecchio a farlo nel buio più pesto, perché non colsi la minima esitazione nei suoi movimenti. Mi alzai e mi avvicinai alla sua poltrona. Catriona sollevò il capo e mi fissò con i suoi occhi verdi. Il libro era vecchio, e in copertina c’erano dei pipistrelli che volavano, con una luna piena sullo sfondo: L’angelo nero, di Cornell Woolrich. Poteva provenire da una delle pile nella camera da letto del signor Bowditch. Ma quando lo presi e lo aprii sulla pagina alla quale era arrivato Woody non vidi parole, ma solo piccoli gruppi di puntini. Lo rimisi al suo posto e tornai a tavola.
«Leggi in braille», dissi. E pensai: La lingua deve cambiare anche nei libri – essere tradotta, insomma. Quanto può sembrare strana anche la sola idea?
«Proprio così. Adrian mi ha regalato un libro con le istruzioni e mi ha mostrato le lettere. Una volta memorizzate quelle, ho potuto imparare da solo. Ogni tanto mi portava dei libri in braille. Aveva una netta preferenza per i romanzi fantastici, come quello che stavo leggendo mentre aspettavo che arrivassi. Uomini pericolosi e donzelle in difficoltà, che vivono in un mondo molto diverso da questo.»
Scosse il capo e scoppiò a ridere, come se leggere romanzi fosse un’attività frivola, forse addirittura folle. Le sue guance erano colorite per tutto il tempo trascorso davanti al fuoco, e non recavano la minima traccia di grigio. Era integro, eppure non lo era. Come del resto sua nipote. Lui non aveva occhi con cui vedere e lei non aveva una bocca con cui parlare: solo una voglia che apriva con l’unghia di un dito per mangiare quel poco che poteva permettersi. Altro che donzella in difficoltà.
«Vieni. Siediti.»
Mi avvicinai al tavolo. Fuori un lupo ululò, segno che la luna – anzi, le lune – era apparsa. Ma eravamo al sicuro, in quella casa di mattoni. Se un lupo avesse provato a entrare dal camino, si sarebbe arrostito il culo sul fuoco.
«Tutto questo mondo mi sembra fantastico», dissi.
«Rimani qui per un po’ e vedrai che sarà il tuo a sembrarti inventato. Ora mangia, Charlie.»
9
Il cibo era delizioso. Chiesi il bis, poi il tris. Mi sentivo in colpa a farlo, ma era stata una lunga giornata e avevo trainato il carretto per più di trenta chilometri. Woody mangiò con molta moderazione, limitandosi a una coscia e a un po’ di gelatina di mirtilli. Quando me ne accorsi, mi sentii ancora più in colpa. Mi tornò in mente quando mia madre mi aveva accompagnato a casa di Andy Chen, dove mi sarei fermato a dormire, e aveva detto alla mamma di Andy che avevo il verme solitario e che le avrei svuotato la dispensa se non mi avesse messo un freno. Domandai a Woody dove trovava le sue scorte di cibo.
«A Seafront. Laggiù c’è ancora qualcuno che si ricorda chi siamo… o chi eravamo… e rende omaggio. Ma adesso il grigio è arrivato anche lì. La gente sta fuggendo. Probabilmente avrai incontrato qualcuno di loro lungo la strada.»
«Sì, in effetti», dissi, e gli raccontai di Peterkin.
«Un grillo rosso, hai detto? Ci sono delle leggende… ma non ha importanza. Sono contento che tu lo abbia fermato. Forse sei un principe, dopo tutto. Hai i capelli biondi, gli occhi azzurri?» chiese, in tono scherzoso.
«No. Capelli castani e occhi marroni.»
«Quindi non sei un principe, e sicuramente non sei il principe.»
«Chi è il principe?»
