28

Dentro la città. Il suono del lutto. Hana. Colei che un tempo cantava. Oro. La cucina. La stanza dei ricevimenti. Dobbiamo salire per poter scendere

1

LEAH ci riportò dove gli altri erano rimasti in attesa. Si sedette di nuovo, senza dire una sola parola per bocca di Falada o del Grillo. Iota mi guardò. Annuii: la mia proposta era stata accettata. Ci sedemmo insieme a lei e aspettammo l’alba. Ricominciò a piovere, non forte ma in modo costante. Leah prese un poncho dall’unica bisaccia caricata su Falada e se lo fece scivolare sulle spalle. Rivolse un cenno a Radar, che mi guardò per chiedere il permesso e la raggiunse. Leah la coprì con il poncho, e anche il Grillo si unì a loro. Erano all’asciutto. Il resto di noi, che indossavamo ancora gli stracci con i quali eravamo fuggiti, si bagnò fino alle ossa. Jaya cominciò a tremare. Eris la abbracciò. Dissi a entrambe che potevano ancora tornare indietro, ma scossero il capo. Iota non sembrava minimamente disturbato dalla pioggia e rimase seduto, a capo chino e con le dita intrecciate.

Il tempo passava. A un certo punto sollevai gli occhi e mi resi conto che riuscivo a vedere Leah. Sollevai una mano verso di lei, con fare interrogativo. Leah si limitò a scuotere il capo. Alla fine, quando la luce annunciò un’alba piovigginosa, si alzò e legò Falada a un pezzo di ferro che spuntava dai resti di un muro di mattoni, in mezzo alle macerie. Si avviò lungo il sentiero, senza voltarsi a controllare che la seguissimo. Il Grillo era di nuovo appollaiato sulla schiena di Radar. Leah camminava lentamente, scostando ogni tanto il fitto intrico di edera, dando un’occhiata e poi proseguendo. Dopo cinque minuti circa, si fermò e cominciò a strappare i rampicanti. Mi avvicinai per aiutarla, ma lei scosse il capo. Avevamo un accordo – un patto –, però era chiaro che la cosa non le faceva affatto piacere.

Tirò via qualche altro ramo di rampicante e allora vidi una porticina nascosta dietro le piante. Non c’erano chiavistelli o maniglie. Mi rivolse un cenno, e indicò la porta. Per un istante non capii che cosa si aspettasse da me, ma poi ci arrivai.

«Apriti, in nome di Leah dei Gallien», dissi, e la porticina si spalancò.

2

Entrammo in un lungo edificio che sembrava un fienile, pieno di vecchi attrezzi. I badili, le zappe e le carriole erano tutti coperti da un fitto strato di polvere. Anche il pavimento era impolverato, e non c’erano impronte di piedi, tranne quelle che ci lasciavamo alle spalle. Scorsi un altro di quegli ibridi tra un pulmino e un carretto. Guardai all’interno e vidi una batteria così corrosa che si era trasformata in una massa verdastra. Mi chiesi da dove provenissero quei piccoli veicoli – almeno due, di cui uno ancora in funzione. Era stato il signor Bowditch a portare le componenti dal nostro mondo, un pezzo per volta, per poi assemblarle sul posto? Non lo sapevo. Di una sola cosa ero certo: il nuovo regime era molto poco interessato a tenere Lilimar pulita e in ordine. L’unica cosa a cui teneva erano gli sport più sanguinari.

Leah ci condusse attraverso una porta sul lato opposto dell’edificio. Ci trovammo in una specie di sfasciacarrozze pieno di tram smontati, di pali della corrente e di fili aggrovigliati. Ci facemmo strada tra quei relitti inutilizzabili, salimmo una scala di legno e sbucammo in una stanza che io e gli altri riconoscemmo all’istante: il deposito dei tram.

Stavamo attraversando la stazione quando il rintocco della campana del mattino riecheggiò intorno a noi. Leah aspettò che il rumore cessasse, poi riprese il cammino. Anche stavolta non si voltò per assicurarsi che la seguissimo. Il rumore dei nostri passi rimbombava nell’edificio. Sopra le nostre teste, una nube scura di pipistrelli giganti sbatté le ali, ma rimase immobile.

«L’ultima volta ce ne stavamo andando», disse Eris a bassa voce. «Stavolta stiamo tornando. Ho anch’io un conto da regolare con quella puttana.»

Non risposi. La cosa non mi interessava. Ero concentrato su ben altro.

Uscimmo sotto la pioggia. All’improvviso, Radar si lanciò giù per i gradini della Casa dei Tram e superò uno dei pali bianchi e rossi con una farfalla di pietra in cima. Infilò il naso tra i rovi. Vidi uno spallaccio del mio zaino, poi udii l’ultima cosa che mi sarei aspettato di sentire, ma che riconobbi immediatamente. Radar tornò indietro al trotto, con la sua scimmietta in bocca. La lasciò cadere ai miei piedi e mi guardò, scodinzolando.

