1
IO e Radar ci avvicinammo alla biforcazione, che era segnalata da un cartello con l’indicazione per la Strada del Regno sulla destra. Il cartello per la Strada di Seafront si era allentato e puntava verso il basso, come se Seafront si trovasse sottoterra. Radar fece un latrato rauco e vidi un uomo e un ragazzino che venivano dalla direzione di Seafront. L’uomo saltellava su una stampella, con il piede sinistro avvolto in una benda impolverata che toccava appena terra ogni cinque o sei passi. Mi chiesi quanta strada sarebbe riuscito a fare, camminando su una gamba sola. Il ragazzino non avrebbe potuto essergli di molto aiuto; era piccolo e trasportava i loro pochi averi in una sacca di tela grezza che si passava da una mano all’altra, e che ogni tanto si trascinava dietro. Si fermarono alla biforcazione e mi guardarono mentre tenevo la destra, superando il cartello.
«Non andare da quella parte, signore!» gridò il ragazzino. «È la strada che porta alla città maledetta!» Era grigio, ma non quanto l’uomo che viaggiava con lui. Forse erano padre e figlio, ma era impossibile cogliere una qualunque somiglianza tra loro perché i lineamenti dell’uomo erano semicancellati e i suoi occhi avevano cominciato già a chiudersi.
L’uomo diede un colpo sulla spalla del suo compagno di viaggio e si sarebbe sbilanciato e sarebbe caduto se il ragazzino non lo avesse aiutato a ritrovare l’equilibrio.
«Lascialo fare, lascialo fare», disse l’uomo. La sua voce era comprensibile ma soffocata, come se le sue corde vocali fossero avvolte in un kleenex. Pensai che tra non molto avrebbe parlato in un ronzio confuso, come Dora.
Si rivolse a me gridando, per coprire la distanza sempre crescente tra le due strade, ed era evidente che sforzarsi in quel modo gli riuscisse penoso. La sua smorfia di dolore rese i lineamenti semicancellati ancora più orribili, ma voleva assolutamente dire la sua. «Buongiorno, uomo integro! A chi ha aperto le gambe tua madre, perché ti lasciassero in pace?»
Ignoravo di che cosa stesse parlando, perciò non dissi nulla. Radar fece un altro latrato, più debole.
«È un cane quello, papà? O un lupo addomesticato?»
La risposta dell’uomo fu un altro colpo sulle spalle del ragazzino. Poi mi guardò, sogghignando, e fece un gesto che compresi perfettamente. Certe cose non cambiano mai, a quanto pare, in qualunque mondo ti trovi. Fui tentato di replicare con la versione americana del suo gestaccio, ma non lo feci. Deridere un disabile è un comportamento di merda, anche se il disabile in questione è uno stronzo che picchia il figlio e fa allusioni sconce sul conto di tua madre.
«Buona passeggiata, uomo integro!» gridò con la sua voce soffocata. «E che oggi possa essere il tuo ultimo giorno!»
È sempre un piacere incontrare delle brave persone sul tuo cammino, pensai, e proseguii. Ben presto l’uomo e il ragazzino scomparvero alla vista.
2
Avevo la Strada del Regno solo per me, il che mi dava tutto il tempo che volevo per riflettere… e farmi qualche domanda.
Gli integri, per esempio… che cos’erano di preciso? Ma soprattutto, chi erano? Io ero uno di loro, ovviamente, ma ero sicuro che, se ci fosse stato un registro che li includesse tutti, accanto al mio nome ci sarebbe stato un asterisco perché non ero di Empis (era così che chiamavano quella parte del loro mondo; Woody mi aveva detto che Hana, la gigantessa, proveniva da un posto di nome Cratchy). Era stato consolante sentirmi assicurare da Woody – e lo aveva fatto – che non avrei cominciato a diventare grigio e a perdere i lineamenti del viso, perché, così aveva detto, gli integri erano immuni al grigio. Me lo aveva rivelato quella mattina stessa a colazione, e si era rifiutato di proseguire la discussione perché avevo parecchia strada da fare e dovevo mettermi in cammino subito. Quando gli avevo chiesto qualche altra notizia sul Predatore, aveva aggrottato la fronte e scosso il capo. Aveva ribadito che sua cugina Claudia mi avrebbe spiegato qualcosa in più, e avevo dovuto accontentarmi. Ma ciò che mi aveva detto l’uomo con la stampella era significativo: «A chi ha aperto le gambe tua madre, perché ti lasciassero in pace?»
Anche il cielo perennemente grigio mi lasciava perplesso. Di giorno quella coltre grigia non si apriva mai, ma di notte, ogni tanto, le nubi si separavano per lasciar filtrare la luce lunare. Che a sua volta sembrava risvegliare i lupi. Non c’era una sola luna lassù, ma due, che si inseguivano nel cielo, e questo mi induceva a chiedermi dove mi trovassi. Avevo letto un numero sufficiente di romanzi di fantascienza per avere assorbito il concetto di mondi paralleli e della molteplicità di terre abitate, ma avevo l’impressione che, nell’istante in cui avevo superato il punto del corridoio sotterraneo in cui avevo avuto la sensazione che il mio corpo e la mia mente si separassero, fossi approdato a un livello completamente differente di esistenza. La possibilità che mi trovassi su un pianeta di una galassia lontana non era priva di senso, per via delle due lune, ma non mi ero imbattuto in forme di vita aliene, bensì in persone vere e proprie.
Ripensai al libro sul comodino del signor Bowditch, quello con l’imbuto che si riempiva di stelle in copertina. Forse avevo scoperto un modo per accedere a quella matrice dei mondi di cui il libro probabilmente parlava? (Quanto avrei voluto averlo infilato nello zaino insieme alle scorte di cibo, alle pillole di Radar e alla pistola di Polley!) L’idea mi fece tornare in mente un film che avevo guardato con mia madre e mio padre quando ero ancora piccolo: La storia infinita, si intitolava. E se Empis fosse stato come Fantasia in quel film, un mondo creato dalla nostra immaginazione collettiva? Era un concetto junghiano anche questo? Come facevo a saperlo, se ignoravo addirittura come si pronunciava esattamente il nome Jung?
Mi feci tutte queste domande, ma il pensiero che tornava in continuazione ad affollare la mia mente era di natura più pratica: mio padre. Sapeva già che me n’ero andato? Forse lo ignorava ancora (e l’ignoranza, almeno dicono, può essere una benedizione), ma poteva averlo intuito come Woody – ai genitori capita spesso, ho sentito. Se così era stato, forse aveva provato a telefonarmi e, non avendo avuto risposta, mi aveva mandato un messaggio di testo. Forse aveva dedotto che ero troppo impegnato con lo studio per rispondere, ma quella convinzione non sarebbe durata a lungo, perché sapeva che ero troppo responsabile per non richiamarlo appena possibile.