«È solo un’altra leggenda. Questo è un mondo pieno di storie e di leggende, come il tuo. Quanto al cibo… Un tempo ne ricevevo più di quanto potessi mangiarne dalla gente di Seafront, anche se di solito si trattava più di pesce che di carne, dato che, come dice il nome, quel posto si trova sul mare. C’è voluto parecchio tempo prima che il grigio raggiungesse anche quella parte di mondo – quanto tempo esattamente non lo so, perché i giorni si confondono l’uno con l’altro, quando si vive nelle tenebre.» Lo disse senz’ombra di autocommiserazione, come se enunciasse un semplice dato di fatto. «Credo che Seafront sia stata risparmiata per un po’ perché si trova su una penisola molto stretta dove soffia sempre il vento, ma nessuno lo sa per certo. Lo scorso anno, Charlie, avresti incontrato un mucchio di gente sulla Strada del Re. Ma ora la marea si sta ritirando.»
«La Strada del Re? È così che la chiamate?»
«Sì, però dopo la biforcazione diventa la Strada del Regno. E se scegliessi di svoltare a sinistra, ti troveresti sulla Strada di Seafront.»
«Dove vanno i rifugiati? Una volta superati il cottage di Dora, la fattoria di Leah e il negozio del fratello di Dora?»
Woody parve sorpreso. «Ha ancora il negozio? Sono stupito. Che cosa accidenti gli è rimasto da vendere?»
«Non lo so. So solo che dà ai viandanti delle scarpe nuove, per sostituire quelle rotte.»
Woody scoppiò a ridere, divertito. «Dora e James! Sempre con i loro trucchi! La risposta alla tua domanda è semplice: non lo so, e sono sicuro che non lo sanno neanche loro. Lontano, tutto qui. Il più lontano possibile.»
I lupi erano rimasti in silenzio, ma ripresero a ululare. Sembravano decine, e fui felice di aver raggiunto in tempo la casa di mattoni di Woody. Radar si mise a uggiolare, e le accarezzai la testa. «Le lune devono essere sbucate dalle nubi.»
«Da quanto mi ha detto Adrian c’è solo una luna nel vostro regno di fantasia. Come dice uno dei personaggi nel romanzo del signor Cornell Woolrich: ‘Siete stati derubati’. Vuoi una fetta di torta, Charlie? Temo che la troverai leggermente stantia.»
«Molto volentieri. Vuoi che la prenda io?»
«Niente affatto. Dopo tutti gli anni che ho trascorso qui – è abbastanza piacevole come esilio, non trovi? – mi so muovere a meraviglia. La torta è in dispensa, su una mensola. Sta’ seduto. Torno in un attimo.»
Mentre prendeva la torta mi versai un altro bicchiere di limonata. La limonata sembrava la bevanda più diffusa, a Empis. Arrivò con una grossa fetta di torta al cioccolato per me e una più piccola per sé. Faceva sembrare la torta della mensa ben poca cosa. Non mi sembrava affatto stantia, solo un po’ dura sui bordi.
I lupi smisero bruscamente di ululare, facendomi pensare di nuovo che qualcuno avesse staccato la spina a un amplificatore con il volume al massimo. Mi resi conto che nessuno, in quel mondo, avrebbe colto l’allusione a This Is Spinal Tap, o a qualunque altro film.
«Mi sa che le nuvole sono tornate», dissi. «Ogni tanto spariscono, vero?»
Scosse lentamente il capo. «Non da quando è arrivato lui. Qui piove, principe Charlie, il sole non splende quasi mai.»
«Gesù», dissi.
«Un altro principe», rispose Woody, anche stavolta con un gran sorriso. «Un principe della pace, secondo la Bibbia in braille che mi ha portato Adrian. Sei satollo? Significa…»
«Lo so che cosa significa. E altroché, se lo sono.»
Si alzò. «E allora vieni a sederti davanti al fuoco. Dobbiamo parlare.»
Lo seguii fino alle due poltrone del suo salottino, e Radar ci venne dietro. Woody cercò a tentoni Catriona, la trovò e la sollevò. La gatta rimase sospesa sulle sue mani come una stola di pelliccia finché non la posò sul pavimento. Riservò un’occhiata altezzosa al mio cane e si allontanò, sventolando la coda con un certo sdegno. Radar si distese tra le due poltrone. Le avevo dato un pezzo del mio pollo, ma ne aveva mangiati solo un paio di bocconi. Ora guardava il fuoco, come se volesse decifrarne i segreti. Pensai di chiedere a Woody come avrebbe fatto a procurarsi le sue scorte di cibo ora che la città di Seafront stava per essere evacuata, ma decisi di non farlo. Temevo di sentirmi rispondere che non ne aveva la minima idea.