«Brava signorina», dissi, e affidai la scimmia a Eye. Lui aveva delle tasche dove metterla, io no. L’ampia strada che portava al palazzo era deserta, ma non vuota. Il cadavere di Molly la Rossa era sparito, però le ossa dei soldati che ci avevano inseguiti erano sparse per una quarantina di metri, quasi tutte sepolte sotto mucchi di farfalle morte.

Leah si era fermata ai piedi degli scalini, con la testa piegata di lato, in ascolto. La raggiungemmo. Riuscii a sentirlo anch’io: una specie di lamento stridulo, come il vento che ulula tra le grondaie in una notte d’inverno. Saliva e calava d’intensità, trasformandosi in un grido per poi tornare a essere solo un gemito.

«Dei del cielo, che cos’è?» sussurrò Jaya.

«Il suono del lutto», risposi.

«Dov’è il Grillo?» chiese Iota.

Scossi il capo. «Forse non gli piaceva la pioggia.»

Leah si avviò lungo la Strada dei Gallien, in direzione del palazzo. Le posai una mano su una spalla e la fermai. «Dovremmo entrare dal retro, e sbucare vicino allo stadio. Io non ho modo di trovare la strada perché una piccola merda di nome Peterkin ha cancellato le iniziali del signor Bowditch, ma scommetto che tu sai come arrivarci.»

Leah si portò le mani sui fianchi snelli e mi guardò con aria esasperata. Puntò il dito verso il luogo dal quale provenivano i gemiti di Hana, che piangeva la morte della figlia. Poi, nel caso fossi troppo ottuso per capire, sollevò le mani sopra la testa.

«La principessa ha ragione, Charlie», disse Iota. «Perché andare da quella parte, se possiamo evitare la stronza cicciona entrando dall’ingresso principale?»

Comprendevo il suo punto di vista, ma c’erano altri aspetti che, a mio avviso, erano più rilevanti. «Perché mangia carne umana. Sono quasi certo che l’abbiano cacciata dalla terra dei giganti, o come la chiamate qui, proprio per questo motivo. Hai capito che cosa voglio dire? Mangia carne umana. Ed è al suo servizio.»

Leah mi guardò negli occhi. Molto lentamente annuì, e indicò la pistola che portavo alla cintola.

«Proprio così», dissi. «E c’è un altro motivo, mia signora. C’è qualcosa che devo farti vedere.»

3

Proseguimmo ancora per un po’ lungo la Strada dei Gallien, poi Leah girò a sinistra in una traversa così stretta da essere in realtà poco più di un vicolo. Ci guidò attraverso un labirinto di stradine, senza la minima esitazione. Speravo sapesse che cosa stava facendo; erano parecchi anni che non veniva a Lilimar. D’altro canto, avevamo gli ululati di dolore di Hana, a guidarci.

Jaya ed Eris mi raggiunsero. Eris aveva un’aria cupa e determinata. Jaya sembrava terrorizzata. Disse: «I palazzi non stanno mai fermi. So che è una follia, ma è proprio così. Ogni volta che distolgo lo sguardo, li vedo cambiare posizione con la coda dell’occhio».

«E io continuo a sentire delle voci», aggiunse Eye. «Questo posto… non lo so… è pieno di spettri.»

«Ed è proprio così, infatti», risposi. «Lo dobbiamo esorcizzare, anche a rischio di morire.»

«Esercizzare?» chiese Eris. Gli ululati di Hana crebbero d’intensità.

«Non importa», dissi. «Una cosa per volta.»

Leah ci guidò lungo un vicolo dove i palazzi erano così vicini che ci sembrò di scivolare in una fenditura tra le rocce. Potevo vedere i mattoni di un edificio e la pietra dell’altro che si muovevano lentamente all’infuori e poi all’indentro, come se respirassero.

Sbucammo su una strada che riconobbi. Era il viale con la mezzeria invasa dalle erbacce al centro e sui lati quelli che un tempo potevano essere stati dei negozi di lusso, destinati ai membri della famiglia reale e ai loro cortigiani. Iota si allungò per toccare (o forse raccogliere) uno degli enormi fiori gialli, e io lo afferrai per un polso. «Non ti conviene provarci, Eye. Mordono.»

Mi guardò. «Dici sul serio?»

«Altroché.»

Ora potevo vedere i tetti dell’enorme casa di Hana, che si sviluppava a cavallo di una strada. Leah si spostò sulla sua destra e cominciò a scivolare accanto alle vetrine rotte dei negozi, guardando attraverso la pioggia la piazza deserta con la fontana senz’acqua al centro. Le grida di dolore di Hana erano ormai quasi insopportabili, ogni volta che i singhiozzi crescevano di volume fino a diventare urla. Leah finalmente si voltò. Mi invitò con un gesto a farmi avanti, ma mi fece un segno con la mano rivolta verso il basso: piano, piano.

Mi chinai accanto a Radar e le sussurrai di non abbaiare. Poi raggiunsi la principessa.