Non sopportavo l’idea di metterlo in agitazione, ma non c’era niente che potessi fare per evitarlo. Avevo preso la mia decisione. Senza contare – devo confessarlo, se voglio dire tutta la verità – che ero contento di essere dove stavo. Non posso dire che mi stessi propriamente divertendo, ma sì, ero contento. Volevo trovare una risposta a migliaia di domande. Volevo vedere che cosa ci fosse dopo ogni altura o dopo ogni curva della strada. Volevo visitare quella che il ragazzino aveva chiamato la «città maledetta». Ovviamente avevo paura – di Hana, dei soldati della notte e di quella creatura o individuo che Woody aveva chiamato il Predatore, e soprattutto di Gogmagog –, ma ero anche in preda all’esaltazione. E poi c’era Radar. Se potevo darle una seconda occasione, ero deciso a farlo.
Nel punto dove mi fermai per fare uno spuntino e per riposarmi un attimo il bosco era fitto su entrambi i lati della strada. Non vidi animali selvatici, ma le ombre regnavano sovrane. «Vuoi un po’ di spezzatino, Rades?»
Speravo che avesse fame, perché quella mattina non ero riuscito a darle le sue pillole. Presi lo zaino, tirai fuori una scatola di sardine, la aprii e la piegai verso di lei perché potesse annusarne il contenuto. Sollevò il muso, ma non si alzò da terra. Vidi che dagli occhi, che le erano diventati ancora più cisposi, spurgava un liquido giallastro.
«Dai, signorina, lo so che ti piacciono.»
Riuscì a fare tre o quattro passi sul pianale inclinato del carretto, ma poi le zampe posteriori le cedettero. Scivolò in avanti, girandosi di lato e lanciando un solo guaito di dolore. Cadde di fianco sul terreno argilloso, e sollevò il capo per guardarmi, ansimando. Aveva un lato del muso sporco di terra. Vedendola in quelle condizioni, soffrivo per lei. Cercò di rialzarsi, ma non ce la fece.
Smisi di pensare agli integri, ai grigi, perfino a mio padre. Era tutto sparito. Le pulii il muso dalla polvere, la presi in braccio e la portai sulla striscia d’erba che separava la strada dalla massa incombente degli alberi. La posai delicatamente a terra, le accarezzai il capo e le esaminai le zampe posteriori. Non sembravano rotte, tuttavia quando le toccai più in alto fece un altro guaito e snudò i denti, non per mordere ma per il dolore. Le zampe mi sembravano a posto, però ero quasi sicuro che, da una radiografia, le articolazioni sarebbero risultate gonfie e infiammate.
Bevve un po’ d’acqua e mangiò un paio di sardine… più che altro per farmi piacere, credo. Avevo perso l’appetito anch’io, ma mi costrinsi a mangiare un po’ del coniglio fritto che mi aveva dato Dora, e un paio di biscotti. Dovevo fare il pieno di energie. Quando ripresi in braccio Rades – con la massima attenzione – per sistemarla di nuovo sul pianale, la udii raschiare a ogni respiro, e le sentii le costole, una per una. Woody aveva detto che stava morendo, e aveva ragione, ma non ero arrivato fin lì per trovare il mio cane morto sul pianale del carretto di Dora. Afferrai le stanghe e ripartii, senza correre – sapevo che avrei esaurito le forze prima del dovuto, altrimenti –, ma avanzando a passo rapido.
«Tieni duro. Forse domani andrà meglio, perciò non mollare, signorina.»
Sentii il rumore della sua coda che sbatteva contro il legno.
3
Mentre tiravo il carro lungo la Strada del Regno le nubi si fecero più scure, però continuò a non piovere, per fortuna. Non mi importava bagnarmi, ma se Radar si fosse inzuppata le sue condizioni sarebbero peggiorate ulteriormente, e in pratica non avevo niente con cui coprirla. Senza contare che trainare il carro sarebbe potuto diventare difficile o addirittura impossibile, se una pioggia forte avesse trasformato la strada in un fiume di fango.
Forse quattro o cinque ore dopo che Radar era caduta dal carro affrontai un tratto in forte salita e mi fermai, in parte per riprendere fiato, ma anche per guardare. La terra si stendeva davanti ai miei occhi, e per la prima volta potei vedere chiaramente le torri della città. Nella luce ovattata, quelle torri erano di un verde olivastro, come se fossero fatte di saponaria. Una muraglia grigia e alta si ergeva all’orizzonte su entrambi i lati della carreggiata. Ero ancora a molti chilometri di distanza ed era impossibile stabilire quanto fosse alta di preciso, ma mi parve di scorgere un cancello di dimensioni mostruose al centro delle mura. Se è chiuso a chiave, pensai, sono fregato.
La strada tra la casa di Woody e il punto in cui ero giunto era stata piena di curve, ma ora procedeva dritta come un fuso fino ai cancelli della città. Qualche chilometro più avanti il bosco cominciava ad arretrare, e scorsi dei carri abbandonati e quelli che potevano essere stati degli aratri a mano in mezzo a campi infestati dalle erbacce. Vidi anche qualcos’altro: un veicolo, o una specie di mezzo di trasporto, che veniva nella mia direzione. Ho un’ottima vista, ma quell’aggeggio misterioso era ancora parecchio lontano, e non riuscivo a capire esattamente che cosa fosse. Toccai il calcio della .45 del signor Bowditch, non per avere la conferma che ci fosse ancora, ma per trovare un po’ di conforto.
«Rades? Tutto bene?»
Mi guardai alle spalle e vidi che anche lei stava guardando me, dal bordo del carretto. Buon segno. Afferrai le stanghe e ripresi il cammino. Le mani mi si stavano riempiendo di vesciche, e non so che cos’avrei dato per un paio di guanti da lavoro. Che cavolo, anche per un paio di guanti a manopola. Se non altro, per un po’ la strada era in discesa.
Dopo un paio di chilometri (le torri erano sprofondate dietro le mura della città via via che la strada scendeva), mi fermai di nuovo. Ora potei notare che la persona che veniva verso di me era seduta su una specie di enorme triciclo. E man mano che la distanza tra noi si riduceva, vidi che la persona in questione era una donna, e che procedeva a considerevole velocità. Indossava un vestito nero che le si gonfiava sul corpo, e non riuscii a non pensare ancora al Mago di Oz. Più nello specifico, alla parte in bianco e nero all’inizio, quando Almira Gulch arriva in bicicletta sotto il cielo minaccioso del Kansas per prendere il cane di Dorothy, che l’ha morsa, e farlo sopprimere. C’era addirittura un cesto di vimini dietro il triciclo, anche se molto più grande di quello che Almira Gulch aveva sistemato sopra la ruota posteriore della sua bici.
«Non preoccuparti, Rades», dissi. «Non ti porterà via da me.»
Quando la donna con il triciclo era ormai vicina mi fermai, aprendo e chiudendo le mani che mi bruciavano. Ero pronto a mostrarmi amichevole se quella donna si fosse rivelata la persona che immaginavo, ma ero altrettanto pronto a difendere me stesso e il mio cane se invece avessi scoperto in lei la versione empisariana della strega cattiva.