«Voglio ringraziarti per la cena.»
Minimizzò con un cenno della mano.
«Probabilmente ti starai domandando che cosa ci faccio qui.»
«Niente affatto.» Si allungò per accarezzare la schiena di Radar. Poi rivolse le cicatrici che avevano preso il posto degli occhi verso di me. «Il tuo cane sta morendo, e non c’è tempo da perdere se hai intenzione di fare ciò per cui sei venuto.»
10
Gonfio di cibo, al sicuro nella casa di mattoni con i lupi che per il momento tacevano e il fuoco che mi scaldava, mi stavo rilassando, e mi sentivo in pace con il mondo. Ma quando Woody disse che Rades stava morendo, mi drizzai a sedere. «Non necessariamente. È vecchia e soffre di artrite alle zampe posteriori, però non è…»
Ripensai a quando l’assistente del veterinario aveva detto che sarebbe rimasta sorpresa se Radar fosse vissuta fino a Halloween, e chiusi la bocca.
«Sono cieco, ma gli altri sensi mi funzionano bene, per essere così vecchio.» La sua voce era gentile, il che rendeva ancora più spaventose le sue parole. «In effetti, il mio udito è diventato acuto come non mai. Avevo cavalli e cani, a palazzo, e quando ero un ragazzo me ne andavo sempre in giro con loro, e li amavo tutti tantissimo. So bene il rumore che fanno, quando sono arrivati a un passo dall’ultimo traguardo. Ascolta! Chiudi gli occhi e ascolta!»
Ubbidii. Di tanto in tanto sentivo il camino scoppiettare. Il ticchettio di un orologio. La brezza che aveva preso forza, fuori dalla casa di mattoni. E potevo sentire Radar: il fischio ogni volta che inalava ossigeno, e il raschio ogni volta che espelleva l’aria.
«Sei venuto per metterla sopra la meridiana.»
«Sì. E c’è anche l’oro. Piccole pepite d’oro, delle dimensioni di cacche di uccello. Per ora non mi serve, ma il signor Bowditch ha detto che con il passare degli anni potrei…»
«Lascia perdere l’oro. Arrivare fino alla meridiana… e usarla… è un’impresa già abbastanza pericolosa per un giovane principe come te. C’è il rischio di imbattersi in Hana. Non c’era ancora, ai tempi di Bowditch. Forse puoi riuscire a evitarla, se fai molta attenzione… e se sei fortunato. La fortuna non va sottovalutata, in un’impresa come questa. Quanto all’oro…» Scosse il capo. «È ancora più rischioso. Ed è un bene che tu non ne abbia bisogno, per ora.»
Hana. Memorizzai il nome per tornarci sopra in un secondo momento. C’era qualcos’altro che stimolava la mia curiosità.
«Come mai stai bene? A parte la cecità, voglio dire.» Non appena quelle parole mi uscirono di bocca, avrei voluto ricacciarle indietro. «Scusa. Non volevo offenderti.»
Sorrise. «Non c’è niente di cui tu debba scusarti. Se dovessi scegliere tra la cecità e il grigio, sceglierei la cecità tutta la vita. Mi sono adattato molto bene. Grazie a Adrian, ho anche delle storie inventate da leggere. Il grigio è una morte lenta. Diventa sempre più difficile respirare. La faccia viene ingoiata da un mucchio di carne inutile. Il corpo si chiude su se stesso.» Sollevò una mano e la strinse a pugno. «Così.»
«Succederà anche a Dora?»
Annuì, ma non era necessario che lo facesse. La mia era stata una domanda infantile.
«Quanto tempo le manca?»
Woody scosse il capo. «È impossibile stabilirlo. Il processo è lento e non è uguale per tutti, ma è irreversibile. È questo che lo rende così orribile.»
«E se andasse via? Se raggiungesse gli altri, ovunque siano diretti?»
