Uscimmo dal Dairy Queen, ma nessuno dei due aveva voglia di andare a casa. La mia ragazza Brett e mia figlia Chance, insieme alla nostra cagna Buffy, erano andate fuori città per il week-end: una gita a Houston per vedere Vince White e Kasey Lansdale che si esibivano in un piccolo locale in città. Ai cani era concesso entrare se erano ben addestrati e portavano la museruola, motivo per cui Buffy era della partita. Sarebbero tornate quella sera stessa, ma il loro arrivo non era imminente e quindi non avevamo alcuna fretta di rientrare.
Anche io e Leonard saremmo voluti andare. Kasey Lansdale era una delle cantanti preferite di Leonard. Avevamo un caso da seguire per conto dell’agenzia, ma dopo che le ragazze erano partite alla volta di Houston il lavoro, che consisteva nel pedinare un tizio, era saltato, e cosí ci eravamo ritrovati senza niente di particolare da fare. A volte, però, non avere un fico secco da combinare è la cosa piú bella che ci sia al mondo.
Di tanto in tanto avevamo bisogno di ricavare un po’ di tempo per noi stessi, e ci garbava parecchio farlo. Era come ai vecchi tempi, quando c’eravamo soltanto noi due.
Mentre gironzolavamo in macchina chiacchierando del piú e del meno ci allontanammo da LaBorde, e immagino sia stato l’istinto a condurmi nella mia vecchia città natale: Marvel Creek. Un paesotto di quattromila anime o giú di lí, dove ero cresciuto e avevo avuto qualche avventura prima di prendere il diploma e trasferirmi altrove. In realtà ci ero tornato già una volta, e anche allora avevo avuto quella che immagino si potrebbe definire un’avventura. Si era conclusa a casa di Leonard, fuori LaBorde, e qualcuno era morto, non nel migliore dei modi. C’era mancato poco che tirassimo le cuoia anche io e Leonard.
Non mi piaceva ripensare a quell’episodio, perché finiva per venirmi in mente anche la mia ex moglie, Trudy, e la cosa mi deprimeva non poco. Amavo profondamente Brett, piú di qualsiasi altra donna che avesse fatto parte della mia vita, ma Trudy era stata la prima, e benché mi fossi reso conto col trascorrere del tempo (un po’ troppo tardi, però) che era una stronza manipolatrice, conservava un posto nel mio cuore, sepolta da qualche parte come un tumore incurabile.
Eppure, eccomi di nuovo lí a Marvel Creek, a ripensare al passato, al Texas orientale, alla vita dura che si muoveva sotto la superficie delle cose, agli argomenti di cui la gente con i soldi sapeva poco, o dei quali comunque non voleva parlare. Negli anni Sessanta, durante l’epoca dei diritti civili, c’era gente che diceva: «Oh, andavamo d’amore e d’accordo. Bianchi e neri. Loro stavano da un’altra parte, mentre noi stavamo qui. Però avevo un sacco di amici negri. Gli facevo ciao ciao con la mano, quando li incontravo in città».
Attraversammo il lungo ponte sul fiume Sabine che portava a Marvel Creek. La luna splendeva sull’acqua.
– Ho avuto un bel po’ di esperienze, sulle rive di quel fiume, – dissi. – Anzi, le abbiamo avute tutti e due, insieme.
– Oh, sí, – rispose Leonard.
– Ho chiuso con un amico, un giorno, sul Sabine, – dissi.
– In che senso, chiuso?
Stavamo tornando dal fiume dove avevamo pescato, e volevamo sistemare le canne in macchina. Ci eravamo parcheggiati lontano perché sulle sponde c’era troppo fango e non volevamo restare incastrati. Avevamo sedici anni, io e il mio amico Davis, anche se proprio quel giorno, poco prima, avevo deciso di non voler piú essere suo amico.
Tra i pescatori, quando si decideva che la giornata era finita, era buona abitudine gettare in acqua i pesciolini che non erano stati utilizzati come esche. Stavo per farlo quando Davis mi strappò il secchio tirandolo per il manico e rovesciò i pesciolini sulla terra asciutta, per poi calpestarli e schiacciarli nel fango con una sorta di gioia selvaggia. Vi sembrerà strano che mi sentissi triste per dei pesci che non avrei esitato a infilzare all’amo, se solo la giornata fosse stata un po’ piú lunga o le prede avessero abboccato, ma avevo sempre pensato che se non usavi qualcosa come esca per procurarti da mangiare, fosse giusto lasciarla andare. Era cosí che si comportava mio padre, e come lui tutte le persone che conoscevo e che amavano pescare.
Ma Davis non la vedeva allo stesso modo. Rideva mentre schiacciava quei pesciolini, e aveva gli occhi lucidi e spalancati. Lanciò anche in aria il secchio, per poi spedirlo dritto nel fiume con un calcio.
