– Mio padre aveva i suoi momenti, questo è sicuro, come quando mi parlò di quel serpente ma aggiunse anche dell’altro, per trasmettermi un insegnamento. Poteva essere molto contraddittorio, e non c’è alcun dubbio sul fatto che fosse razzista. Odiava i neri in quanto razza, ma come individui spesso gli andavano a genio. Credo che non riuscisse ad accettare l’idea che un nero potesse fare qualcosa meglio di lui, perché non gli sembrava giusto. Era cresciuto povero in canna, e quando sentiva parlare di gente che accumulava quantità incredibili di quattrini reagiva dicendo che erano tutte balle, o che non avevano fatto niente per meritarseli. Immagino che se trascorri i primi anni della tua vita senza un soldo, ignorante e incolto, non è facile fartene una ragione. Non gli sembrava giusto che qualcuno guadagnasse tutti quei dollari praticando uno sport, per esempio. E questo valeva in particolare per gli atleti neri. D’altro canto, sapeva sempre dirmi qualcosa di significativo in momenti come quello del serpente. E ogni tanto sceglieva di farlo raccontandomi una storia.
– Credo proprio che tuo padre mi sarebbe andato a genio, anche se sono nero, – disse Leonard.
– Ma non credo che tu saresti piaciuto a lui, – ribattei. – Anche se, a volerla dire tutta, vi somigliate parecchio. Nel senso che anche lui era un tipo tosto, e senza peli sulla lingua.
– Io sono anche molto affascinante, – disse Leonard. – Avrebbe finito per cambiare idea, sul mio conto.
– Non sei solo nero ma anche gay, perciò ho i miei dubbi.
– Che genere di storie ti raccontava? – chiese Chance.
– Di tutti i tipi. Spesso si trattava di cose che gli erano capitate personalmente, ma ogni tanto sceglieva una storia di fantasmi.
– Oh, mi piacciono, le storie del terrore, – disse Chance. – Mi puoi raccontare una delle sue?
Guardai Brett, che sorrise. – È una donna ormai, Hap. La può reggere tranquillamente. E se si spaventa, può sempre dormire sul divano insieme a Buffy.
– Esatto, – disse Chance. – Sono adulta –. E mi regalò uno dei suoi sorrisi piú luminosi. Quando lo faceva, era impossibile negarle qualunque cosa.
– Va bene, – dissi.
La stufetta elettrica ronzava come un’ape e la griglia era incandescente. Hap Collins, dieci anni di età, era seduto sul pavimento con le braccia attorno alle ginocchia, che aveva portato al petto per trattenere il calore. La casa era immersa nel buio, fatta eccezione per la luce della stufa. Fuori, la pioggia picchiettava sui vetri e il vento ululava come un lupo in preda alla disperazione.
Hap sentí qualcosa che grattava contro la finestra e balzò quasi in piedi. Ma poi si ricordò di cosa si trattava. Era il ramo di una magnolia che, nelle giornate di vento forte, ondeggiava fino a toccare il vetro, producendo esattamente lo stesso rumore di un gatto che sfrega gli artigli nella sua sabbiera. Eppure, per quanto negli ultimi due mesi gli fosse divenuto familiare, non c’era una sola volta che quel suono non lo facesse sobbalzare.
Hap era comunque contento di avere una stanza tutta per sé. Aveva sempre sperato che accadesse, un giorno. Avevano trascorso gli ultimi mesi tra un motel e l’altro, attraversando l’Arizona e il Texas occidentale perché i suoi genitori potessero trovare lavoro nei campi o nei frutteti. Avevano raccolto la frutta, il cotone o le patate, accettando qualunque incarico pur di essere pagati, finché non erano tornati nel Texas orientale. Ma ora suo padre era stato ingaggiato da una grossa ditta che distribuiva propano, in qualità di meccanico ed esperto in guasti di ogni genere. Riparare le auto era il suo lavoro preferito, ed era anche molto bravo. Nel giro di pochi giorni Hap avrebbe cominciato a frequentare una nuova scuola, dopo le vacanze natalizie, e a quel punto sarebbe scoccato l’anno 1960. Anno nuovo, casa nuova, pensava: ed entrambi i cambiamenti non gli dispiacevano affatto. Era bello avere una casa di proprietà, anche se era fredda e gli metteva un po’ paura, e anche se era rimasto indietro di un anno a scuola per via di quel lungo periodo trascorso in giro. E c’era un altro problema: in quel quartiere non conosceva nessuno. Ma se provava a tirare le somme, c’era comunque di che essere eccitati.