Hana era seduta sul suo trono tempestato di pietre preziose. In grembo aveva il cadavere della figlia. La testa di Molly la Rossa penzolava da un lato del trono, e le gambe dall’altro. Niente canzoni sconce su Joe, il suo grande amore, quella mattina. Hana accarezzava gli aculei arancioni di Molly, quindi sollevò il viso pieno di bozzi e lanciò un altro ululato. Sistemò un braccio enorme sotto il collo della figlia morta, le alzò il capo e le coprì di baci la fronte e quello che rimaneva della sua bocca sporca di sangue.

Leah la indicò, poi sollevò le mani verso di me, con i palmi in fuori: Che facciamo, adesso?

Ecco che cosa facciamo, pensai, e cominciai ad attraversare la piazza dirigendomi verso il trono sul quale sedeva Hana. Non mi resi conto che Radar era accanto a me fino a quando non iniziò ad abbaiare. I latrati le salivano direttamente dal petto, ed erano accompagnati da un ringhio ogni volta che riprendeva fiato. Hana alzò gli occhi e ci vide arrivare.

«Ferma, signorina», dissi a Radar. «Non allontanarti.»

Hana spostò il corpo su un lato e si alzò in piedi. Una delle mani di Molly atterrò su un mucchietto di ossa. «TU!» gridò, con il petto che si sollevava come un’onda. «TUUUU!»

«Proprio così», dissi. «Sono io, il principe che tutti aspettavano, perciò inginocchiati davanti a me e accetta il tuo destino.»

Non mi aspettavo che ubbidisse, e non mi sbagliavo. Mi venne incontro a lunghi passi. Gliene sarebbero bastati cinque per raggiungermi, e io gliene concessi tre, perché non volevo mancare il bersaglio. Non avevo paura. La tenebra si era impossessata di me. Era fredda ma nitida. Immagino sia un paradosso, però è così che mi sentivo. Potevo vedere la cicatrice con i bordi arrossati al centro della sua fronte, e quando Hana oscurò il cielo sopra di me, gridando qualcosa – non so che cosa, di preciso –, le piazzai due pallottole esattamente in quel punto. Rispetto alla calibro .22, la .45 del signor Bowditch era un fucile a canne mozze. La sua fronte infestata di bolle sprofondò come la neve sotto il peso di uno scarpone. Le ciocche marroni di capelli volarono all’indietro, insieme a uno schizzo di sangue. La sua bocca si spalancò, mostrando una fila di denti acuminati che non avrebbero più strappato e masticato le carni dei bambini.

Le sue braccia si sollevarono di scatto nel cielo grigio. La pioggia le scorreva tra le dita. Sentivo l’odore della polvere da sparo, forte e acre. Barcollò descrivendo un semicerchio, come se volesse lanciare un ultimo sguardo alla figlia. Poi crollò. Quando toccò terra, il tonfo fece tremare le pietre sotto i miei piedi.

Così cadde Hana la gigantessa, che montava la guardia alla meridiana, al laghetto e all’ingresso dello Stadio delle Farfalle, dietro il palazzo di Lilimar.

4

Iota si era fermato di fronte all’ala destra della casa di Hana – l’ala riservata alla cucina. Insieme a lui c’era un uomo grigio quasi senza faccia; era come se la pelle si fosse staccata dal cranio e fosse scivolata verso il basso, trascinandosi dietro un occhio e tutto il naso. Indossava una blusa bianca macchiata di sangue e un paio di pantaloni bianchi. Ne dedussi che era – anzi, era stato – il cuoco di Hana, lo stesso uomo che la gigantessa aveva chiamato bastardo senza palle. Per me non rappresentava un problema. Ciò di cui dovevo occuparmi era dentro il palazzo.

Ma Leah non aveva ancora finito di fare i conti con Hana, a quanto pareva. Si avvicinò alla gigantessa, estraendo la spada. Il sangue formava una pozza intorno alla testa di Hana, e scorreva tra le pietre.

Eris avanzò di un passo e afferrò Leah per un braccio. Lei si voltò, e la sua espressione non aveva bisogno di parole: Come osi toccarmi?

«Naa, mia Signora dei Gallien, non voglio mancarti di rispetto, ma fermati solo un istante. Per favore. Fallo per me.»

Leah sembrò riflettere su quelle parole, poi si tirò indietro.

Eris si accostò alla gigantessa e allargò i piedi per salire su una delle gambe enormi e spalancate. Sollevò la gonna lercia e pisciò sulle carni bianche e flaccide della coscia di Hana. Quando scese, aveva le guance bagnate di lacrime. Si voltò verso di noi.

«Sono venuta a sud dal villaggio di Wayva, un posto di cui nessuno ha mai sentito o sentirà parlare, perché questo maledetto demonio lo ha ridotto a un mucchio di rovine, uccidendo decine di persone. Una di quelle era mio nonno. Un’altra era mia madre. Ora fa’ pure quel che vuoi, mia signora», concluse Eris, con un inchino.

