Una serata finita presto

Giunti a Marvel Creek, in cerca di un altro cono gelato mi diressi verso il Dairy Queen, dove andavo sempre, come tutti gli altri ragazzi della mia età: non tanto per mangiare, ma per fare qualcosa. Non c’era piú. Al suo posto c’era un deposito di auto usate, in pessime condizioni.

– È andato, – dissi.

– Pensaci un attimo, – disse Leonard. – Quelle auto usate perdono olio esattamente dove mangiavi i tuoi hamburger.

– Non l’ho mai considerato un tempio, o un altare, – dissi. – Ma mi dispiace che non ci sia piú. Ora che sono tornato, ho pensato che dovesse essere ancora lí, e invece era solo un’illusione.

– Comunque, di tutto hai bisogno fuorché di un altro gelato.

Girai attorno al luogo nel quale avrebbe dovuto esserci il Dairy Queen e imboccai una strada secondaria. Un tempo non era stata che una via asfaltata, senza traccia di tutte le villette che la costeggiavano adesso, circondata da boschi e paludi finché non arrivavi al fiume. Il fiume era ancora lí, ma anche le sponde erano invase di costruzioni. Gli alberi erano scomparsi quasi tutti. Nei punti in cui le loro radici si erano spinte in profondità, il terreno era coperto da lastre di asfalto. Era difficile immaginare che quel posto fosse stato immerso in una boscaglia cosí fitta da tenerlo sempre all’ombra, invaso da sciami di zanzare per tutta l’estate. A quei tempi potevi venire qui a nasconderti, o a morire, e nessuno ti avrebbe mai trovato. Se una persona si fosse fermata in piedi a pochi centimetri da te, non ti avrebbe visto, a meno che non fossi tu a volerti far notare. Ora, invece, non c’era piú un angolo nel quale nascondersi.

– Qui c’era un posto, sopra il punto in cui ci troviamo adesso, dove sorgeva una collina ricoperta di alberi e con una radura proprio sul cocuzzolo. La chiamavano La Collina delle Trombate. Se arrivavi fin lassú in macchina, il venerdí o il sabato sera, trovavi cinque o sei auto parcheggiate che ballavano la rumba. Ora sono spariti gli alberi, e pure la collina. L’hanno spianata. Pensa la fatica che dev’esserci voluta, per tirarla giú, tagliare tutti quegli alberi e sistemare al loro posto tante scatole identiche una all’altra.

– Non ho mai condiviso questo modo di fare, – disse Leonard. – Noi checche… anzi, noi gay scopiamo in privato perché non vogliamo che qualche stronzo etero, religioso e timorato di Dio ci tagli via il cazzo. Avevo soprattutto paura che avrei finito per ammazzare qualcuno. Perciò, i pochi interludi con persone del mio stesso orientamento avvenivano nei motel, nel chiuso di una casa oppure, ogni tanto, in un posto nel quale potessimo parcheggiare tranquilli, ma senza altre macchine in fila accanto alla nostra.

– Non è che ci si andasse sempre con la propria ragazza, eh. A volte era solo un modo per sfogarsi, o scaricare gli ormoni. C’era gente che si muoveva in gruppo con una ragazza o una donna che voleva guadagnare un po’ di soldi, e a quel punto partiva il trenino. Insomma, tutto era fuorché roba di cui andar fieri.

– Sei troppo sensibile.

– Può darsi. Anche se la donna di turno lo faceva di sua spontanea volontà c’era comunque da vergognarsi a vedere una persona che non conoscevi stesa con le cosce aperte, sul sedile di dietro di una macchina e un mucchio di persone in fila che aspettavano il loro turno.

– Devi esserci stato anche tu almeno una volta, per sapere cosí bene come funzionava.

– Avrei potuto saperlo anche senza essere presente, però, sí, una volta mi sono trovato lí, mentre succedeva. C’era gente che lo faceva tutte le settimane.

– Raccontami della volta che c’eri anche tu.

– D’accordo. Ma è una storia piú complicata, che va ben al di là del fatto che io mi sia trovato in cima a quella collina. In realtà, in qualche modo, c’entri anche tu.

