1
TRASCORSI la mia ultima notte a Empis nello stesso luogo in cui avevo passato la prima: la casetta di Dora vicino al pozzo dei mondi. Mangiammo dello stufato, poi uscimmo a guardare la grande fede nuziale dorata costituita dai frammenti di Bella e Arabella. Era stupenda, come spesso accade alle cose in frantumi. Mi chiesi ancora una volta dove si trovasse esattamente quel mondo, e conclusi che non aveva importanza; il fatto che esistesse era più che sufficiente.
Dormii anche stavolta accanto al camino di Dora, con la testa sul cuscino sul quale era stata ricamata una farfalla. Dormii senza ricevere visite notturne e senza sognare Elden o Gogmagog. Quando finalmente mi svegliai, era già mattina inoltrata. Dora era al lavoro sulla macchina da cucire che il signor Bowditch le aveva regalato, con una pila di scarpe rotte alla sua sinistra e una di scarpe riparate alla sua destra. Mi domandai quanto sarebbe durato ancora, quel commercio.
Consumammo un ultimo pasto insieme: bacon, fette belle spesse di pane fatto in casa e un’omelette di uova d’oca. Quando finimmo di mangiare, mi allacciai per l’ultima volta il cinturone del signor Bowditch. Poi mi inginocchiai e mi portai il palmo della mano alla fronte.
«Naa, naa, Charlie. Alzati.» La sua voce era ancora soffocata e rauca, ma migliorava ogni giorno. Anzi, ogni ora, o così mi sembrava. Mi rimisi in piedi. Dora mi tese le braccia. Non mi limitai a stringerla, ma la sollevai in aria e la feci girare su stessa, strappandole una risata. Poi lei si inginocchiò e diede al mio cane due fette di bacon, prendendole dal grembiule.
«Rayy», disse abbracciandolo forte. «Ti voglio bene, Rayy.»
Mi accompagnò fino a metà collina, in direzione dei rampicanti che coprivano l’ingresso al tunnel e che sembravano più verdi, adesso. Lo zaino mi pesava sulle spalle, e il martello da fabbro che stringevo nella mano destra facendolo oscillare era ancora più pesante, ma il sole in pieno viso mi dava una sensazione piacevole.
Dora mi abbracciò un’ultima volta, e diede una pacca a Radar. Aveva gli occhi pieni di lacrime, ma sorrideva. Poteva sorridere, adesso. Proseguii da solo e vidi che un altro vecchio amico ci stava aspettando, rosso sullo sfondo verde dei rampicanti. Radar si acquattò immediatamente sul ventre. Il Grillo le saltò agilmente sulla schiena e mi guardò, facendo vibrare le antenne.
Mi sedetti accanto a loro, mi tolsi lo zaino e lo aprii. «Come stai, signor Grillo? La zampa è guarita?»
Radar abbaiò una volta.
«Bene, molto bene. Ma non hai intenzione di venirci dietro, giusto? L’atmosfera del mio mondo potrebbe nuocerti.»
Sopra il battente d’oro, avvolta in una maglietta della Hillview High, c’era quella che Dora aveva chiamato una «u-i-na», che credo significasse «lucina». Aveva ancora qualche problema con le consonanti, ma ero convinto che con il tempo lo avrebbe risolto. La lucina consisteva in un mozzicone di candela dentro una palla di vetro. Mi rimisi lo zaino in spalla, inclinai il vetro e accesi la candela con un fiammifero.
«Andiamo, Rades. È ora.»
Lei si tirò su, e il Grillo scese dalla sua schiena con un salto. Si fermò, ci lanciò un ultimo sguardo con i suoi solenni occhi neri e si allontanò, saltellando nell’erba. Lo intravidi ancora per un istante, perché si muoveva nell’aria immobile, a differenza dei papaveri. Poi sparì.
Mi girai per un’ultima volta verso la casa di Dora in fondo alla collina, che sembrava infinitamente più bella e accogliente alla luce del sole. Anche Radar si girò. Dora ci salutò con la mano da dietro la fila di scarpe appese, e io feci altrettanto. Poi afferrai il martello e scostai i rampicanti, svelando l’oscurità che vi si nascondeva dietro.
«Ti va di tornare a casa, signorina?»
Il mio cane mi passò davanti, e si infilò nel tunnel.