Mi accostai a Iota e al cuoco, che tremava come una foglia. Eye si portò il palmo alla fronte mentre mi guardava, e il cuoco fece altrettanto. «Hai ucciso non una sola gigantessa, ma due», disse Iota. «Se dovessi vivere a lungo – e so che le possibilità sono scarse – non lo dimenticherò mai. Come non dimenticherò Eris mentre le pisciava addosso. Mi ha stupito che il tuo cane non abbia fatto lo stesso.»

Leah si piazzò su un lato della gigantessa, sollevò la spada sopra la testa e la calò. Era una principessa e l’erede al trono, ma in esilio aveva fatto la contadina, ed era forte. Le ci vollero comunque tre colpi di spada per tagliare la testa a Hana.

Si inginocchiò, asciugò la lama con un lembo del vestito porpora della gigantessa, e la rinfoderò. Si diresse verso Iota, che chinò il capo e le rivolse il saluto riservato ai reali. Non appena Eye fu tornato in posizione eretta, Leah indicò il cadavere lungo sei metri, poi la fontana senz’acqua.

«Ai tuoi ordini, mia signora, e con grande piacere.»

Iota si avvicinò al cadavere. Per quanto fosse forte e robusto, dovette usare tutte e due le mani per sollevare la testa, che dondolò avanti e indietro mentre la portava verso la fontana. Eris non vide nulla; stava piangendo tra le braccia di Jaya.

Iota fece un grugnito e la sua maglia si strappò ai lati mentre lanciava la testa, che atterrò al centro della fontana, con gli occhi spalancati nella pioggia. Sembrava il gargoyle davanti al quale ero passato entrando a Lilimar.

5

Imboccammo uno dei sentieri colorati della girandola, stavolta con me alla guida del gruppetto. Il retro del palazzo incombeva su di noi e, ancora una volta, ebbi la certezza che fosse una creatura vivente. Sonnecchiava, forse, ma con un occhio sempre aperto. Avrei potuto giurare che alcune delle torrette avessero cambiato posizione. E lo stesso valeva per le scalinate che si intersecavano e per i parapetti, che sembravano di pietra a una prima occhiata e di vetro verde scuro, pieno di sagome scure e serpeggianti, alla successiva. Pensai alla poesia di Edgar Allan Poe sul palazzo stregato, dove dirompeva per sempre un’orrida folla, che rideva per non sorridere mai più.

In quel punto, le iniziali del signor Bowditch non erano state cancellate. Guardarle fu come ritrovare un amico in un posto pericoloso. Raggiungemmo le porte rosse per il carico merci, con il loro ingorgo di carri in rovina, poi gli archi rampanti verde scuro. Li aggirai e, anche se quella decisione ci rallentava, nessuno fece obiezioni.

«Altre voci», disse Iota, quasi in un bisbiglio. «Le senti?»

«Sì», risposi.

«Che cosa sono? Demoni? Morti?»

«Non credo che possano farci del male. Ma c’è un potere in questi luoghi, non ho dubbi, ed è un potere malvagio.»

Guardai Leah, che tracciò velocemente un cerchio con la mano destra. Sbrighiamoci. Capii al volo che cosa intendesse. Non potevamo sprecare quella luce preziosa, ma era necessario che vedesse con i suoi occhi, perché vedere è il primo passo per comprendere. O per accettare una verità negata troppo a lungo.

6

L’ampia curva del sentiero ci portò nei pressi del laghetto circondato dalle palme, le cui fronde penzolavano flosce sotto la pioggia. Potevo scorgere il palo altissimo al centro della meridiana, ma il sole in cima non c’era più. Dopo il viaggio di Radar sopra la meridiana, il sole era girato dalla parte opposta, e lasciava in bella vista le due lune di Empis. Anche loro avevano una faccia e gli occhi si muovevano… guardandosi a vicenda, quasi volessero misurare la distanza che li separava. Vidi anche le ultime iniziali del signor Bowditch, AB, con una freccia che, dall’apice della lettera A, puntava dritto davanti a sé in direzione della meridiana.

E del laghetto.

Mi voltai verso i miei compagni di viaggio. «Principessa Leah, per favore, vieni con me. Gli altri restino qui fino a quando non li chiamo.» Mi chinai verso Radar. «Anche tu, signorina. Aspettami qui.»

Non ci furono domande o proteste.

Leah si incamminò accanto a me. La condussi al laghetto e la invitai con un gesto a guardare. Vide i resti della sirena sotto l’acqua, lordati dal processo di decomposizione. Vide l’asta della lancia che sporgeva dal ventre di Elsa, e gli intestini che fuoriuscivano dalla ferita.

Leah si lasciò sfuggire un gemito soffocato, che sarebbe potuto diventare un grido se avesse avuto una bocca da spalancare. Si mise le mani sugli occhi e crollò su una delle panchine dove gli empisariani che arrivavano dalle cittadine e dai villaggi si erano probabilmente seduti per guardare con stupore quella bellissima creatura che nuotava nel lago, e forse per ascoltare una sua canzone. Si piegò sulle cosce, continuando a produrre quei gemiti soffocati che per me erano più spaventosi – e disperati – di quanto avrebbero potuto esserlo dei veri singhiozzi. Le posai una mano sulla schiena, preoccupato all’improvviso che l’impossibilità di dare pienamente voce al proprio dolore potesse ucciderla, proprio come una persona particolarmente sfortunata potrebbe morire soffocata da un boccone incastrato in gola.