La porta della stanza si aprí di pochi centimetri, e una grande ombra si stagliò sulla soglia, con la luce del corridoio alle spalle.
– Figliolo? – disse l’ombra. – Tutto bene?
– Sí, – rispose Hap. – Papà, mi racconteresti una storia?
– Una storia? Ma lo sai che ore sono?
– No.
– Sono… insomma, è molto tardi.
– Ma tu sei ancora sveglio, papà.
– Sono venuto a vedere come stavi.
L’ombra entrò in camera e si sedette accanto a Hap: indossava solamente un paio di boxer. La luce della stufa fece sparire l’ombra e illuminò un uomo robusto, con i capelli radi e due avambracci grossi come mazze da baseball. Aveva un torace ampio, mani grandi e dita tozze, smussate sulle punte. Una volta suo padre aveva strappato in due un elenco del telefono per vincere una scommessa con il cognato. Non era poi cosí spesso, come elenco, ma il cognato non sarebbe mai riuscito a fare altrettanto. Non avrebbe saputo nemmeno sollevare un’auto per il tempo necessario a cambiare una gomma, mentre Hap sapeva bene che suo padre non avrebbe avuto nessun problema, in proposito. Glielo aveva visto fare, una volta. Non sapeva che si trattava di un mezzo prodigio finché non aveva cominciato a sentirlo dire dalle altre persone che avevano assistito allo spettacolo insieme a lui. Quando parlavano della forza fisica di suo padre, c’era sempre un misto di stupore e di ammirazione nella loro voce.
– Mi racconti una storia? Una di quelle che fanno paura?
– Mi sembri già abbastanza spaventato senza bisogno che mi ci metta pure io. Ma non c’è niente di cui tu ti debba preoccupare, giovanotto. Il vento è solo vento e la pioggia è solo pioggia, proprio come quel vecchio albero è solo un albero. La prossima estate potrai giocare sotto i suoi rami, anche se quella magnolia si riempirà di api. E alle api devi sempre fare attenzione.
Hap ricordò le parole di sua madre: gli aveva sempre detto che l’unica cosa di cui suo padre avesse paura erano le api e le vespe. Se veniva punto, restava di pessimo umore per giorni interi. Poteva beccarsi un cazzotto da un uomo grosso il doppio di lui e restituirgliene uno tre volte piú potente, e poteva perfino fare la lotta con un alligatore, darlo in pasto a un orso e farsi ringraziare per questo, ma le api e le vespe lo rendevano nervoso.
– Mi piacciono le storie del terrore, – disse Hap.
– Sí, lo so. Ho visto tutti quei fumetti che leggi.
– Me la racconti? Ti prego!
– E va bene. Come sai, abitiamo non lontano dalle paludi. È tutto terreno fertile, il fiume scorre in mezzo agli alberi fitti e laggiú è sempre buio. Ci sono un sacco di storie ambientate da quelle parti, ma sono solo storie, per l’appunto. E comunque ti conviene tenerti alla larga, da quel fiume. Quando avevo piú o meno la tua età ci andai a nuotare insieme al mio amico Ronnie, e lui finí intrappolato in un gorgo. Ci mancò poco che facessi la stessa fine anch’io.
– Davvero?
– Ci puoi giurare. Abitavamo non lontano da dove viviamo adesso. Quel gorgo tirò sotto il povero Ronnie e provò a fare la stessa cosa con me, ma io ero piú forte e riuscii a tirarmene fuori, anche se l’acqua continuava a prendermi per i piedi e a cercare di trascinarmi in fondo al fiume. Dovetti scalciare parecchio, per togliermi di dosso quella creatura.
– Di che creatura parli?
– Si racconta che ci fosse una donna che viveva sulle rive del Sabine. Era giovane e carina, e aveva un sacco di corteggiatori che volevano sposarla. Ma lei li rifiutava tutti. Aspettava la persona giusta, e nessuno degli spasimanti lo era.
Un giorno, vede un uomo vicino alla sua casetta, che sta pescando con una canna improvvisata e aspetta pazientemente che qualcosa abbocchi, seduto sotto un vecchio salice. E insomma, questa donna, che in realtà è poco piú di una ragazza, guarda quell’uomo e pensa di non averne mai visto uno cosí bello, neppure sui cataloghi della Sears, Roebuck & Company.