– D’accordo, adesso tocca a te, – disse Ed, e si accese una sigaretta.

– Non credo, – risposi.

– Gli altri se la sono già fatta tutti.

– Questo lo so.

La portiera posteriore dell’auto si spalancò e ne scese Jack, tirandosi su i pantaloni e lasciando penzolare il pisello come il pendolo di un orologio. Si prese il suo tempo prima di infilarselo nei jeans e allacciare la cinta. Era molto fiero del suo arnese, e non a caso era soprannominato Cavallo.

– Ho fatto, – disse Jack.

– Hai finito prima ancora di cominciare, – lo rintuzzò una voce femminile da dentro la macchina.

– Macché, sono andato benissimo, – insisté lui.

– Sí, come no, – disse la donna.

Jack tossí, si spostò dietro l’auto appoggiandosi al portabagagli e si mise a guardare la luna come se studiare la disposizione dei crateri fosse il suo vero mestiere.

Ed mi mise un braccio intorno alle spalle e mi guidò verso l’auto e la portiera aperta.

– Tanto vale che ti dài da fare anche tu, – disse. Ed fungeva quasi da coordinatore dell’evento.

– Va tutto bene, tesoro, – disse Billie Sue da dentro l’auto. – Non mi importa.

– Questo l’ho già notato, – ribattei.

– E dài, su. Ho detto che vi avrei fatti scopare tutti, e ci sei rimasto soltanto tu.

– Scopati un’altra volta Jack, allora, – dissi.

– Ma se c’è riuscito per miracolo, – ribatté lei.

– Va’ all’inferno, brutta troia, – disse Jack.

– Le lusinghe non ti porteranno da nessuna parte, – rispose Billie Sue.

Jack si allontanò dall’auto in direzione del bosco, tirò fuori il grosso pisello e fece una pisciata.

Io guardai dentro la macchina.

Billie Sue era bella grassa, con il ventre sporgente. Aveva le cosce spalancate, e quello che potei vedere era meno invitante di un tuffo nelle paludi in piena notte. Non c’era modo di sapere con certezza che cosa avresti trovato, là in mezzo. Distolsi lo sguardo e mi vergognai di me stesso per il semplice fatto di essere lí.

Billie Sue era sposata con un predicatore battista, e non le dispiaceva prendersi una pausa dai canti gospel e dalla raccolta delle offerte in nome di Lottie Moon e venire nel bosco per scoparsi gli studenti dell’ultimo anno. Lottie Moon era una missionaria che aveva messo a perdere i cinesi nel tentativo di convertirli. Era una specie di eroina per i battisti, ma per me era solo un’impicciona morta già da un pezzo. Anche Billie Sue aveva svolto una propria personalissima missione tra i maturandi, ed erano già quattro o cinque anni che operava sul campo. In città sapevano tutti che le piaceva scoparsi i ragazzini, ma si diceva anche che i sermoni del marito fossero magnifici. I battisti non volevano perderlo. E sapere cosa combinava sua moglie rendeva tutti i membri della comunità orgogliosi del proprio operato. Un adulterio ogni tanto e una certa ipocrisia erano piú facili da accettare da sé stessi, se la moglie del predicatore si dimostrava decisamente piú malvagia. A me andava bene cosí, tutto sommato. La Chiesa del Cristo Redentore aveva licenziato il suo pastore perché era stato scoperto mentre ballava in un bordello.

– Avanti, giovanotto, vieni dentro, – disse Billie Sue. – Ho già ricaricato le pile.

– Non voglio mancarti di rispetto, – dissi. – Lo so che stai cercando di battere un record, ma sono venuto fin qui solo per guardare le stelle.

– Le stelle? – ripeté Billie Sue, e scoppiò a ridere.

– Be’, non sono venuto per questo, comunque.

– Col cazzo, – disse Ed. – Sei venuto per un motivo, e non era certo guardare le stelle. Mi sa tanto che ti manca il carburante, per riuscirci.

– Ora che ho visto che cosa dovrei fare, e chi mi ha preceduto, sono pronto ad ammettere che potrei avere un serio problema di carburante, in effetti.