La donna si fermò pedalando al contrario e sollevando una nube di polvere. Il vestito le si sgonfiò e si afflosciò contro il corpo. Indossava un paio di pantaloni neri aderenti sotto il vestito, e un grosso paio di stivali neri che non avevano bisogno di riparazioni da parte di Dora. Il suo viso era arrossato per lo sforzo e senza la minima traccia di grigio. Se avessi dovuto indovinare, avrei detto che fosse sulla quarantina o forse sulla cinquantina, ma sarebbe stata una semplice ipotesi. Il tempo scorre in modo strano, a Empis, e lo stesso vale per il processo di invecchiamento.
«Tu sei Claudia, vero?» le chiesi. «Aspetta, devo farti vedere una cosa.»
Aprii lo zaino e tirai fuori il battente d’oro a forma di pugno. Gli diede appena un’occhiata prima di annuire e piegarsi sul manubrio. Portava dei guanti di pelle, che le invidiai parecchio.
«SONO CLAUDIA! NON C’ERA BISOGNO CHE MI MOSTRASSI NIENTE, PERCHÉ HO SOGNATO CHE SARESTI VENUTO!» Si diede un colpetto sulla tempia e scoppiò in una risata fragorosa. «I SOGNI NON SONO SEMPRE AFFIDABILI, MA POI STAMANE HO VISTO LA LUMACA! È SEMPRE UN SEGNO CHE STA PER PIOVERE, O CHE STA PER ARRIVARE QUALCUNO!» La sua voce non era solo alta, ma totalmente priva di inflessioni, come quella di un computer malvagio in un vecchio film di fantascienza. Aggiunse una cosa che avevo già abbondantemente intuito: «SONO SORDA!»
Voltò il capo. Aveva i capelli legati sopra la testa, perciò avrei potuto vederle l’orecchio, se ne avesse avuto uno. E invece, proprio come con la bocca di Leah e gli occhi di Woody, al suo posto c’era soltanto una cicatrice.
4
Si sollevò la gonna del vestito, scese dal triciclo e si avvicinò al carretto per dare un’occhiata a Radar, ma prima si fermò per dare un colpetto al calcio della mia .45 nella fondina. «È DI BOWDITCH! LA RICORDO BENISSIMO! E MI RICORDO ANCHE DI LEI!»
Radar alzò il capo alla carezza di Claudia, che la grattò dietro le orecchie come le piaceva tanto. Poi Claudia si piegò, senza mostrare il minimo timore di essere morsa, e annusò il mio cane. Radar le leccò una guancia.
Claudia si voltò verso di me. «STA MALISSIMO!»
Annuii. Non aveva nessun senso negarlo.
«MA VEDREMO DI RIMETTERLA IN SESTO! CE LA FA, A MANGIARE?»
Agitai la mano per farle capire che non aveva molto appetito. «Sai leggere le labbra?» le feci capire, toccando le mie e indicando le sue.
«NON HO MAI IMPARATO BENE!» gridò. «NON HO NESSUNO CON CUI FARE PRATICA! LE DAREMO DEL BRODO DI CARNE! E LO MANGERÀ, PERDIO! LA AIUTERÀ A RIMETTERSI IN SESTO! VUOI METTERLA NEL MIO CESTO? COSÌ ANDIAMO PIÙ VELOCI!»
Non potevo dirle che temevo di farle male alle zampe posteriori, perciò mi limitai a scuotere il capo.
«VA BENE, MA VEDI DI SBRIGARTI! NON MANCA MOLTO ALLE TRE CAMPANE, E ALLA FINE DEL GIORNO! CI SONO QUEI MALEDETTI LUPI, LO SAI!»
Girò in cerchio il suo grosso triciclo – il sellino doveva trovarsi ad almeno un metro e mezzo da terra – e ci salì sopra. Cominciò a pedalare lentamente, e la strada era abbastanza larga perché potessi camminarle accanto, evitando così che io e Radar ci ritrovassimo a mangiare la sua polvere.
«SEI CHILOMETRI!» urlò con la sua voce senza inflessioni. «TIRA FORTE, GIOVANE UOMO! TI PRESTEREI I MIEI GUANTI, MA HAI LE MANI TROPPO GROSSE! QUANDO SAREMO AL SICURO, TI DARÒ UN OTTIMO RIMEDIO! LA RICETTA È MIA E FA MIRACOLI! A VEDERLE DA QUI, SONO CONCIATE PARECCHIO MALE!»
Tirai forte. O comunque, più forte che potevo.
5
Quando arrivammo nei pressi della casa di Claudia cominciava a fare buio, ed ero esausto. Quelle due giornate trascorse trainando il carretto di Dora facevano sembrare gli allenamenti di football una passeggiata, al confronto. Di fronte a noi, forse ad altri tre chilometri di distanza, potevo vedere le prime avvisaglie di quelli che dovevano essere i sobborghi della città, anche se il termine calzava ben poco: in realtà erano tutti cottage come quello di Dora, ma con i tetti sfondati. All’inizio erano distanziati l’uno dall’altro, con dei piccoli giardini o pezzi di terra, ma si ritrovavano spalla a spalla nel punto più vicino alle mura. C’erano dei comignoli, però nessuna traccia di fumo. Dalla strada principale si dipanava un reticolo di vicoli e stradine. Una specie di veicolo – del quale non mi era chiara la natura – si stagliava immobile al centro della via principale. Alla fine pensai che si trattasse di un grosso carro chiuso per il trasporto delle merci. Quando ci avvicinammo, credetti che potesse essere un pullman. Lo indicai.
«È UN TRAM!» gridò Claudia. «È QUI DA UN MUCCHIO DI TEMPO! TIRA, GIOVANE UOMO! DAGLI DI CHIAPPE!» Quell’espressione non l’avevo mai sentita; decisi di conservarla per Andy Chen, sempre che lo avessi rivisto. «CI SIAMO QUASI!»
Dalla città arrivò il suono di tre campane, ben scandito e solenne: DONG, DONG e DONG. Claudia vide che Radar drizzava le orecchie e si voltò verso il rumore.
«TRE CAMPANE?»
Annuii.
«AI VECCHI TEMPI SIGNIFICAVANO: ABBANDONA LE TUE FATICHE E VA’ A CASA, CHE È ORA DI CENA! ORMAI NON C’È PIÙ LAVORO NÉ QUALCUNO PRONTO A FATICARE, MA LE CAMPANE SUONANO ANCORA! NON POSSO SENTIRLE MA MI FANNO STRIDERE I DENTI, SOPRATTUTTO QUANDO C’È UN TEMPORALE!»
La casa di Claudia si trovava su un pezzo di prato di fronte a un laghetto fangoso, circondato dalla boscaglia. La casa era rotonda e costruita con assi di legno recuperate qua e là, e lastre di lamiera. Mi sembrava decisamente fragile, e mi fu quasi impossibile non pensare nuovamente alla fiaba dei tre porcellini e del lupo. Quella di Woody era una casa di mattoni, e quella di Claudia una casa di legno. Se c’era un altro membro della famiglia reale che viveva in una casa di paglia, probabilmente era finito nella pancia del lupo già da un pezzo.