– Parli di quelli che posano in mutande?
– Non solo di quelli. Insomma, vede l’uomo e pensa, è lui che voglio. E siccome non è certo timida, gli si avvicina e si presenta. All’uomo lei piace subito, e cosí diventano… amici. Molto amici. I giorni passano e alla fine l’uomo decide che un’altra giovane donna che ha visto in città potrebbe fare piú al caso suo, perché non è solo bella ma anche abbastanza ricca. La donna del fiume però non vuole lasciarlo andare, perché ormai si sono sposati e non accetta l’idea che l’uomo voglia sbarazzarsi di lei. Litigano per un bel pezzo, ma lui non riesce a convincerla ad accettare il divorzio e la situazione si fa pesante.
Poi, una notte d’estate, commette una follia. Senza niente addosso a parte un paio di mutande la porta giú al fiume, trascinandola per i capelli. Lei indossa solo una vecchia vestaglia, leggera e consunta. La spinge in acqua e la segue, trascinandola verso il centro del fiume. Non c’è molta corrente ma l’acqua è profonda, e benché la donna abbia trascorso quasi tutta la vita su quel fiume da sola, non ha mai imparato a nuotare bene. Inoltre non le è certo d’aiuto che il suo compagno la trascini per i capelli e le tenga la testa sott’acqua, e non ci vuole molto perché anneghi.
Ora l’uomo ha un problema. L’ha uccisa e ha un cadavere di cui sbarazzarsi. Se la lascia in acqua il corpo rimarrà a galla, e benché potrebbe affermare che sia annegata mentre nuotava o che sia scivolata dalla riva mentre pescava e sia finita in acqua, sa che nessuno gli crederà, perché lei non ha mai nuotato in vita sua e tutti sanno che aveva paura dell’acqua e che non le piaceva pescare; anzi, a volerla dire tutta, non le piaceva neanche il pesce.
Decide allora che la cosa migliore da fare è prendere un vecchio sacco di tela e ficcarle la testa lí dentro; poi prenderne un altro, metterci un’incudine e legarglielo ai piedi, in modo che affondi al centro esatto del fiume, dove l’acqua è piú profonda e dove c’è una buca della quale si dice che nessuno abbia mai esplorato il fondo. E cosí la porta fin laggiú su una barca a remi e la getta da un lato, proprio sopra quella buca. L’ha appena buttata in acqua, con quel sacco sulla testa, e sta per gettare l’incudine e la catena cui è legata, quando la donna comincia a muoversi. Non era morta. Lui era convinto di sí, ma si era sbagliato.
Prende uno dei due remi e comincia a colpirla sulla testa, ancora avvolta nel sacco di tela. La colpisce con tutte le forze fino a quando la donna non smette di muoversi e rimane a galleggiare, con i piedi leggermente sollevati e legati alla catena cui è fissata l’incudine. L’incudine è ancora sulla barca e tiene fermo il corpo. Quando è convinto di averla sistemata una volta per tutte, l’uomo lancia in acqua l’incudine, e ci manca poco che la barca si rovesci. L’incudine trascina con sé la donna in quella buca senza fondo e l’uomo si sente sollevato perché è sicuro di essersi sbarazzato di lei in modo definitivo.
Quella notte torna a casa. Ha intenzione di raccontare che sua moglie è fuggita con un altro uomo, e dopo un po’ potrà divorziare per giusta causa.
– Che cos’è il divorzio, papà?
– È una cosa che fanno certe persone quando non vanno piú d’accordo, o quando sono troppo egoiste per impegnarsi ad aggiustare le cose. Comunque, quell’uomo è sicuro che nel giro di poco tempo potrà mettersi con la bella donna che vive in città e che lui vede di nascosto già da tempo. E cosí avrà libero accesso anche ai soldi. A casa però, ora che la moglie è annegata, comincia a sentirsi solo. Si mette a pensare a lei, vede i suoi capelli sulla spazzola in cima al comò, e un paio di fotografie che li ritraggono insieme. Quando va a letto è un po’ arrabbiato con sé stesso, e non fa che rigirarsi tra le lenzuola mentre la rivede precipitare sempre piú giú in quell’acqua scura, antica, in un vortice infinito: i capelli che ondeggiano, il corpo che rotea in quella buca che non ha fondo.