«Non credo che sarebbe disposta a farlo, e non credo che servirebbe. Una volta che il grigio arriva, non c’è modo di lasciarselo alle spalle. Come la malattia che distrugge. È stata quella a uccidere Adrian?»
Immaginai stesse parlando del cancro. «No, ha avuto un attacco di cuore.»
«Ah. Una punta di dolore ed è tutto finito. Meglio del grigio. Quanto alla tua domanda, c’era una volta… Adrian mi ha detto che è così che cominciano molte storie, nel mondo dal quale veniva.»
«Esatto. E le cose che ho visto quaggiù assomigliano molto a quelle storie.»
«Lo stesso vale per il posto da dove vieni, ne sono sicuro. Sono tutte storie, principe Charlie.»
I lupi ripresero a ululare. Woody toccò con le dita il suo libro in braille, poi lo chiuse e lo posò su un tavolino accanto alla poltrona. Mi domandai come avrebbe fatto a ritrovare il segno. Catriona tornò, gli saltò in grembo e cominciò a fare le fusa.
«C’era una volta, nella terra di Empis e nella città di Lilimar, dove sei diretto, una famiglia reale che regnava da migliaia di anni. La maggior parte dei suoi membri – non tutti, ma la maggior parte – avevano governato bene e con saggezza. Ma quando venne il tempo del terrore, quasi tutta quella famiglia fu uccisa. Sterminata.»
«Leah mi ha accennato qualcosa. Per bocca di Falada. Ha raccontato che suo padre e sua madre sono morti. Erano il re e la regina, giusto? Perché mi ha detto che lei era una principessa. La più piccola.»
Sorrise. «Sì, la più piccola di tutti. Ti ha spiegato che le sue sorelle sono state assassinate?»
«Sì.»
«E che cosa ti ha detto dei suoi fratelli?»
«Che sono stati uccisi anche loro.»
Fece un sospiro, accarezzò la gatta e guardò il fuoco. Sono sicuro che poteva sentirne il calore, e mi chiesi se potesse anche vederlo, almeno in parte – come si può guardare il sole con gli occhi chiusi e vedere rosso, mentre il sangue viene inondato di calore. Aprì la bocca come se volesse dire qualcosa, quindi la richiuse e scosse leggermente il capo. I lupi sembravano molto vicini… poi smisero di ululare. Accadde così all’improvviso che l’effetto fu decisamente strano.
«È stata una purga. Sai che cosa significa?»
«Sì.»
«Ma alcuni di noi sono sopravvissuti. Siamo scappati dalla città e Hana non ha potuto lasciarla perché vi è stata esiliata dalla sua terra d’origine, nel lontano Nord. Siamo riusciti a uscire dal cancello della città in otto. Avremmo potuto essere nove, ma mio nipote, Aloysius…» Woody scosse nuovamente il capo. «Otto di noi sono sfuggiti alla morte in quella città, e il nostro sangue ci protegge dal grigio, ma un’altra maledizione ci ha colpiti. Hai capito quale?»
Ero certo di sì. «Ognuno di voi ha perso uno dei cinque sensi?»
«Esatto. Leah può mangiare, ma è molto doloroso per lei riuscire a farlo, come forse hai potuto notare.»
Annuii, anche se lui non poteva vedermi.
«Non sente il sapore del cibo e, come hai constatato, non può parlare se non attraverso Falada. È convinta che, se anche dovesse sentire le sue parole, lui rimarrebbe ingannato perché escono dalla bocca di un cavallo. Non lo so. Forse ha ragione. O forse lui le sente eccome, sa da dove provengono, ma lo trova divertente.»
«Quando dici lui…» Non finii la frase.
Woody mi afferrò per la maglietta e tirò con forza. Mi protesi verso di lui. Accostò le labbra al mio orecchio e sussurrò qualcosa. Mi sarei aspettato di udire la parola Gogmagog, ma non fu questo che disse. Disse invece: «Il Predatore».