Quando raggiungemmo la casa, scorsi un certo numero di lupi morti: tre o quattro di fronte alla porta e un altro su un lato, con le zampe che sbucavano fuori dall’erba alta. Quello sul lato della casa non potevo vederlo bene, ma i lupi davanti alla porta erano in stato avanzato di decomposizione, con le costole che spuntavano tra ciò che restava della pelliccia. Non avevano più gli occhi, probabilmente strappati da qualche corvo affamato, e le orbite vuote sembravano fissarmi mentre imboccavamo il sentierino che portava all’entrata. Fui sollevato nello scoprire che non erano giganteschi, come gli insetti… ma erano comunque esemplari molto grossi. O lo erano stati, quando erano ancora in vita. La morte li aveva messi a dieta, come immagino accada a tutte le creature viventi.
«QUANDO POSSO LI FACCIO FUORI!» disse Claudia, smontando dal triciclo. «SERVE A TENERE A DISTANZA GLI ALTRI! E QUANDO IL TANFO DIMINUISCE NE AMMAZZO QUALCUN ALTRO, DI QUEI BASTARDI!»
Per essere di famiglia reale, pensai, è davvero sboccata!
Posai a terra le stanghe del carro, le diedi un colpetto su una spalla ed estrassi dalla fondina la pistola del signor Bowditch. Poi inarcai le sopracciglia con fare interrogativo. Non ero sicuro che avrebbe capito, invece comprese al volo che cosa volessi dire, e sorrise. Notai che le mancavano parecchi denti.
«NO, NO, NON CE L’HO UNA DI QUELLE! USO L’ARCO!» Fece il gesto di sollevarne uno. «L’HO COSTRUITO DA SOLA! E C’È UN’ALTRA COSA, PERFINO MIGLIORE! ME L’HA PORTATA ADRIAN, QUANDO QUEL CANE ERA SOLO UN CUCCIOLO!»
Si accostò alla porta e la aprì con una robusta spallata. Tirai Radar giù dal carretto e cercai di farla stare ritta sulle zampe. Riuscì nell’impresa e fece anche qualche passo, ma davanti al gradino di pietra si fermò e mi guardò, chiedendo aiuto. La sollevai e la portai dentro. La casa consisteva in una grande stanza rotonda e in quella che probabilmente era una stanza più piccola, nascosta da una tenda di velluto azzurra arricchita di fili scarlatti e color oro. C’erano una stufa, un cucinino e un tavolo da lavoro coperto di attrezzi. Sul tavolo c’erano anche frecce in diversi stadi di lavorazione, e un cesto di vimini che ne conteneva cinque o sei pronte per l’uso. Quando Claudia tirò fuori un lungo fiammifero e accese un paio di lampade a olio, le punte delle frecce scintillarono. Ne presi una per studiarla più da vicino. La punta era d’oro e tagliente. Quando vi accostai il dito indice, vidi formarsi immediatamente una goccia di sangue.
«ATTENTO, NON VORRAI FARTI MALE!»
Claudia mi afferrò per la maglietta e mi trascinò fino a un lavello foderato di stagno, con una pompa a mano sospesa sopra. Abbassò più volte la leva per metterla in funzione, poi prese il dito e lo infilò sotto l’acqua gelata, per fermare il sangue.
«È solo un piccolo…» cominciai a dire, poi rinunciai e la lasciai fare. Completata l’opera, mi colse di sorpresa scoccandomi un bacio sulla microscopica ferita.
«SIEDITI! RIPOSA! TRA POCO MANGIAMO! DEVO OCCUPARMI DEL TUO CANE, E POI DELLE TUE MANI!»
Mise un bollitore sul fuoco, e quando l’acqua fu calda ma non bollente tirò fuori una bacinella da sotto il lavandino e la riempì. Poi aggiunse una roba puzzolente presa da un vaso sopra una mensola. Le mensole erano piene di prodotti – alcuni dentro dei barattoli, altri avvolti in quelle che sembravano garze legate con lo spago, altri ancora in contenitori di vetro. A destra della tenda di velluto era appeso un arco, che tutto sembrava fuorché un giocattolo per bambini. Nel complesso, quel posto mi ricordava una casa di frontiera, e Claudia, più che a un membro di una famiglia di regnanti, assomigliava a una donna di frontiera, pronta a contrastare ogni avversità.
Immerse un panno in quel liquido puzzolente, lo strizzò e si chinò su Radar, che la guardò con aria sospettosa. Cominciò a premerle con delicatezza il panno sulle cosce. Mentre lo faceva, produsse uno strano rumore carezzevole, che credo fosse un canto. Saliva e scendeva di volume, mentre la sua voce, quando parlava, era totalmente monocorde, e mi ricordava gli annunci dagli altoparlanti della mia scuola. Pensavo che Radar avrebbe cercato di scappare, o addirittura di morderla, ma non fece niente del genere. Chinò il capo sulle tavole del pavimento ed emise un sospiro soddisfatto.
Claudia passò le mani sotto il corpo di Radar. «GIRATI, TESORO! TOCCA ALL’ALTRA ZAMPA!»
Più che girarsi, Radar si lasciò andare. Claudia immerse di nuovo il panno nella bacinella e si mise al lavoro sull’altra zampa posteriore. Quando ebbe finito, gettò il panno nel lavello di stagno e ne prese altri due. Li immerse, li strizzò e si girò verso di me.
«STENDI LE MANI, GIOVANE PRINCIPE! È COSÌ CHE TI CHIAMAVA WOODY, QUANDO TI HO SOGNATO!»
Dirle che mi chiamavo semplicemente Charlie non avrebbe funzionato, perciò tesi le mani. Lei le avvolse nei due panni caldi. L’odore della sua pozione era decisamente sgradevole, ma il sollievo fu immediato. Non potevo dirglielo a parole, ma se ne accorse dall’espressione sul mio viso.
«FANTASTICA, VERO? È STATA LA MIA NONNINA A INSEGNARMI COME PREPARARLA, TANTO TEMPO FA, QUANDO QUEL TRAM ARRIVAVA ANCORA FINO A ULLUM E C’ERA QUALCUNO CHE POTEVA SENTIRE QUELLE CAMPANE! DENTRO C’È DELLA CORTECCIA DI SALICE, MA È SOLO L’INIZIO! SOLO L’INIZIO, RAGAZZO MIO! TIENI QUEI PANNI STRETTI SULLE MANI MENTRE VADO A PRENDERE QUALCOSA DA MANGIARE! DEVI AVERE UNA GRAN FAME!»
6
Il pasto consisté in una bistecca con dei fagiolini e una specie di crostata di mele e pesche come dolce. Mangiai fin quasi a scoppiare… e poi presi un’altra fetta di torta. Il cibo non mi era certo mancato da quando ero arrivato a Empis, e Claudia continuava a riempirmi il piatto. Radar ebbe un mestolo di brodo di carne con piccole sfere di grasso che galleggiavano in superficie. Pulì la ciotola con la lingua, si leccò i baffi e guardò Claudia, chiedendo il bis.