Finalmente prende sonno, ma poi si risveglia perché sente qualcosa. È come se qualcuno lo stesse chiamando per nome, e l’uomo riconosce la voce, o crede di riconoscerla, ma ha qualcosa che non va. È accompagnata da un gorgoglio, come se la persona che lo sta chiamando avesse la bocca piena d’acqua.
Non può essere lei, pensa. È nel fiume, in quella buca senza fondo, e scende sempre piú giú, con l’incudine che la tira verso il basso. Ma poi sente qualcosa che gli fa gelare il sangue nelle vene. È una specie di tintinnio, che ricorda quello di una catena quando la si aggancia a un mulo perché trascini l’aratro, e poi c’è un altro suono, uno strascichio, un po’ come se la catena fosse agganciata a un oggetto pesante e qualcuno se lo stesse tirando dietro.
– È lei, vero, papà?
– L’uomo si alza, tira fuori il suo vecchio fucile dall’armadio, uno di quelli a doppia canna, e si siede sul bordo del letto, pensando che forse sta sognando e che è ancora disteso sotto le lenzuola, che non ha sentito niente, in realtà, perciò non si è neppure alzato e non ha preso il fucile. Ma quel suono continua ad avvicinarsi. Ora è un po’ piú forte, quel tintinnio di catene, quello strascichio, e poi… si interrompe. Non sa dove, di preciso, ma lo immagina. Anzi, ne è certo: davanti alla porta di casa. All’improvviso si sente chiamare, ed è la stessa voce di prima, con lo stesso gorgoglio. È identica alla voce di sua moglie, se avesse la bocca piena d’acqua e si sforzasse di parlare. Non fa altro che ripetere il suo nome, senza sosta.
L’uomo non si muove. Rimane seduto sul bordo del letto ma ora sta tremando anche se non fa affatto freddo. Si sente bagnato, però, come se fosse di nuovo in mezzo al fiume. La voce lo chiama ancora, poi smette. C’è un lungo silenzio, ma l’uomo non si muove di un centimetro. E poi, sai cosa succede?
– Che cosa?
– Che l’uomo sente bussare alla porta. Colpi lenti, regolari. Poi qualcosa comincia a grattare contro il legno, ma lui ancora non si muove. Silenzio, seguito dal tintinnio e dal rumore di un oggetto pesante trascinato intorno alla casa, per fermarsi alla finestra, accanto al letto. L’uomo è seduto con le spalle alla finestra, ma ha seguito i rumori e sa che c’è qualcuno o qualcosa, là fuori. Cosí si volta lentamente, e guarda. E che sia dannato se non c’è una faccia gonfia e livida premuta contro il vetro che lo sta fissando.
A quel punto balza in piedi, ruota su sé stesso e spara, sfondando il vetro e prendendo in pieno quella faccia, che però rimane al suo posto senza scomporsi. Ormai sa a chi appartiene quel volto. È sua moglie, ed è tornata appositamente per lui. La donna si aggrappa al davanzale e comincia ad arrampicarsi sulla finestra, senza curarsi delle schegge di vetro. Cavolo, l’ha presa in piena faccia con la sua doppietta eppure lei continua ad avanzare, e il suo aspetto non è peggiorato, ammesso che fosse possibile, anche se ora ha il viso, il cranio e la gola tutti bucherellati. Ed è bianca. Incredibilmente bianca. Non perde sangue: è solo coperta di buchi piccoli e neri come zecche. Entra dalla finestra, con la vestaglia ridotta in brandelli perché è tornata su dal fondo del fiume e ha attraversato la boscaglia, e ha ancora quella catena legata a un piede. Comincia a tirare l’incudine verso di sé, trascinandola sul terreno; poi l’incudine prende a inerpicarsi sul muro di casa, grattando forte, entra dalla finestra spalancata e cade sul pavimento, con il frastuono di un grande albero appena abbattuto.
L’uomo non può correre perché le gambe non gli reggono. Le ginocchia sbattono una contro l’altra e rimane immobile, come se i piedi fossero inchiodati al pavimento. Le spara addosso un’altra volta, ma l’effetto è talmente modesto che ne avrebbe ottenuto uno migliore facendole il solletico con una piuma.