11
«Potrebbe spedire dei sicari a ucciderci, ma non lo fa. Ci lascia vivere, quei pochi di noi che sono sopravvissuti, e vivere è più che sufficiente, come punizione. Aloysius, come ti ho detto, non è mai riuscito a fuggire dalla città. Ellen, Warner e Greta si sono tolti la vita. Credo che Yolande sia ancora viva, ma vaga per queste terre in preda alla follia. È cieca, come me, e vive dell’elemosina dei viandanti. Quando viene, le do da mangiare e presto ascolto alle sue parole senza senso. Sono tutti nipoti e cugini, mi capisci? Sangue del mio sangue. Mi segui?»
«Sì», risposi, ed era vero. Più o meno.
«Burton è diventato un anacoreta, vive nel folto dei boschi e prega sempre per la liberazione di Empis, giungendo le mani ma senza poterle sentire. Non può sentire neanche le ferite, a meno che non veda il sangue. Mangia, ma non sa mai se il suo stomaco è pieno o vuoto.»
«Mio Dio», dissi. Avevo pensato che essere cieco fosse la condanna peggiore, però mi sbagliavo.
«I lupi lo lasciano tranquillo. O, almeno, lo facevano. Sono passati due anni o forse più dall’ultima volta che è venuto qui. Magari è morto anche lui. Il mio gruppo di fuggiaschi è partito sul carro di un maniscalco, e io, che non ero ancora cieco, ero in piedi a cassetta e frustavo una pariglia di sei cavalli, pazzi di terrore. Con me c’erano mia cugina Claudia, mio nipote Aloysius e mia nipote Leah. Correvamo più veloci del vento, Charlie, e le ruote con i cerchi in ferro stridevano sul lastricato, sollevando scintille. Siamo letteralmente volati a tre metri di altezza dalla cima del ponte sul Rumpa. Ho pensato che il carro si sarebbe rovesciato o si sarebbe spaccato in mille pezzi quando avessimo toccato terra, ma era solido e ha retto all’urto. Potevamo sentire il ruggito di Hana dietro di noi, come una tempesta che si avvicinava sempre di più. Li sento ancora, quei ruggiti. Frustavo i cavalli, che correvano come se avessero l’inferno alle calcagna… ed era proprio così. Aloysius si è voltato a guardare subito prima che arrivassimo ai cancelli, e Hana gli ha staccato la testa dalle spalle. Non ho visto niente perché la mia attenzione era tutta concentrata su ciò che avevo davanti, ma Claudia ha visto tutto. Leah no, grazie al cielo. Era avvolta in una coperta. La manata successiva di Hana ha sventrato il lato posteriore del carro. Sentivo il suo alito, lo sento ancora adesso. Puzzava di pesce e carne marcia, e di sudore rancido. Abbiamo attraversato i cancelli appena in tempo. Quando si è accorta che le eravamo sfuggiti, è letteralmente esplosa. L’odio e la frustrazione in quel ruggito! Sì, li sento ancora.»
Si interruppe e si asciugò le labbra. La mano gli tremava, quando lo fece. Non avevo mai conosciuto nessuno affetto da disturbo da stress post-traumatico, se non in film come The Hurt Locker, ma era esattamente ciò che mi trovavo davanti agli occhi in quel momento. Non sapevo quanto tempo prima fosse fuggito dalla città, ma l’orrore di quegli istanti era ancora dentro di lui, ed era fresco. Non mi piaceva l’idea di essere stato io a fargli ricordare quel momento e a costringerlo a parlarne, ma avevo bisogno di sapere che cosa mi aspettava.
«Charlie, se vai nella mia dispensa troverai una bottiglia di liquore di more. Ne vorrei un bicchierino, se non ti dispiace. Prendine uno anche per te, se ti va.»
Trovai la bottiglia e gli versai un bicchiere di liquore. L’odore delle more fermentate era abbastanza forte da spazzare via ogni mio desiderio di prenderne un po’, anche a prescindere dalla sana ostilità nei confronti dell’alcol che avevo maturato a causa di mio padre, quindi optai per un altro bicchiere di limonata.
Bevve due lunghi sorsi, svuotando quasi il bicchiere, e fece un lungo sospiro. «Ora va meglio. Questi ricordi sono tristi e dolorosi. Si sta facendo tardi e devi essere stanco, perciò è arrivato il momento di parlare di quello che devi fare per salvare il tuo amico cane. Sempre che tu non abbia cambiato idea.»