Alla fine Leah sollevò il capo, guardò di nuovo i resti grigi e inanimati di Elsa e rivolse il viso al cielo. Le gocce di pioggia e le lacrime le colarono sulle guance lisce per poi scendere sulla cicatrice che aveva al posto della bocca e sulla ferita rossa che doveva aprire ogni volta per poter mangiare, nonostante il dolore che sicuramente questo comportava. Alzò i pugni verso il cielo, e li agitò.

Le presi delicatamente le mani. Era come stringere due pietre. Alla fine aprì i pugni e intrecciò le dita alle mie. Aspettai che mi guardasse.

«È stato il Predatore a ucciderla. Se non l’ha fatto di persona, l’ha ordinato a qualcuno. Perché era bella, e la forza che lo governa odia ogni forma di bellezza – le farfalle monarca, le brave persone come Dora che un tempo erano integre, la terra stessa sulla quale eri destinata a regnare. Ama solo la violenza, il dolore e l’omicidio. Ama il grigio. Quando lo troveremo – se lo troveremo – lo ucciderai, se io dovessi morire?»

Mi guardò con aria dubbiosa, gli occhi inondati di lacrime. Alla fine annuì.

«Anche se si trattasse di Elden?»

Scosse il capo con la stessa violenza di poco prima, e staccò le mani dalle mie. E dal laghetto dove giaceva il corpo della sirena sentii arrivare la voce di Leah, triste e tremante: «Non avrebbe mai potuto uccidere Elsa. La amava».

Be’, pensai, non è esattamente un no.

Il tempo passava in fretta. Avevamo ancora diverse ore di luce a disposizione, ma non ero certo che le lune dovessero baciarsi sopra Empis perché il Pozzo Scuro si aprisse; per quanto ne sapevo io, potevano passare sull’altro lato del mondo, producendo lo stesso identico risultato. Gli occhi di Bella e di Arabella sul palo al centro della meridiana ticchettavano avanti e indietro, come a voler sottolineare la validità di quell’idea.

Mi voltai e chiamai gli altri.

7

Girammo intorno alla meridiana, con un’eccezione: Radar la attraversò, fermandosi solo per pisciare accanto al palo centrale, facendomi pensare a Eris e al cadavere della gigantessa.

I sentieri a girandola si fondevano nell’ampia via centrale, che sfociava davanti a sette porte. Provai quella al centro ed era chiusa. Le ordinai di aprirsi, nel nome di Leah dei Gallien, la versione empisariana di «Apriti, sesamo», e funzionò. Lo avevo previsto, ma accadde qualcos’altro che non avevo messo in preventivo. Il palazzo parve ritrarsi nell’udire il nome della principessa. Più che vederlo con i miei occhi lo sentii, come avevo sentito il tonfo sotto i miei piedi quando i tre quintali di Hana si erano schiantati al suolo.

Il groviglio di voci bisbiglianti, che mi risuonava nella testa più ancora che nelle orecchie, s’interruppe improvvisamente. Non ero così stupido da credere che l’intero palazzo fosse stato purificato – «esorcizzato» era il termine che avevo usato con Iota –, ma mi fu subito chiaro che il Predatore non era l’unico a detenere un potere. E il suo sarebbe ancora più forte se potesse parlare da sola, pensai; ma ovviamente Leah non era in grado di farlo.

Oltre le porte c’era un grande salone. Un tempo, come la Casa dei Tram, era stato decorato con un murale circolare, che però era stato coperto da secchiate di vernice nera; non era rimasto nulla, tranne poche farfalle vicino al soffitto. Pensai di nuovo ai fanatici dell’ISIS, che distruggevano gli artefatti appartenenti a civiltà estinte ben prima del loro arrivo.

Al centro del salone c’erano un certo numero di chioschi dipinti di rosso, non molto diversi da quelli che io e mio padre avevamo visitato un’infinità di volte al Guaranteed Rate Field, quando andavamo a Chicago a vedere le partite dei White Sox. «So dove siamo», mormorò Iota. Poi indicò un punto davanti a sé. «Aspetta, Charlie. Un minuto solo.»

Salì di corsa una delle rampe, diede un’occhiata e tornò indietro.

«Gli spalti sono deserti. E pure il campo. Sono andati via tutti. E anche i cadaveri sono spariti.»