«NO, NO, NO», sbraitò lei, piegandosi per grattarla dietro le orecchie, come le piaceva tanto. «VOMITERESTI TUTTO, VECCHIA RIMBAMBITA, E NON TI SERVIREBBE A NIENTE! UNA TAZZA, INVECE, NON TI FARÀ MALE!»
C’era una pagnotta di segale sul tavolo. Ne staccò un pezzetto con le dita forti e indurite dal lavoro manuale (avrebbe potuto trascinare quel carretto per un giorno intero senza procurarsi neanche una vescica), poi tirò fuori una freccia dal cesto di vimini. Infilzò il pezzo di pane sulla punta, aprì lo sportello della stufa e infilò dentro il pane. Quando lo tirò fuori era ancora più scuro, e in fiamme. Lo spense come se fosse una candelina su una torta di compleanno, lo cosparse di burro, prendendolo da un vasetto di ceramica su una delle mensole, e lo tese davanti a sé. Radar si sollevò sulle zampe, staccò il pane dalla freccia con i denti e se lo portò in un angolo. Zoppicava molto meno. Mi venne da pensare che se il signor Bowditch avesse avuto a portata di mano la pozione di Claudia forse avrebbe potuto risparmiarsi l’OxyContin.
Claudia sparì dietro la tenda che nascondeva il suo boudoir e tornò con un taccuino e una matita. Me li porse. Guardai la scritta sulla matita e provai una sensazione di irrealtà. Quel che ne restava diceva: OMAGGIO DELLA SENTRY LUMB. Nel taccuino erano rimasti pochi fogli. Guardai dietro e vidi un’etichetta con il prezzo: STAPLES $1.99.
«SCRIVI QUANDO NON PUOI FARNE A MENO, MA LIMITATI AD ANNUIRE O A SCUOTERE IL CAPO QUANDO PUÒ BASTARE! INSOMMA, NON SPRECARE QUELLA CAZZO DI CARTA! ADRIAN L’HA PORTATA INSIEME ALLA MACCHINA DEI RUMORI DURANTE IL SUO ULTIMO VIAGGIO, ED È TUTTO QUELLO CHE NE È RIMASTO! HAI CAPITO?»
Annuii.
«SEI VENUTO PER FAR RINGIOVANIRE IL TUO CANE, GIUSTO?»
Annuii.
«E SAI COME ARRIVARE ALLA MERIDIANA, GIOVANE UOMO?»
Scrissi qualcosa e le tesi la pagina del taccuino: Il signor Bowditch ha lasciato le sue iniziali lungo il cammino. Iniziali che, ne ero convinto, erano molto meglio delle briciole di Pollicino. Sempre, ovviamente, che la pioggia non le avesse cancellate.
Annuì a sua volta, e piegò il capo per riflettere. Alla luce delle lampade potei notare un’evidente somiglianza con suo cugino Woody, anche se Woody era molto più anziano. Claudia aveva una specie di severa bellezza, nascosta sotto gli anni di duro lavoro e di esercizi di tiro con l’arco contro le scorrerie dei lupi. Una famiglia reale in esilio, pensai. Lei, Woody e Leah. Non i tre porcellini, ma i tre piccoli dal sangue blu.
Alla fine Claudia alzò gli occhi e disse: «È PERICOLOSO!»
Annuii.
«WOODY TI HA DETTO COME DEVI ANDARCI E CHE COSA DEVI FARE UNA VOLTA ARRIVATO?»
Mi strinsi nelle spalle e scrissi: Devo fare piano.
Claudia sbuffò, come se quella precauzione non fosse di alcun aiuto. «NON POSSO CONTINUARE A CHIAMARTI GIOVANE UOMO O GIOVANE PRINCIPE, ANCHE SE C’È QUALCOSA DI PRINCIPESCO NEL TUO ASPETTO! COME TI CHIAMI?»
Scrissi CHARLIE READE, a lettere maiuscole.
«SHARLIE?»
Non c’era andata lontana, con la pronuncia, perciò annuii.
Prese un ciocco di legno dalla cassa accanto alla stufa, aprì lo sportello, lo infilò dentro e richiuse. Si rimise a sedere, incrociò le dita sul vestito, in grembo, e si protese in avanti. Aveva un’espressione molto seria.
«DOMANI ARRIVERAI TROPPO TARDI PER TENTARE L’IMPRESA, PERCIÒ DOVRAI TRASCORRERE LA NOTTE IN UN CAPANNO CHE SI TROVA MOLTO VICINO AL CANCELLO D’ENTRATA! DI FRONTE C’È UN CARRO ROSSO SENZA PIÙ RUOTE! AVANTI, SCRIVILO!»
Scrissi capanno e carro rosso senza ruote.
«FIN QUI NON AVRAI PROBLEMI! TROVERAI IL CAPANNO APERTO, MA C’È UN CATENACCIO PER CHIUDERE DALL’INTERNO! FALLO, SE NON VUOI TROVARTI CON DUE O TRE LUPI A FARTI COMPAGNIA! SCRIVILO, AVANTI!»
Chiudere a chiave la porta.
«RIMANI LÌ FINO A QUANDO NON SENTI LA CAMPANA DEL MATTINO! SUONERÀ UNA VOLTA SOLA! IL CANCELLO SARÀ CHIUSO A CHIAVE, MA TI BASTERÀ PRONUNCIARE IL NOME DI LEAH PER APRIRLO! SOLO IL SUO NOME, PERÒ! LEAH DEI GALLIEN! SCRIVILO!»
Scrissi Leah del Galeone. Mi chiese con un gesto il taccuino, per vedere che cosa avessi scritto, aggrottò la fronte e reclamò la matita. Cancellò la parola Galeone e la sostituì con Gallien.
«NON TI HANNO INSEGNATO A SCRIVERE NELLA TERRA DA DOVE PROVIENI, RAGAZZO?»
Mi strinsi nelle spalle. Non c’era tutta questa differenza tra Galeone e Gallien. E se la città era deserta, chi avrebbe sentito le mie parole e mi avrebbe lasciato entrare?
«DEVI TROVARTI LÌ ED ENTRARE DA QUEL CAVOLO DI CANCELLO SUBITO DOPO LA CAMPANA DEL MATTINO, PERCHÉ AVRAI ANCORA UN BEL PO’ DI STRADA DA FARE!»
Si strofinò la fronte e mi guardò, con aria preoccupata.
«SE VEDI I SEGNI LASCIATI DA ADE, POTREBBE ANDARE TUTTO BENE! SE NON LI VEDI, VATTENE SUBITO, PRIMA DI PERDERTI! QUELLE STRADE SONO UN LABIRINTO! AL TRAMONTO VAGHERESTI ANCORA IN MEZZO A QUELL’INFERNO!»
Scrissi: Ma Radar morirà, se non riesco a farla ringiovanire!