2
Raggiungemmo il confine tra i mondi e provai la stessa sensazione di disorientamento che ricordavo dalle volte precedenti. Barcollai e la lucina si spense, anche se non c’era vento. Dissi a Radar di aspettare e presi un altro fiammifero dalla cartuccera del cinturone. Lo sfregai sulla pietra grezza e riaccesi la candela. I pipistrelli giganti sbatterono le ali e squittirono sopra la mia testa, poi si calmarono. Proseguimmo nel nostro cammino.
Quando arrivammo al pozzo, con i gradini che salivano a spirale, schermai la candela e alzai gli occhi, sperando di non vedere nessuna luce filtrare da sopra. Avrebbe significato che qualcuno aveva spostato le tavole e le pile di riviste che avevo usato per nascondere l’ingresso, e non sarebbe stata una buona notizia. Mi parve di vedere un bagliore fioco, ma probabilmente era giusto così. Non ero riuscito a richiudere completamente il pozzo, dopo tutto.
Radar salì quattro o cinque gradini, poi si voltò per controllare se la stessi seguendo. «Naa, naa, vado prima io. Non ti voglio davanti, quando saremo in cima.»
Ubbidì, pur riluttante. L’olfatto dei cani è almeno quaranta volte più sviluppato di quello degli esseri umani. Forse riusciva già a sentire l’odore del suo vecchio mondo, che la attendeva. In tal caso, il tragitto dovette essere particolarmente penoso per lei, perché dovevo fermarmi in continuazione per riposare. Mi sentivo meglio, ma non ancora in piena forma. Freed mi aveva raccomandato di prendermela con calma, e stavo cercando di seguire i consigli del dottore.
Quando arrivammo in cima, fui sollevato nello scoprire che l’ultima pila di riviste, quella che avevo tenuto in equilibrio sulla testa come una cesta piena di panni, era ancora al suo posto. Rimasi sotto quella copertura improvvisata per almeno un minuto, forse anche per due o tre. E non solo per riposare, stavolta. Il mio unico desiderio era stato tornare a casa, ed era ancora così, ma adesso ero anche spaventato. E provavo una punta di nostalgia per ciò che mi ero lasciato alle spalle. In quel mondo c’erano stati un palazzo, una bellissima principessa e una serie di imprese temerarie. Forse, da qualche parte – magari al largo di Seafront –, c’erano ancora delle sirene, che cantavano l’una per l’altra. In quel mondo, ero stato un principe. Nel mio mondo avrei dovuto compilare domande per entrare in un college, e portare fuori la spazzatura.
Radar mi affondò il muso nell’incavo dietro il ginocchio, e abbaiò due volte. Chi lo dice, che i cani non parlano?
«Okay, okay.»
Sollevai la pila di riviste con la testa, salii uno scalino e la spinsi su un lato. Spostai le altre pile, procedendo lentamente perché il mio braccio sinistro era ancora molto debole (oggi funziona meglio, ma non tornerà mai più forte come ai tempi in cui giocavo a football e a baseball: grazie, Petra, brutta stronza che non sei altro). Radar abbaiò quattro o cinque volte, per farmi accelerare le operazioni. Non ebbi problemi a sgusciare tra le tavole di legno con le quali avevo coperto l’imboccatura del pozzo – ero dimagrito parecchio nel periodo trascorso a Empis e, in particolare, durante la prigionia a Deep Maleen –, ma dovetti comunque sfilarmi lo zaino e spingerlo sul pavimento del capanno. Quando fui fuori, il braccio sinistro mi faceva vedere le stelle. Radar sbucò alle mie spalle con una facilità disgustosa. Controllai il profondo avvallamento lasciato dal morso di Petra, preoccupato che la ferita potesse essersi riaperta, ma sembrava che fosse tutto a posto. La cosa che mi sorprese di più fu quanto facesse freddo nel capanno. Potevo vedere il mio respiro.
Il posto era esattamente come l’avevo lasciato. La luce che avevo visto dal basso era quella che filtrava dalle fessure delle pareti. Provai ad aprire la porta e la trovai chiusa con il lucchetto, dall’esterno. Andy Chen aveva mantenuto la promessa. Non avevo mai pensato sul serio che qualcuno potesse controllare il capanno dietro la casa del signor Bowditch per cercare me (o il mio cadavere), ma provai ugualmente una sensazione di sollievo. Significava, comunque, che avrei dovuto usare il martello. Cosa che feci, con una mano sola.