Leah gli rivolse un’occhiata spazientita, come se volesse chiedergli che cos’altro aveva pensato di trovare, poi ci precedette sulla sinistra. Imboccammo un corridoio circolare, superando una serie di bancarelle. Radar trotterellava accanto a me. Immaginavo che, se ci fossero stati guai in arrivo, sarebbe stata la prima a fiutarli, però finora sembrava vigile ma calma. Dopo aver superato l’ultima bancarella mi fermai, a bocca aperta, e gli altri fecero altrettanto. Solo Leah non mostrò il minimo interesse per quello spettacolo che mi aveva fatto sgranare gli occhi. Proseguì per un po’ prima di accorgersi che non la stavamo più seguendo. Ci fece segno di sbrigarci, ma per il momento eravamo come paralizzati.

I muri di pietra erano stati sostituiti da un pannello di vetro leggermente curvo e lungo almeno dieci metri. Era coperto di polvere – come ogni altra cosa, all’interno del palazzo –, ma potevamo comunque vedere che cosa c’era all’interno, illuminato da una fila di lampade a gas schermate in modo da funzionare come riflettori. Stavo guardando una camera blindata piena di pepite d’oro come quelle che avevo trovato nella cassaforte del signor Bowditch. Dovevano valere miliardi di dollari americani. Tra queste, sparse qua e là in disordine, c’erano le pietre preziose: opali, perle, smeraldi, diamanti, rubini, zaffiri. Il signor Heinrich, il vecchio orefice zoppo, si sarebbe beccato un infarto.

«Mio Dio», sussurrai.

Eris, Jaya e Iota sembravano interessati, ma tutt’altro che sbalorditi.

«Ne avevo sentito parlare», disse Iota. «È il tesoro, vero, mia signora? Il tesoro di Empis.»

Leah annuì spazientita e ci fece segno di raggiungerla. Aveva ragione: dovevamo sbrigarci, ma mi fermai ancora per pochi istanti, contemplando quell’immenso deposito di ricchezze. Pensai alle tante gite per vedere le partite dei White Sox, e a quella domenica speciale in cui eravamo andati al Soldier Field, dove giocavano i Bears. Entrambi gli stadi avevano delle vetrine dove erano esposti i cimeli, e pensavo che quell’enorme teca di vetro potesse essere qualcosa di simile: mentre si preparavano ad assistere a una partita, le persone comuni potevano fermarsi per guardare a bocca aperta le ricchezze di Empis, sicuramente protette dalla Guardia Reale durante il regno dei Gallien e, più recentemente, da Hana. Non sapevo come avesse fatto il signor Bowditch ad accedere alla camera blindata, ma l’oro che aveva preso, con o senza permesso, era solo una goccia nel mare. Per così dire.

Leah fece un gesto ancora più deciso – sollevando entrambe le mani sopra le spalle. La seguimmo. Mi guardai indietro, pensando che se mi fossi tuffato in uno di quei fiumi d’oro, sarei finito immerso sino al collo nelle pepite. Poi pensai a Re Mida, che era morto di fame – secondo la leggenda – perché tutto quello che provava a mangiare si trasformava in oro non appena lo toccava.

8

Proseguendo lungo il corridoio, cominciai a sentire un odore appena accennato che mi riportò alla mente ricordi sgradevoli di Deep Maleen: salsicce. Arrivammo a una porta a doppio battente sulla nostra sinistra. Al di là c’era una grande cucina con una fila di forni di mattoni, tre piani cottura, alcuni spiedi per girare la carne e dei lavelli così grandi da potercisi tuffare dentro. Era qui che si preparava il cibo per le folle che accorrevano alle partite. Gli sportelli dei forni erano aperti, i fornelli scuriti, e non c’era niente che girava sugli spiedi, ma l’aroma fantasma delle salsicce era ancora nell’aria. Non ne mangerò più una finché campo, pensai. E forse eviterò anche le bistecche.

C’erano quattro uomini grigi che strisciavano contro la parete opposta. Indossavano pantaloni sformati e delle bluse simili a quella che avevo visto addosso a Pursey, ma nessuno di loro era Pursey. Quando ci vide, uno di quegli infelici sollevò il grembiule per coprire quello che restava della sua faccia. Gli altri si limitarono a fissarci, con un misto di sgomento e di terrore sui lineamenti semicancellati. Entrai, nonostante il tentativo da parte di Leah di spingermi oltre lungo il corridoio. Uno dopo l’altro, gli addetti alle cucine caddero in ginocchio e si portarono il palmo alla fronte.

«Naa, naa, alzatevi», dissi, e rimasi stupito dall’alacrità con la quale ubbidirono. «Non voglio farvi del male, ma dov’è Pursey? Percival? So che era uno di voi.»

Si guardarono l’un l’altro, poi fissarono me, il mio cane, Iota che torreggiava alle mie spalle… e ovviamente lanciarono delle occhiate furtive alla principessa, che era tornata ancora una volta nel castello che chiamava casa. Alla fine il grigio che si era coperto il volto lasciò cadere il grembiule e fece un passo avanti. Stava tremando. Vi risparmierò la riproduzione esatta del suo biascichio. Era comunque comprensibile.

«I soldati della notte sono venuti a cercarlo e l’hanno afferrato. Si è messo a tremare come una foglia, poi è svenuto. L’hanno portato via. Forse è morto, mio signore, perché basta sfiorarli per finire ammazzati.»