Lesse ciò che avevo scritto e mi restituì il taccuino.
«LA AMI COSÌ TANTO DA SCEGLIERE DI MORIRE INSIEME A LEI?»
Scossi il capo. Claudia mi colse di sorpresa con una risata quasi musicale. Pensai fosse ciò che restava della sua voce prima che fosse condannata a una vita di silenzio.
«NON È UNA RISPOSTA NOBILE, MA CHI RISPONDE IN MODO NOBILE HA LA TENDENZA A MORIRE GIOVANE, CON LE BRACHE SPORCHE DI MERDA! TI VA UN PO’ DI BIRRA?»
Scossi il capo. Claudia si alzò, frugò in quella che immaginavo fosse la sua dispensa e tornò con una bottiglia bianca. La aprì, tirando via un tappo di sughero con un buco al centro – per far respirare la birra, immaginai – e bevve una lunga sorsata, seguita da un rutto molto rumoroso. Si risedette, stringendo in grembo la bottiglia.
«SE I SEGNI SONO ANCORA LÌ, SHARLIE – I SEGNI DI ADRIAN –, SEGUILI PIÙ IN FRETTA CHE PUOI, E SENZA FAR RUMORE! SEMPRE IN SILENZIO! NON PRESTARE ASCOLTO ALLE VOCI CHE POTRESTI SENTIRE, PERCHÉ SONO LE VOCI DEI MORTI… O PEGGIO ANCORA!»
Peggio ancora dei morti? La cosa non mi esaltava di certo. E poi, c’era il rumore che le ruote di legno del carretto avrebbero fatto, su una strada lastricata. Forse Radar poteva fare un pezzo di strada da sola, e il resto tra le mie braccia?
«POTRESTI VEDERE COSE STRANE… COSE CHE CAMBIANO FORMA… MA NON PRESTARE LORO LA MINIMA ATTENZIONE! ALLA FINE ARRIVERAI IN UNA PIAZZA, CON UNA FONTANA SENZ’ACQUA AL CENTRO!»
Mi venne in mente che forse avevo già visto quella fontana, nel ritratto di Claudia e di Leah che Woody mi aveva mostrato.
«VICINO ALLA FONTANA C’È UNA GRANDE CASA GIALLA CON GLI SCURI MARRONI! C’È UN SOTTOPASSO AL CENTRO! E LA CASA APPARTIENE A HANA! METÀ DELLA CASA È DOVE VIVE HANA, E L’ALTRA METÀ È LA CUCINA, DOVE HANA CONSUMA I SUOI PASTI! AVANTI, SCRIVI TUTTO!»
Trascrissi ciò che mi aveva detto, e Claudia mi prese il taccuino. Disegnò il sottopasso, con un soffitto curvo. Sopra il soffitto disegnò una farfalla con le ali distese. Per essere un disegno fatto in fretta e furia, non era niente male.
«DEVI NASCONDERTI, SHARLIE! TU E IL TUO CANE. STARÀ BUONO?»
Annuii.
«STARÀ BUONO QUALUNQUE COSA SUCCEDA?»
Non potevo esserne certo, ma annuii lo stesso.
«ASPETTA I DUE RINTOCCHI DELLE CAMPANE! SCRIVILO, AVANTI!»
Due rintocchi, scrissi.
«FORSE VEDRAI HANA FUORI DALLA CASA PRIMA DEI DUE RINTOCCHI! O FORSE NO! MA LA VEDRAI QUANDO VA IN CUCINA PER IL PRANZO DI MEZZOGIORNO! È ALLORA CHE DEVI ATTRAVERSARE IL SOTTOPASSO, IL PIÙ IN FRETTA POSSIBILE! SCRIVILO!»
Non credevo ce ne fosse bisogno – non avrei avuto nessuna voglia di trascorrere troppo tempo nelle vicinanze di Hana, se era spaventosa come avevo sentito dire –, ma era chiaro che Claudia era preoccupatissima per me.
«A QUEL PUNTO LA MERIDIANA NON SARÀ MOLTO LONTANA! LO CAPIRAI PERCHÉ I MARCIAPIEDI SARANNO MOLTO PIÙ LARGHI! METTI IL CANE SOPRA LA MERIDIANA, E FALLA GIRARE IN SENSO CONTRARIO! USA LE MANI! FA’ ATTENZIONE: SE LA FAI GIRARE IN AVANTI, LA UCCIDERAI! E NON CI SALIRE PER NESSUN MOTIVO! AVANTI, SCRIVI TUTTO!»
Lo feci, ma solo per accontentarla. Avevo letto Il popolo dell’autunno e sapevo quanto fosse pericoloso far girare la meridiana nel verso sbagliato. E l’unica cosa di cui Radar non aveva bisogno era invecchiare.
«TORNA INDIETRO FACENDO LA STESSA STRADA DALLA QUALE SEI VENUTO! MA FA’ ATTENZIONE A HANA! TIENI LE ORECCHIE TESE, QUANDO IMBOCCHI DI NUOVO IL SOTTOPASSO!»
Alzai le mani e scossi il capo. Non capisco.
Claudia sorrise senza allegria. «QUELLA STRONZA FA SEMPRE UN PISOLINO DOPO PRANZO! E RUSSA! LA SENTIRAI, SHARLIE! È COME UN TUONO!»
Le mostrai entrambi i pollici sollevati.
«TORNA INDIETRO VELOCEMENTE! LA STRADA È LUNGA E AVRAI POCO TEMPO! NON È NECESSARIO CHE TU ABBIA GIÀ ATTRAVERSATO IL CANCELLO QUANDO SUONERANNO I TRE RINTOCCHI, MA DEVI ESSERE FUORI DA LILIMAR SUBITO DOPO! E PRIMA CHE FACCIA BUIO!»
Scrissi: I soldati della notte? sul taccuino, e glielo mostrai. Claudia si bagnò il becco con un altro po’ di birra. Sembrava cupa. «SÌ, PROPRIO LORO! ADESSO CANCELLA QUELLO CHE HAI SCRITTO!»
Ubbidii e le porsi di nuovo il taccuino.
«BENE! MENO SI DICE O SI SCRIVE DI QUEI BASTARDI, MEGLIO È! TRASCORRI LA NOTTE NEL CAPANNO CON IL CARRO ROSSO DAVANTI! E RIPARTI QUANDO SENTI LA CAMPANA DEL MATTINO! E TORNA QUI! SCRIVILO!»
Lo feci.
«ABBIAMO FINITO», disse Claudia. «DOVRESTI DORMIRE, ADESSO, PERCHÉ SARAI STANCO E DOMANI DEVI FARE ANCORA MOLTA STRADA!»
Annuii e scrissi qualcosa sul taccuino. Lo tenni sollevato con una mano, e presi una delle sue nell’altra. Sul taccuino, a caratteri cubitali, c’era scritto: GRAZIE.