– Sei una checca? – chiese Billie Sue prima di sollevarsi e appoggiarsi con le spalle alla portiera opposta.

– No.

– Puoi avere un po’ di fica gratis e non ne approfitti? – disse Jack. Era tornato vicino alla macchina. – Mi sembra roba da checche.

– Jack sta cercando di tornare nelle mie grazie, – disse Bilie Sue.

Mike, un tizio che conoscevo appena, si scostò dagli altri ragazzi che stavano bevendo birra dietro l’auto, mi si avvicinò e disse a Jack e a Ed: – Lasciatelo stare. Non è stato un granché, comunque.

– Vaffanculo, – disse Billie Sue.

– Ne ho avute di meglio quando sono rimasto a bocca asciutta, – ribadí Mike.

– E questo che cosa dovrebbe significare? – chiese Billie Sue.

– Che la tua puzzava di brutto.

– Be’, che cavolo, – disse lei, – quando è stato il tuo turno c’erano già passati in otto.

– Questo spiega tutto, – disse Mike. – Forza, Hap. Andiamocene.

– Non sono venuto con la mia macchina, – dissi.

– È venuto con me, – disse Ed. – Se avessi saputo che mi metteva in imbarazzo in questo modo, non lo avrei portato.

– Non preoccuparti, – disse Billie Sue. – Non ho mai preteso di essere ammirata dall’universo intero.

– Meriti comunque rispetto, – disse Ed. – Hap può tornare a piedi, per quanto mi riguarda.

– Io ho una macchina, – disse Mike.

Andai via con Mike e ci allontanammo a bordo della sua Impala del ’62.

Scendemmo giú per la collina, passando dal buio pesto alle luci delle case lungo la strada, fino a raggiungere i neon ancor piú splendenti del Dairy Queen, sulla statale. Mike parcheggiò, entrammo e ordinammo hamburger e Coca-Cola. Mike andò in bagno mentre gli hamburger cuocevano sulla piastra. Io scelsi un tavolo in fondo alla sala e mi sedetti. Non c’era nessuno a parte noi due, il cuoco e il tizio alla cassa. Mike tornò, si sedette e disse: – Avevo proprio bisogno di darmi una lavata. L’ho toccata, sai. Non di proposito, ma mentre provavo a metterglielo dentro.

– Okay, – risposi.

– Non sto cercando di metterti a disagio perché non l’hai voluto fare, – disse.

– Non mi sento affatto a disagio.

– Lei non ha problemi, sai, – disse Mike. – Le piace farlo. È una specie di hobby.

– Lo so.

– L’anno scorso si era fatta dieci ragazzi, e quest’anno puntava a farsene dodici. È arrivata a undici.

– Mi sa che le ho rovinato il nuovo record.

– Già. Si era proprio messa in testa che dovessero essere dodici.

– La vita è piena di piccole delusioni, – osservai.

Il cuoco ci avvisò che gli hamburger e le coche erano pronti. Li andammo a prendere e li portammo al tavolo.

– Quella cosa che hanno detto, sul fatto che saresti una checca, – disse Mike, per poi voltare leggermente il capo mentre proseguiva. – Insomma, se lo sei, per me non ci sono problemi. Ne conosco qualcuno. Mio zio Bill era fatto cosí. Una volta l’ho beccato che succhiava il pisello a un professore della scuola, in salotto. Credeva che fossi uscito, invece ero in camera a leggere. Anche mio zio era un insegnante. Storia dell’arte. Il tizio al quale lo stava succhiando, invece, non mi ricordo che materia insegnasse. Grammatica, forse.

– No, non sono cosí, – dissi.

– Hai presente quel tipo di colore che frequenti?

– Leonard?

– Lui è una checca.

– Lo so.

– E ti dà fastidio? – chiese Mike. – Non il fatto che sia di colore, ma che sia una checca.

– All’inizio un po’. Non sapevo come prenderla, credo. A me sembra uguale a tutti gli altri, a parte il fatto che gli piace succhiare i cazzi. E comunque, non fa niente per nasconderlo. Mi sa tanto che finirà per lasciarci la pelle. Cavolo, potrei lasciarcela anch’io, e solo perché lo frequento. Però mi piace. È un tipo tosto, e sa essere anche molto divertente.