Questo lo sapevo, ma non era sempre così, o sarei morto diverse settimane prima. «Dove l’hanno condotto?»

I grigi scossero il capo, ma io credevo di conoscere già la risposta alla mia domanda, e se il Signore e Padrone voleva interrogarlo, forse Pursey – Percival – era ancora vivo.

Leah, nel frattempo, aveva visto qualcosa. Attraversò di scatto la stanza, verso l’isola riservata alla preparazione del cibo, che si trovava al centro. Sul bancone c’era un fascio di fogli di carta legati con uno spago e un pennino, con le piume scurite dal grasso e la punta sporca d’inchiostro. Afferrò entrambe le cose e ripeté il suo gesto impaziente, per avvisarci che dovevamo proseguire. Aveva ragione, ovviamente, ma avrebbe dovuto accettare una piccola deviazione nell’appartamento che avevo già visitato una volta. Lo dovevo a Percival. E lo dovevo anche a Kellin, il Signore e Padrone.

Dovevo fargli pagare le sue colpe e, come sappiamo tutti, la vendetta è una gran brutta bestia.

9

Poco oltre le cucine, il corridoio terminava davanti a una porta enorme, dotata di formidabili sbarre di metallo. Sopra il battente c’era un cartello con delle lettere alte quasi un metro. Guardandole direttamente formavano la scritta: DIVIETO D’ACCESSO. Ma, quando voltai il capo per inquadrarle con la vista periferica della quale Cla era stato tristemente privo, le parole divennero un intrico di simboli runici… che, ne sono sicuro, i miei compagni d’avventura erano perfettamente in grado di interpretare.

Leah puntò un dito verso di me. Mi accostai all’uscio e pronunciai le parole magiche. Sentii i catenacci che scattavano dall’interno, e la porta si dischiuse con un cigolio.

«Avresti dovuto provarci a Maleen», disse Eris. «Ci avresti risparmiato un bel po’ di dolore.»

Avrei potuto rispondere che non mi era proprio venuto in mente di farlo, ed era vero, ma non era quella l’unica ragione. «Non ero il principe, allora. Stavo ancora…»

«Ancora cosa?» chiese Jaya.

Stavo ancora cambiando, pensai. Deep Maleen è stata il mio bozzolo.

Mi fu risparmiato di finire la frase. Leah mi fece segno con una mano e mi tirò per la maglia strappata con l’altra. Aveva ragione, ovviamente. Avevamo un’apocalisse da fermare.

Il corridoio dietro la porta era molto più largo, e decorato con arazzi che rappresentavano soggetti di ogni tipo, dai matrimoni reali e i balli a corte alle scene di caccia e a paesaggi costellati di laghi e di montagne. Uno dei più impressionanti mostrava una nave catturata dalle chele di un gigantesco crostaceo. Camminammo per poco meno di un chilometro prima di arrivare a una porta a doppio battente, alta più di tre metri. Su uno dei due battenti c’era uno stendardo che raffigurava un uomo anziano con una veste rossa lunga fino ai piedi. Sul capo portava la corona che avevo visto sopra la testa del Predatore: impossibile confonderla. Sull’altro battente c’era una donna molto più giovane, anche lei con una corona sui boccoli biondi.

«Il re Jan e la regina Cova», disse Jaya, a bassa voce e con un tono stupefatto. «Mia madre aveva un cuscino con sopra i loro volti. Non avevamo il permesso di toccarlo e, tanto meno, di poggiarci sopra la testa.»

Stavolta non ci fu bisogno che pronunciassi il nome di Leah; le porte si aprirono verso l’interno a un semplice tocco della principessa. Uscimmo su un’ampia balconata. La stanza sotto di noi dava la sensazione di essere molto grande, ma era impossibile esserne certi perché era avvolta nelle tenebre. Leah scivolò sulla sua sinistra, svanendo nell’ombra. Sentii uno scricchiolio, seguito da un forte odore di gas e da un sibilo basso che proveniva dall’oscurità sopra e intorno a noi. Quindi, una a una, poi due a due e tre a tre, si accesero le lampade a gas. Dovevano essere più di cento, ed erano disposte in cerchio intorno a un’enorme stanza. Ce n’erano altre, tutte unite in un grosso lampadario con diversi bracci. Lo so, state leggendo in continuazione aggettivi come «grande», «grosso», «enorme». È meglio che ci facciate l’abitudine, perché «tutto» era di quelle dimensioni… almeno finché non raggiungemmo l’incubo claustrofobico del quale vi parlerò molto presto.

Leah fece ruotare una piccola valvola e le lampade si illuminarono ancora di più. La balconata era in realtà una galleria, con due file di sedie dallo schienale alto. Sotto di noi c’era una sala circolare con un pavimento lastricato di rosso. Al centro, sopra una specie di podio, c’erano due troni, uno leggermente più grande dell’altro, circondati da sedie (molto più comode di quelle che si trovavano sulla balconata) e piccoli divani, simili ad amorini.