– Perché diavolo lo hai fatto? – chiesi.
– Non lo so, – rispose. – Fanculo quei pesciolini.
In quell’istante, quando mi guardò e i suoi occhi si posarono sui miei, credo proprio che capí quello che io avevo già compreso perfettamente. Avevamo chiuso. La nostra amicizia finiva lí. Non credo che fu quell’episodio in particolare a provocare la rottura: diciamo che fu la goccia che fece traboccare il vaso. Presi la mia canna e mi avviai verso l’auto. Lui prese la sua, e procedemmo in silenzio lungo il sentiero che attraversava il bosco e sbucava in un punto dove gli alberi erano piú radi.
C’era un’auto nera parcheggiata sul primo terrapieno, e quando fummo piú vicini notammo che c’erano due uomini e poco piú su lungo la collina un’altra auto, questa bianca. Gli uomini erano in piedi accanto alla macchina nera, sul cui sedile posteriore c’era una donna. Sedeva in silenzio, con i finestrini abbassati e la luce del giorno che cominciava a svanire, e piangeva.
Gli uomini avevano l’aria tosta: erano entrambi un po’ sovrappeso, con i capelli zuppi di brillantina, e si somigliavano parecchio.
– Sta bene? – chiesi ai due uomini.
– Certo che sta bene, – rispose uno dei due. – Vattene, e pensa agli affari tuoi.
– Non volevo impicciarmi, signore, – dissi.
– Va bene, nessun problema. Ora però vattene.
Mi fermai e continuai a guardare perché quella situazione mi creava non poco disagio, ma Davis disse: – Dài, amico. Andiamo.
La donna si voltò verso di noi, e ci fissò. Aveva i capelli scuri ed era carina, ma il viso era rigato dal trucco e le labbra le tremavano.
– Vattene, forza, – ripeté l’uomo.
Proseguimmo su per la collina fino alla mia auto, che era parcheggiata molto piú in là rispetto alla macchina bianca. Si trovava fuori dal sentiero, al riparo sotto degli alberi, vicino al lungo ponte che attraversava il Sabine. Gli uomini probabilmente non l’avevano vista. All’andata, le canne da pesca sporgevano fuori dal finestrino posteriore, sulla destra, piantate sui due lati del sedile del passeggero, ma non appena fummo pronti per andarcene decidemmo di gettarle via. Erano complete di lenza, galleggiante e amo, e ci eravamo dimenticati una piccola scatola di plastica piena di materiale da pesca giú al fiume. Pensai di tornare a recuperarla, ma sapevo che sarei dovuto passare nuovamente accanto alla macchina nera, e l’idea non mi piaceva affatto, perciò finimmo per lasciar perdere.
– Credi che quella donna stia bene? – domandai.
– Erano lí per scoparsela, Hap. Possibile che non capisci mai niente?
– In due?
– Fossero stati anche dieci, sarebbero comunque stati lí per scoparsela. Probabilmente lei ne aveva voglia, ma poi, quando ha avuto quello che cercava, ha cambiato idea. O forse si fa pagare.
– Non lo so, – dissi.
– Tu va’ pure a vedere, se vuoi, ma io non mi muovo di qui. È solo una donna come tante, che ha cambiato idea quando ormai era troppo tardi. Se invece di quegli uomini fossi stato io a portarla fin qui, e se lei fosse stata d’accordo per poi cambiare idea all’ultimo momento, sarebbe finita nei guai, perché se una donna si fa portare in un posto cosí lontano con l’idea di scopare e poi si tira indietro, be’, per quel che mi riguarda deve farsi scopare comunque.
Riflettei su quelle parole, e non c’era alcun motivo per cui dovessi pensarla diversamente da Davis sul conto di quei due uomini, anche se non mi era piaciuta la parte in cui aveva detto cosa avrebbe fatto se con la donna ci fosse stato lui e se lei si fosse rifiutata di fare quello che avevano concordato. Salimmo in macchina, e mi allontanai da quel posto.
Mollai Davis a casa sua e ovviamente lo rividi a scuola, di tanto in tanto, ma parlavamo solo del piú e del meno e non andammo mai piú insieme da nessuna parte; quando mi trovavo in un posto dove c’era anche lui, mi sentivo a disagio.
Non pensai piú all’auto, a quei due uomini e alla donna fino a dieci anni dopo, quando tornai a casa per far visita ai miei genitori e lessi sul giornale locale la notizia che il giorno prima un’auto nera era stata ripescata nel fiume Sabine, e nell’abitacolo c’erano i resti di un corpo umano – il teschio e qualche frammento d’ossa –, ma nessuno sapeva chi fosse.
Io non conoscevo il suo nome, e non lo avevo mai conosciuto. Ma chi fosse lo sapevo eccome.