Per mia fortuna, le assi di legno erano vecchie e fragili. Una si incrinò al primo colpo e si spezzò al secondo, lasciando entrare la luce dell’Illinois… e un refolo carico di neve. Mentre Radar abbaiava per incoraggiarmi, sfondai altre due assi. Rades saltò attraverso il varco che si era aperto e si acquattò immediatamente per fare pipì. Io abbattei ancora una volta il martello contro la parete, togliendo di mezzo un’altra asse. Gettai lo zaino nell’apertura, mi voltai di sguincio e sbucai fuori, in pieno sole. Sprofondando in quindici centimetri di neve.
3
Radar attraversò il cortile a grandi balzi, fermandosi ogni tanto per affondare il muso e sollevare spruzzi di neve. Era un comportamento da cucciolo, e mi fece molto ridere. Ero accaldato per la lunga salita e le martellate contro le assi di legno, e quando raggiunsi la veranda posteriore stavo tremando. La temperatura doveva essere qualche grado sotto lo zero e quella percepita, a causa del vento forte, era ancora più bassa.
Recuperai la chiave di scorta da sotto il tappetino (che il signor Bowditch chiamava «il tappeto di malvenuto») ed entrai. C’era odore di chiuso e faceva freddo, ma qualcuno – quasi sicuramente mio padre – doveva avere acceso il riscaldamento di tanto in tanto, per evitare che i tubi si congelassero. Mi tornò in mente di aver visto un vecchio impermeabile nell’armadio dell’ingresso, ed era sempre lì. C’erano anche un paio di galosce con delle calze di lana rosse che facevano capolino. Le galosce mi stavano strette, ma non avrei dovuto indossarle per troppo tempo: solo per scendere fino ai piedi della collina. Il cinturone e la pistola finirono sul ripiano dell’armadio. Li avrei rimessi al sicuro nella cassaforte più tardi… sempre ammesso che la cassaforte con il suo tesoro segreto fosse ancora al suo posto.
Uscimmo dal retro, girammo intorno alla casa e passammo dal cancello che la prima volta avevo dovuto scavalcare, richiamato dai latrati di Radar e dalle deboli richieste di aiuto del signor Bowditch. Sembrava trascorso un secolo da allora. Feci per imboccare Sycamore Street, ma qualcosa richiamò la mia attenzione. E quel qualcosa, in realtà, ero io, perché fu mia la faccia che vidi su un palo del telefono, all’incrocio tra Sycamore e Pine Street. La foto era presa dall’annuario della scuola, e la prima cosa che mi colpì fu quanto sembrassi giovane. Ecco un ragazzino che non sapeva niente di niente, pensai. Forse credeva di sapere molte cose, ma naa, naa.
Sopra la foto, a grandi caratteri rossi, c’era scritto: AVETE VISTO QUESTO RAGAZZO?
E subito sotto: CHARLES MCGEE READE, 17 ANNI.
Sotto ancora: Charles «Charlie» Reade è scomparso nell’ottobre del 2013. È alto un metro e novantadue e pesa centodue chili. È stato visto per l’ultima volta…
Eccetera. Furono due le cose che mi colpirono: quanto fosse scolorito il poster e quanto si sbagliasse sul mio peso attuale. Mi guardai intorno, aspettandomi quasi di vedere la signora Richland che mi guardava schermandosi gli occhi con una mano, ma c’eravamo soltanto io e Radar, in piedi sul marciapiede cosparso di sale.
A metà strada mi fermai, preso dall’impulso improvviso – assurdo quanto forte – di tornare indietro. Di attraversare il cancello al numero 1 di Sycamore Street, girare intorno alla casa, entrare nel capanno, scendere i gradini e approdare finalmente a Empis, dove avrei imparato un mestiere e mi sarei costruito una nuova vita. Magari da apprendista agli ordini di Freed, che mi avrebbe insegnato come diventare un segaossa.