«NO, NO, NO!» Mi strinse la mano, se la portò alle labbra screpolate e la baciò. «IO AMAVO ADE! NON COME UNA DONNA PUÒ AMARE UN UOMO, MA COME UNA SORELLA AMA UN FRATELLO! SPERO SOLO DI NON MANDARTI A MORIRE… O PEGGIO!»
Sorrisi e le mostrai i pollici alzati, cercando di farle intendere che sarebbe andato tutto bene. Anche se non ne ero affatto convinto.
7
Prima che potessi farle qualche altra domanda – ne avevo molte in serbo – i lupi cominciarono a ululare. Erano tanti, e non si risparmiavano di certo. Vidi la luce della luna filtrare tra due tavole che si erano leggermente scollate, e subito dopo sentii un colpo contro un lato della casa, così forte da far tremare le pareti. Radar si mise ad abbaiare, balzando in piedi con le orecchie tese. Ci fu un altro tonfo, poi un terzo, quindi altri due ravvicinati. Una bottiglia cadde da una delle mensole, e sentii odore di cetrioli.
Estrassi la pistola del signor Bowditch, pensando: A furia di insistere, finiranno per buttare giù la casa.
«NO, NO, NO», gridò Claudia. Sembrava quasi divertita. «SEGUIMI, SHARLIE, E TI FACCIO VEDERE CHE COSA MI HA PORTATO ADRIAN!»
Aprì la tenda di velluto e mi fece segno di entrare. La stanza più grande era in perfetto ordine; la sua camera da letto, tutt’altro. Non arriverei al punto di accusare Claudia di sciatteria per come teneva la sua camera, ma… la volete sapere una cosa? In fondo è proprio quello che direi. C’erano due coperte, appallottolate e tirate via dal letto. Pantaloni, camicie e biancheria intima – che consisteva in mutandoni e sottovesti di cotone – erano sparsi sul pavimento. Claudia allontanò gli indumenti con un calcio mentre mi guidava in fondo alla stanza. Ero più interessato all’assalto dei lupi, in pieno corso, che a ciò che intendeva mostrarmi. Ed era un assalto in piena regola, perché i colpi contro la casetta di legno erano ormai incessanti. Avevo paura che, anche se le nuvole avessero coperto nuovamente le due lune, i lupi non si sarebbero fermati. Erano assatanati, e assetati di sangue.
Claudia aprì una porta, mostrandomi una stanza grande come un armadio, con una toilette chimica che proveniva sicuramente dal mio mondo. «QUI PUOI CAGARE!» disse. «SE DOVESSE SCAPPARTI DURANTE LA NOTTE! NON AVER PAURA DI SVEGLIARMI, DORMO COME UN SASSO!»
Ne ero sicuro, considerato che era sorda, ma dubitavo che avrei mai avuto bisogno del bagno, se i lupi fossero riusciti a sfondare la parete. Non quella notte, e probabilmente mai più. Dai rumori mi sembrava che ce ne fossero decine, tutti impegnati a cercare un modo per entrare mentre Claudia mi faceva fare il tour della casa.
«ADESSO GUARDA QUESTO!» disse Claudia. Usò il palmo di una mano per far scorrere un pannello accanto alla tazza del gabinetto. Dentro c’era una batteria per auto con la scritta ACDELCO su un lato. C’erano dei morsetti attaccati ai terminali. I cavi correvano fino a una sorta di convertitore di potenza dal quale usciva un altro cavo, collegato a quello che sembrava un normalissimo interruttore. Claudia sorrideva. «L’HA PORTATO ADRIAN, E QUEI LUPI DEL CAZZO LO ODIANO!»
I vigliacchi portano doni e basta, pensai.
Claudia premette l’interruttore. Il risultato fu un’esplosione di suoni che sembravano gli allarmi di altrettante automobili, amplificati di cinquanta o cento volte. Mi tappai le orecchie, temendo che se non lo avessi fatto sarei diventato sordo come Claudia. Dopo dieci o quindici interminabili secondi, lei schiacciò di nuovo l’interruttore. Scostai adagio le mani dalle orecchie. Nella stanza più grande Radar stava abbaiando, impazzita, ma i lupi avevano smesso di sbattere contro le pareti.
«SEI ALTOPARLANTI! QUEGLI STRONZI SARANNO FUGGITI NEI BOSCHI COME SE AVESSERO LA CODA IN FIAMME! CHE NE DICI, SHARLIE? IL VOLUME ERA ABBASTANZA ALTO PER TE?»
Annuii e mi diedi dei colpetti sulle orecchie. Niente avrebbe potuto resistere a quello sbarramento sonoro per molto tempo.
«VORREI SOLO POTERLI SENTIRE!» disse Claudia. «MA MI FANNO TREMARE I DENTI! AH AH!»
Avevo ancora con me il taccuino e la matita. Scrissi qualcosa, e glielo mostrai. Che cosa succede quando la batteria si scarica?
Rifletté su quella domanda, poi sorrise e mi diede un buffetto su una guancia. «IO TI OFFRO VITTO E ALLOGGIO, E TU ME NE PORTI UN’ALTRA! LO TROVI GIUSTO COME SCAMBIO, GIOVANE PRINCIPE? IO DICO DI SÌ!»
8
Dormii accanto alla stufa, come avevo fatto a casa di Dora. Non rimasi sveglio a riflettere sulla mia situazione, quella sera; Claudia mi diede una pila di asciugamani da usare come cuscino, e non feci in tempo a posarci sopra la testa che già dormivo. Due secondi dopo – non mi sembrava che fosse trascorso più tempo – mi stava scuotendo. Indossava un lungo soprabito decorato con delle farfalle, anche quelle opera di Dora.
«Che c’è?» dissi. «Lasciami dormire.»
«NO, NO, NO!» Era sorda, ma aveva capito perfettamente che cosa stavo dicendo. «ALZATI, SHARLIE! HAI ANCORA TANTA STRADA DA FARE! È ARRIVATO IL MOMENTO DI PARTIRE PER LA TUA MISSIONE! E POI C’È QUALCOSA CHE VOGLIO FARTI VEDERE!»
Cercai di stendermi di nuovo, ma lei mi tirò su a sedere.
«IL TUO CANE TI STA ASPETTANDO! MI SONO ALZATA UN’ORA FA, E ANCHE IL CANE! LE HO FATTO UN ALTRO MASSAGGIO CON LA MIA POZIONE, ED È IN PERFETTA FORMA! CONTROLLA PURE DI PERSONA!»
Radar era dritta accanto a lei, e scodinzolava. Quando si accorse che la stavo guardando, mi annusò il collo e mi leccò una guancia. Mi alzai. Avevo le gambe indolenzite, e le braccia e le spalle in condizioni ancora peggiori. Le ruotai e feci una decina di piegamenti, come quelli che mi servivano per riscaldarmi durante gli allenamenti di football.
«VA’ PURE IN BAGNO! IO TI PREPARO QUALCOSA DI CALDO!»