«Non ho cambiato idea.»
«Sei disposto a rischiare la vita e la sanità mentale per un cane?»
«È tutto quello che mi rimane del signor Bowditch.» Ebbi un’esitazione, poi gli dissi anche il resto. «E le voglio bene.»
«Ottimo. Capisco che tu le voglia bene. Ecco che cosa devi fare. Ascoltami con attenzione. Un altro giorno di cammino ti porterà a casa di mia cugina Claudia. Se procedi di buon passo, ovviamente. Quando arriverai lì…»
Lo ascoltai con attenzione. Come se la mia vita dipendesse dalle sue parole. E l’ululato dei lupi, che era ripreso, suggeriva chiaramente che le cose stavano proprio così.
12
Il gabinetto di Woody si trovava fuori, ed era collegato alla sua camera da letto da un breve corridoio di assi di legno. Mentre lo percorrevo con una lanterna in mano (una di quelle vecchie, non una Coleman), qualcosa sbatté contro la parete, con un tonfo sordo. Qualcosa di famelico, immaginai. Mi lavai i denti a secco e usai la toilette. Speravo che Rades riuscisse a controllare la vescica fino alla mattina dopo, perché non avevo la minima intenzione di portarla fuori prima di allora.
Non dovetti dormire davanti al fuoco, stavolta, perché c’era una seconda camera da letto. Il lettino aveva una coperta piena di farfalle ricamate che dovevano essere opera di Dora, e le pareti erano dipinte di rosa. Woody mi disse che sia Leah sia Claudia avevano usato quella stanza di tanto in tanto, ma Leah non veniva a trovarlo da diversi anni.
«Qui puoi vederle com’erano un tempo», disse Woody. Si allungò con prudenza e prese da una mensola un piccolo quadretto ovale in una cornice dorata. Vidi una ragazza e una giovane donna. Erano entrambe bellissime, e stavano in piedi, abbracciate, davanti a una fontana. Indossavano dei bei vestiti e avevano nastri nei capelli. Leah aveva una bocca con la quale sorridere e, sì, avevano entrambe un aspetto regale.
Indicai la ragazza. «Questa è Leah? Prima…?»
«Sì.» Woody rimise il quadretto al suo posto, con la consueta cura. «Prima. Quello che ci è successo è accaduto non molto tempo dopo che siamo fuggiti dalla città. Un atto di pura, feroce vendetta. Erano bellissime, non trovi?»
«È vero.» Continuai a guardare la ragazza più giovane e il suo sorriso, e pensai che la maledizione di Leah era due volte più terribile della cecità di Woody.
«Chi è stato a vendicarsi?»
Scosse il capo. «Non mi va di parlarne. Vorrei solo poter rivedere quel quadro. Ma i desideri sono come la bellezza: illusori. Dormi bene, Charlie. Devi partire presto, se vuoi arrivare da Claudia prima del tramonto. Forse lei potrà dirti qualcosa in più. E se ti svegli durante la notte – o se è il tuo cane a svegliarti – non uscire per nessun motivo.»
«Capisco perfettamente.»
«Bene. Sono lieto di aver fatto la tua conoscenza, giovane principe. Gli amici di Adrian, come dice il proverbio, sono miei amici.»
Uscì dalla stanza, camminando a passo deciso, ma con una mano tesa davanti a sé: doveva essere diventato un gesto istintivo, dopo tutti gli anni che aveva trascorso al buio. Chissà quanti erano, pensai. Quanto tempo era trascorso dall’ascesa di Gogmagog e dalla purga che aveva decimato la sua famiglia? Chi o che cosa era il Predatore? E quanto tempo era trascorso da quando Leah era una ragazzina con un sorriso sulle labbra, che dava tutto per scontato? E gli anni in quel mondo duravano quanto nel mio?
Stephen Woodleigh era Woody… come il cowboy di Toy Story. Probabilmente si trattava di una semplice coincidenza, ma non pensavo che i lupi e la casa di mattoni lo fossero. E poi c’era quella cosa che aveva detto Woody a proposito del ponte sul Rumpa. Mia madre era morta su un ponte che attraversava il Little Rumple e un Rumpelstilzchen, il Tremotino dell’originale tedesco, mi aveva quasi ucciso. E dovevo credere che tutte quelle cose fossero coincidenze?