Poi pensai a quel poster e a tutti gli altri identici, sparsi un po’ ovunque in città e nella contea, appesi da mio padre, da mio zio Bob e dallo sponsor di mio padre, Lindy. E forse anche da tutti gli altri suoi amici degli Alcolisti Anonimi. Sempre che, ovviamente, papà non avesse ricominciato a bere.
Ti prego, Dio, fa’ che non sia così.
Ripresi a camminare, con le fibbie delle galosce di un morto che tintinnavano, e il cane ringiovanito di quello stesso morto alle calcagna. Un bambino con indosso un giaccone rosso con le toppe stava risalendo la collina venendo nella mia direzione, e trascinandosi dietro una slitta legata a un pezzo di spago. Probabilmente voleva raggiungere la collinetta di Cavanaugh Park.
«Fermati un secondo, ragazzino», gli dissi.
Mi guardò con aria sospettosa, ma si fermò.
«Che giorno è oggi?» Le parole mi uscirono di bocca in modo fluido, ma mi parve che avessero qualcosa di forzato. Vi sembrerà una cosa assurda, però era questa la sensazione che provavo, e ne conoscevo anche il motivo. Stavo parlando di nuovo in inglese.
Mi lanciò un’occhiata perplessa, come se si stesse chiedendo se ero stupido dalla nascita o ci ero diventato. «Sabato.»
Quindi mio padre doveva essere a casa, a meno che non si trovasse a una riunione degli Alcolisti Anonimi.
«Di che mese?»
La faccia del bambino era sempre più perplessa. «Febbraio.»
«2014?»
«Sì. Ora devo andare.»
Proseguì per la sua strada fino in cima alla collina, rivolgendo a me e al mio cane uno sguardo sospettoso. Forse voleva assicurarsi che non lo stessimo seguendo con cattive intenzioni.
Febbraio. Ero stato via per quattro mesi. Strano a pensarsi, ma mai strano quanto le cose che avevo visto e fatto.
4
Rimasi in piedi davanti casa mia per un minuto circa, facendomi forza e sperando di non trovare mio padre svenuto sul divano mentre sul televisore scorrevano le immagini di Sfida infernale o del Bacio della morte, due classici della TCM. Il vialetto era stato sgombrato dalla neve, come pure il marciapiede. Mi dissi che era un buon segno.
Radar si era stufata di aspettare e salì di corsa gli scalini per poi sedersi, in attesa che qualcuno la facesse entrare. Un tempo avevo le chiavi, ma le avevo perse chissà dove durante il viaggio. Come il triciclo di Claudia, pensai. Per non parlare della mia verginità. Ma scoprii quasi subito che non aveva importanza. La porta non era chiusa a chiave. Entrai, sentii il suono del televisore – un notiziario, non la TCM – e poi Radar si mise a correre lungo il corridoio, abbaiando.
Quando entrai in salotto, era sollevata sulle zampe posteriori con quelle anteriori appoggiate sul giornale che mio padre stava leggendo. Papà la guardò, poi guardò me. Per un istante parve non rendersi conto di chi c’era sulla soglia. Quando realizzò, i muscoli del suo volto si allentarono per lo shock. Non dimenticherò mai come, in quell’istante, mi fosse sembrato allo stesso tempo più vecchio – l’uomo che sarebbe diventato a sessanta o settant’anni – e più giovane, come quando aveva la mia età. Pareva quasi che una meridiana interiore avesse ruotato in entrambe le direzioni contemporaneamente.
«Charlie?»
Fece per alzarsi, ma le gambe non lo sorressero e ricadde a sedere. Radar si spostò accanto alla sua poltrona, scodinzolando.
«Charlie? Sei veramente tu?»
«Sono io, papà.»
Stavolta riuscì a mettersi in piedi. Stava piangendo. Scoppiai a piangere anch’io. Mi corse incontro, incespicò nello spigolo del tavolino e sarebbe caduto se non lo avessi abbracciato.
«Charlie, Charlie, che Dio sia ringraziato! Credevo che fossi morto, credevamo tutti che fossi…»
Non riuscì ad aggiungere altro. Avevo un sacco di cose da dirgli, ma in quell’istante ero rimasto pure io senza parole. Ci stringemmo forte, con Radar che si era insinuata tra noi, scodinzolando e abbaiando. Credo di sapere che cosa volevate sentivi dire, ed eccovi serviti.
Ecco il vostro lieto fine.