Lei si avvicina, stringendo la catena tra le mani e trascinandosi dietro l’incudine. L’uomo è ancora paralizzato. La donna avanza, passo dopo passo, e l’incudine traccia un solco profondo nel legno. Quando l’uomo si scuote e sembra pronto a darsi alla fuga, lei accelera come non dovrebbe essere in grado di fare, con una velocità impensabile per qualunque essere umano, lascia andare la catena e gli stringe le mani al collo. Gli infila le dita tra i capelli, si volta e lo trascina dietro di sé per tutta la casa, fino alla porta d’ingresso. La colpisce con un calcio, facendola volare via dai cardini e ricadere in mezzo al cortile, e riparte, continuando a tirarsi dietro l’uomo, la catena e l’incudine.
Prosegue a passo lento e regolare, tenendolo per i capelli, mentre l’uomo striscia a terra, e arriva al fiume. Si immerge, spingendosi fino al centro esatto, dove c’è quella buca profonda e antica. Ha ancora l’incudine attaccata al piede ma resta comunque in superficie, facendo quello che non è mai stata in grado di fare da viva: nuotare, o almeno galleggiare. Quando si trova al centro esatto del fiume trae a sé il suo uomo, lo guarda dritto negli occhi e posa le labbra gonfie sulle sue, in un lungo bacio melmoso. Poi lascia che l’incudine li trascini sott’acqua. Precipitano sempre piú giú, in un gorgo infinito, fino in fondo a quella buca scura, piena d’acqua e ora anche delle loro due anime perdute.
Forse crederai che la storia finisca qui, ma non è cosí. Quella donna è ancora in fondo al fiume, e nel punto in cui è precipitata l’acqua è cosí profonda da farti sbucare in Cina, ma forma anche un gorgo, proprio come quando lei e il suo uomo sono finiti nella buca, trascinati da quella catena e da quell’incudine. Da allora il gorgo non si è mai placato e non ha nessuna simpatia per gli uomini, o per i bambini. Ecco perché si è preso Ronnie e ha cercato di prendersi me, come ha fatto con tanti altri bravi ragazzini che hanno provato ad attraversare il fiume a nuoto. E ha fatto lo stesso anche con diverse barche a remi, risucchiandole in quella buca senza fondo che ospita decine di uomini e di bambini, tutti laggiú a girare in tondo per l’eternità. Ecco perché non devi tuffarti in quel fiume per nessun motivo al mondo, soprattutto nel punto dove c’è la buca. La Strega dell’Acqua, come ormai la chiamano tutti, non aspetta che te.
Hap restò seduto in silenzio per qualche istante.
– La Strega è qui vicino?
– Sí.
– Ed esiste davvero?
– È solo una storia.
– Ma se esistesse, potrebbe uscire di nuovo dall’acqua?
– Non credo. Non piú. Ormai è là sotto, e ci rimarrà. Ha fatto a quell’uomo la stessa cosa che aveva subito da lui, e ora ha il suo regno, in fondo al fiume. Guai a chiunque provi a passare lí sopra a nuoto, o a pescare in quelle acque. Però non potrà piú uscire di lí. È condannata a restare là in fondo con suo marito, con Ronnie e con tutti gli altri. Ora, però, devi andare a letto.
Hap scivolò sotto le coperte. Erano belle calde. Suo padre gliele rimboccò.
– Mi spiace averti raccontato questa storia, – disse.
– Mi è piaciuta.
– Ma avrai gli incubi e, oltre a non essere una cosa buona per te, la mamma se ne accorgerà, e se la prenderà con tutti e due.
– Mi piacciono le storie, papà.
– Bene. Posso dormire qui accanto, se hai paura.
– Non ce n’è bisogno.
– D’accordo, – disse suo padre, e uscí dalla stanza tornando a essere un’ombra.
La stufa ronzava. Il vento soffiava. La pioggia picchiettava sui vetri. La casa scricchiolava. A Hap parve di vedere quella donna, tutta gonfia, la catena con l’incudine legata a un piede, che continuava a roteare sotto la superficie, pronta a prenderti per un piede e tirarti a fondo. Quella storia gli era parsa spaventosa ma anche confortante. Suo padre gliel’aveva raccontata perché era stato lui a chiederla e a dire che preferiva una storia del terrore, e di questo gli era grato.
Hap chiuse gli occhi.
La donna continuava a ruotare su sé stessa. I capelli fluttuavano attorno alla sua testa come inchiostro, ondeggiando nella corrente e trascinando altri esseri umani nell’oscurità, insieme a lei, fin negli abissi del mondo.