– Io non l’ho mai trovato divertente.

– Sa esserlo, quando vuole.

– Mi sa tanto che ci vorrebbe un tipo davvero tosto, per ammazzare quel negro, – disse Mike.

– Non credo che gli vada a genio, essere chiamato negro. Fossi in te, continuerei a optare per «tipo di colore».

– Questa è buffa davvero. Non devo chiamarlo negro ma checca va bene.

– È lui il primo a definirsi una checca. Lo dice chiaro e tondo. Dubito però che gli piacerebbe se fosse qualcun altro a chiamarlo cosí. Diciamo che ti sconsiglierei di farlo.

– Sulla faccenda dell’essere o meno una checca, non vorrei che tu avessi equivocato. Non mi importa se lo è. Che cazzo, se le circostanze lo permettessero, ci proverei anch’io.

– A fare cosa?

– A succhiare un cazzo.

– Ah.

– E tu? – chiese, per poi seppellire la faccia nel suo hamburger.

– Mai nella vita, – risposi. – Se Leonard lo vuol fare, non ho problemi. È un mio amico. Ma non voglio fotografie, statistiche o roba del genere. A me piace la fica. Non quella di stasera, però. Mi vergogno di essere andato in cima a quella collina. Non so che cavolo mi sia passato per la testa. E una cosa è sicura: non vorrei mai che la mia ragazza venisse a saperlo.

– Perché, hai una ragazza?

– Non al momento. Ma se ne avessi una, non vorrei che lo sapesse.

– Certo che no, – disse Mike, annuendo con vigore. – Sia chiaro, stavo solo parlando in teoria. In via del tutto ipotetica. Non stavo suggerendo che io e te potessimo fare una cosa del genere. Succhiarci il cazzo a vicenda, insomma.

A quel punto, capii, e dissi: – Però te la sei scopata.

Si schiarí la gola, e bevve un sorso di Coca.

– Sí, certo, – rispose. – E mi è piaciuto. Era grassa e un po’ appiccicosa, ma non è stato malaccio. Non intendevo dire quello che pensi. Non è di quello, che stavo parlando. Insomma, facevo tanto per dire.

– Certo, – risposi.

– Non lo raccontare a nessuno, – disse. – Potrebbero farsi un’idea sbagliata.

– Non c’è problema.

– Ehi, ti do uno strappo fino a casa.

– Grazie, – dissi.

Finimmo gli hamburger senza parlare e uscimmo, diretti alla sua auto.

Partí senza chiedermi indicazioni. Sapeva dove abitavo.

– Come credi che andrà la squadra, quest’anno? – chiese. – Secondo me stavolta li stracciamo, quelli di Mineola.

– Può darsi, – risposi, come se fossi un esperto di football. In realtà avevo assistito a una sola partita, con lo scopo di guardare una ragazza che mi piaceva e che faceva la cheerleader. Se n’era andata con uno dei giocatori e io ero rimasto con una busta di pop-corn mezza vuota.

Quando svoltò nel mio cortile, Mike spense i fari per non illuminare le finestre e svegliare i miei genitori. Aprii la portiera, e la lucina interna si accese. – Grazie per il passaggio. Ci vediamo, – dissi.

– Ehi, solo per chiarezza, – disse Mike. – Stavo scherzando, prima, ma potrebbe esserti sembrato, insomma…

– No, no, – dissi. – Non preoccuparti. Ho capito.

Mi guardò, nella luce soffusa della lampadina. E seppe con certezza che avevo capito perfettamente.

Avrei voluto dirgli qualcos’altro, ma non riuscii a farmi uscire una parola di bocca. Chiusi la portiera e lui se ne andò. Per essere un fine settimana, la serata era finita presto.

Dopo quell’episodio, lo rividi a scuola. Mi sorrideva sempre e mi salutava, ma non si sedette mai vicino a me a mensa, né si fermò a chiacchierare quando ci incrociavamo. Dopo un po’ non mi capitò piú di incontrarlo, e in seguito seppi da Leonard che si era trasferito a nord, insieme alla famiglia.