Radar dormiva accanto al mio letto, e ora che Woody aveva richiamato la mia attenzione sui raschi e sui fischi che ne accompagnavano il respiro, non potevo evitare di sentirli. Ero convinto che mi avrebbero tenuto sveglio, insieme all’ululato dei lupi che riprendeva di tanto in tanto. Ma avevo fatto un lungo viaggio e mi ero tirato dietro un carretto. Non resistei per molto. Non sognai, e mi svegliai direttamente la mattina dopo all’alba, con Woody che mi scuoteva per una spalla.
«Svegliati, Charlie. Ho preparato la colazione e devi partire subito dopo aver mangiato.»
13
C’erano una scodella piena di uova strapazzate e un’altra stracolma di salsicce fumanti. Woody ne mangiò un pochino, Radar altrettanto, e io provvidi al resto.
«Ho caricato la tua roba sul carretto di Dora, e ho aggiunto qualcosa che potrai mostrare a mia cugina quando arrivi a casa sua. Così saprà che sono io che ti mando.»
«Mi sembra di capire che le intuizioni non sono il suo forte.»
Sorrise. «In realtà è vero esattamente il contrario, e ho fatto del mio meglio per mettermi in contatto con lei, ma non è saggio fare troppo affidamento su queste forme di comunicazione. Si tratta di qualcosa che potrà servirti più in là, se la tua missione avrà successo e potrai tornare nel tuo mondo di favole.»
«Di che si tratta?»
«Guarda nel tuo zaino e lo vedrai da te.» Sorrise, si protese verso di me e mi strinse per le spalle. «Forse non sarai il principe, Charlie, ma sei un ragazzo coraggioso.»
«Il mio principe un dì verrà», dissi, quasi cantando.
Sorrise di nuovo. Le rughe sulla sua faccia si mossero. «Anche Adrian conosceva questa canzone. Diceva che veniva da un film che raccontava una storia.»
«Biancaneve e i sette nani.»
Woody annuì. «Diceva anche che la storia vera era molto più triste.»
Come tutte le fiabe, pensai.
«Grazie dell’ospitalità. Abbi cura di te. E di Catriona.»
«Ci prendiamo cura l’uno dell’altra. Ricordi tutto quello che ti ho detto?»
«Penso di sì.»
«Quali sono le cose più importanti?»
«Seguire i segni lasciati dal signor Bowditch, non fare rumore ed essere fuori città prima che faccia buio. Per via dei soldati della notte.»
«Ci credi a quello che ti ho detto sul loro conto, Charlie? Devi crederci, perché in caso contrario potrebbe venirti la tentazione di fermarti oltre il tramonto, se non hai ancora raggiunto la meridiana.»
«Mi hai detto che Hana è una gigantessa e che i soldati della notte sono morti viventi.»
«Sì, ma tu ci credi?»
Pensai agli scarafaggi e ai conigli enormi. Pensai a un grillo rosso che era grande quasi quanto Catriona. Pensai a Dora con la faccia che stava scomparendo e a Leah, con una cicatrice al posto della bocca.
«Sì», dissi. «Credo a tutto.»
«Bene. Ricordati di mostrare a Claudia la cosa che ti ho messo nello zaino.»
Issai Radar sul carretto e aprii lo zaino. In cima c’era un oggetto dorato a forma di pugno, che brillava dolcemente alla luce tenue di un’altra giornata nuvolosa. Guardai la porta della casa di mattoni e vidi che il battente non c’era più. Lo sollevai e rimasi stupefatto da quanto pesasse.
«Mio Dio, Woody! È tutto d’oro?»
«Esatto. Nel caso ti venga la tentazione di proseguire oltre la meridiana e di entrare nella sala del tesoro, ricordati che puoi aggiungere anche questo all’oro che Adrian può aver raccolto nel palazzo durante la sua ultima visita. Arrivederci, principe Charlie. Spero che tu non abbia bisogno di usare l’arma di Adrian, ma, se devi farlo, non esitare.»