Entrai nel bagnetto, dove mi aveva lasciato una bacinella d’acqua calda e un pezzetto di sapone giallo. Orinai e mi lavai le mani e la faccia. C’era il frammento di uno specchio alla parete, non più grande dello specchietto retrovisore di un’auto. Era graffiato e ossidato, ma, quando mi chinai, riuscii a vedere la mia faccia riflessa. Mi drizzai sulle gambe, feci per uscire dal bagno, poi mi guardai di nuovo allo specchio, con maggiore attenzione. Mi sembrava che i capelli si fossero leggermente schiariti. Mi capitava spesso d’estate, dopo intere giornate al sole, ma qui il sole non c’era mai: solo nuvole basse. Tranne la notte, ovviamente, quando le nubi si separavano per lasciar filtrare la luce lunare.
Decisi che era solo un effetto della luce prodotta dall’unica lampada a olio, e delle macchie sullo specchio. Quando tornai nella stanza grande, Claudia mi porse una grossa fetta di pane farcita con un doppio strato di uova strapazzate. Mangiai come un lupo (e non sono sicuro che fosse un gioco di parole).
Mi diede il mio zaino. «CI HO MESSO DENTRO DELL’ACQUA E DEL TÈ FREDDO! E CARTA E MATITA, NEL CASO DOVESSERO SERVIRTI! AH, QUEL CARRO CHE TI SEI TRASCINATO DIETRO RIMANE QUI!»
Scossi il capo e feci il gesto di sollevare le due stanghe.
«NO, NO, NO! NON TI SERVIRÀ PIÙ, FINO A QUANDO NON TORNI CON IL MIO TRICICLO!»
«Non posso prendere il tuo triciclo!»
Si era voltata, e ovviamente non poteva sentirmi. «VIENI FUORI, SHARLIE! TRA POCO SARÀ L’ALBA! NON PUOI PERDERTELA!»
La seguii fino alla porta, sperando che, quando l’avesse aperta, non ci trovassimo davanti un branco di lupi affamati. Non ce n’era traccia, e in direzione di quella che il ragazzino aveva chiamato la «città maledetta» le nubi si erano aperte, mostrando uno sprazzo di stelle. Vicino alla Strada del Regno c’era il grosso triciclo di Claudia. Il cesto dietro era stato rivestito con un panno bianco morbido, e capii al volo: era lì che avrebbe viaggiato Radar. Quel triciclo sarebbe stato più comodo e veloce che non trainare un carretto con Radar sopra, ma c’era qualcos’altro di ancora migliore.
Claudia si piegò e puntò la lampada sull’enorme ruota anteriore. «ADE HA PORTATO ANCHE QUESTE RUOTE! SONO DI GOMMA! NE AVEVO SENTITO PARLARE, MA NON NE AVEVO MAI VISTA UNA! UNA MAGIA CHE PROVIENE DAL TUO MONDO, SHARLIE, E SOPRATTUTTO UNA MAGIA SILENZIOSA!»
Quel dettaglio mi convinse. Non avrei dovuto preoccuparmi del rumore delle ruote sul lastricato.
Indicai il triciclo, poi me stesso. Mi battei sul petto, all’altezza del cuore. «Te lo riporterò, Claudia. È una promessa.»
«ME LO RIPORTERAI, GIOVANE PRINCIPE SHARLIE! NON HO IL MINIMO DUBBIO!» Mi diede una pacca sulla schiena, quindi uno schiaffetto scherzoso sul sedere che mi fece pensare a quando il coach Harkness mi mandava in campo per giocare in difesa o da battitore. «E ADESSO GUARDA IL CIELO, COME SI ILLUMINA!»
Lo feci. Mentre le stelle sbiadivano, il cielo sopra la città di Lilimar assunse uno splendido color pesca. Una tinta simile la si poteva vedere quando albeggiava ai tropici, ma io non avevo mai assistito a niente di simile. Radar era seduta tra noi due, con la testa sollevata, fiutando l’aria. Se non fosse stato per il muco che le colava dagli occhi e per la magrezza, avrei pensato che fosse in perfetta forma.
«Che cosa stiamo cercando?»
Claudia non rispose, perché non aveva notato le mie labbra muoversi. Aveva lo sguardo fisso sulla città, dove le torri e tre alte spirali si stagliavano, nere, contro il cielo chiaro. Non mi piaceva l’aspetto di quelle spirali di vetro, anche da lontano. La loro configurazione le faceva assomigliare a facce rivolte verso di noi. Mi dissi che era solo una chimera, non diversa dal vedere una bocca spalancata in un foro al centro di un vecchio albero, o una nuvola che assomigliava a un drago, ma non funzionò. Neanche lontanamente. Nella mia testa si stava insinuando l’idea – di sicuro assurda – che la città stessa fosse Gogmagog, dotata di occhi e orecchie, e infinitamente malvagia. La prospettiva di avvicinarmi a quel luogo mi spaventava, e quella di usare il nome di Leah per passare attraverso i cancelli era addirittura terrorizzante.
Il signor Bowditch l’ha fatto ed è tornato indietro, mi dissi. Puoi riuscirci anche tu.
Ma avevo molti dubbi.
Poi la campana lanciò nell’aria la sua prima e sonora nota: DONG.
Radar si drizzò sulle zampe e fece un passo in direzione del suono.
«ERA LA PRIMA CAMPANA, SHARLIE?»
Alzai il pollice e annuii.
Quando il suono della campana era ancora sospeso nell’aria cominciò ad accadere qualcosa di ben più stupefacente rispetto a uno scarafaggio enorme o a un grosso grillo rosso: il cielo sopra le baracche e i cottage stipati fuori dalla città iniziò a scurirsi, come se una grande ombra vi si fosse stesa sopra. Afferrai Claudia per un braccio, preoccupato per un istante di assistere a una strana eclisse: non di sole o di luna, ma della terra stessa. Poi, quando il suono della campana svanì definitivamente, il buio si ruppe in migliaia di schegge di luce, che pulsavano e cambiavano di continuo. E vidi i colori: nero e oro, bianco e arancione, e un porpora reale intenso.
Erano farfalle monarca, ognuna grande come un passero, ma così delicate ed effimere che la luce del mattino splendeva non solo intorno a loro, ma anche attraverso i loro corpi.
«SALUTE A TE, EMPIS!» strillò Claudia, sollevando entrambe le mani verso quel fiume di vita che si levava sopra le nostre teste. Un fiume che rendeva invisibili le torri della città e le facce che mi sembrava di aver scorto dentro le spirali. «SALUTE AI GALLIEN, E CHE POSSANO TORNARE A REGNARE, PER SEMPRE!»
Per quanto stesse gridando, non la sentii quasi. Ero folgorato. Non avevo mai visto in vita mia una cosa così surreale e al tempo stesso così bella. Le farfalle oscurarono il cielo mentre volavano sopra di noi, dirette Dio solo sapeva dove, e mentre sentivo l’aria prodotta dalle loro ali accettai finalmente – senza più riserve – la realtà di questo altro mondo. Di Empis. Il mondo d’invenzione era quello da cui venivo.
Era questa la realtà.