C’era una puzza terribile. L’odore era così denso e sgradevole da risultare quasi visibile. Potei notare mucchi di cibo marcio sparsi qua e là, alcuni dei quali brulicavano di vermi, ma non era tutto. C’erano anche pile di merda sulle pietre e, soprattutto, sopra i due troni. Le pareti erano schizzate di sangue secco, ormai marroncino. Due corpi senza testa giacevano sotto il lampadario, al quale, su entrambi i lati come per mantenerlo in equilibrio, erano appesi altri due cadaveri, con le facce contorte e sgualcite – quasi mummificate – dall’età. I loro colli erano allungati in modo grottesco, ma non erano riusciti a liberarsi delle teste a cui avrebbero dovuto fare da sostegno. Era come guardare gli esiti finali di un’orribile orgia omicida.

«Che cosa è successo qui?» domandò Iota, con un sibilo rauco. «Dei del cielo, che cosa

La principessa mi diede un colpetto su un braccio. Il suo viso senza bocca sembrava stanchissimo e triste al tempo stesso. Mi tese uno dei fogli che aveva preso dalla cucina. Su un lato, qualcuno aveva vergato una ricetta particolarmente complicata, con una grafia faticosa. Sull’altro Leah aveva scritto, con una grafia molto più elegante: Questa era la sala dei ricevimenti di mio padre e mia madre. Indicò una delle mummie appese al lampadario e scrisse: Credo che quello sia Luddum, il cancelliere di mio padre.

Le cinsi le spalle e lei mi appoggiò per un istante la testa sul braccio, ma poi si scostò.

«Non era sufficiente ucciderli, giusto?» chiesi. «Hanno dovuto anche profanare questo luogo.»

Leah annuì stancamente, poi indicò una rampa di scale alle mie spalle. Le scendemmo, e Leah ci guidò fino a un’altra porta a doppio battente, stavolta alta quasi dieci metri. Hana avrebbe potuto attraversarla senza doversi chinare.

Leah rivolse un cenno a Iota, che premette i palmi delle mani contro le porte, si piegò in avanti e le spalancò, facendole scorrere sui loro binari nascosti. Mentre quelle si aprivano, Leah si trovò di fronte ai troni coperti di merda sui quali sua madre e suo padre avevano ascoltato le richieste dei loro sudditi. Cadde su un ginocchio e si portò un palmo alla fronte. Le sue lacrime finirono sul lastricato rosso e lurido.

In silenzio.

10

La sala dietro quella riservata ai ricevimenti avrebbe fatto impallidire la navata della cattedrale di Notre-Dame. Gli echi trasformavano i passi di noi cinque nella marcia di un battaglione. E le voci erano tornate: tutti quei sussurri intrecciati, carichi di malvagità.

Sopra di noi c’erano le tre torri a spirale, simili a grandi tunnel verticali pieni di bagliori verdi che si scurivano fino a diventare neri come l’ebano. Il pavimento sul quale camminavamo era composto da centinaia di migliaia di piccole tessere. Un tempo avevano composto il ritratto di una gigantesca farfalla e, nonostante gli atti vandalici cui il mosaico era stato sottoposto, la sagoma era ancora visibile. Sotto la torre centrale c’era una piattaforma d’oro, con in mezzo un cavo d’argento che saliva verso l’alto fino a svanire nell’oscurità. Accanto al cavo c’era un piedestallo con una grande ruota che sporgeva da un lato. Leah rivolse un cenno a Iota. Poi indicò la ruota e fece il segno della manovella.

Eye salì sul piedestallo, si sputò sulle mani e cominciò a far girare la ruota. Era un uomo robusto, e continuò per un bel pezzo senza il minimo segnale di cedimento. Quando alla fine si arrese, lo sostituii. La ruota si muoveva in modo regolare, ma richiedeva un notevole sforzo; dopo dieci minuti circa, ebbi la sensazione che quel maledetto arnese fosse immerso in un mare di colla. Sentii battere sulla spalla ed Eris prese il mio posto. Riuscì a eseguire un giro completo, poi toccò a Jaya. In realtà, il suo fu uno sforzo poco più che simbolico, ma voleva fare anche lei la sua parte, e non ci trovavo niente di sbagliato.

«Che cosa stiamo facendo?» chiesi a Leah. La piattaforma d’oro era chiaramente un montacarichi che saliva e scendeva dalla torre centrale, ma non si era mossa. «E perché lo stiamo facendo, se il Predatore è sceso nei sotterranei del palazzo?»

Sentii un gracchio che sembrava quasi una parola. Credo fosse un «dobbiamo». Leah si portò le mani alla gola e scosse il capo, come se volesse dire che i suoi tentativi di ventriloquia adesso erano troppo difficili. Poi scrisse sul retro di un’altra ricetta, usando le spalle di Jaya come appoggio. L’inchiostro sulla punta del pennino era quasi esaurito quando ebbe finito, ma riuscii comunque a leggere.

Dobbiamo salire per poi scendere, fidati di me.

Avevo forse un’alternativa?