– La sai una cosa, Leonard? Ora che ci penso, credo proprio che mio padre le avrebbe prese, le parti di quel nero. Dico sul serio. Era un uomo dei suoi tempi, ma anche un uomo d’onore, e aveva un gran senso della giustizia.
– Non ne dubito. Mio zio non ha mai accettato fino in fondo che io fossi gay, ma onestamente credo che lui e tuo padre si somigliassero parecchio. Se si fossero conosciuti in anni piú recenti, forse sarebbero diventati amici come noi. Insomma, culo e camicia.
– Probabile che tu abbia ragione, – dissi. – Nonostante le sue origini, mio padre aveva una saggezza tutta sua, e anche uno stile molto personale nel trasmetterla al prossimo.
– E in cosa consisteva, questo stile? – intervenne Chance.
– Diciamo che era il classico stile da uomo dei boschi.
– Capisco, – disse Brett. – I boschi. In questo sei la copia di tuo padre. Sai come si dice, no? Puoi strappare un ragazzo ai boschi e togliergli le zecche una a una, ma i boschi gli rimarranno sempre dentro... O qualcosa del genere.
– Be’, non è proprio fuori luogo, come osservazione, ma non mi sembra neppure molto centrata, – osservò Leonard.
– Ti piacciono i biscotti alla vaniglia che tengo chiusi nella dispensa? – ribatté Brett.
– Mia cara, tu sei l’incarnazione della saggezza e nessuno sa usare i vecchi cliché meglio di quanto sappia farlo tu, – corresse il tiro Leonard.
– Un po’ come quando hai detto «culo e camicia», non credi? – disse Brett.
– Un esempio impeccabile, – rispose Leonard.
Chance proruppe in una risata breve, dolce e lievemente rauca, che mi fece sorridere. – Dài, papà, – disse. – Dammi un esempio della saggezza di tuo padre.
– Va bene. Posso raccontarti un episodio dal quale emerge chiaramente, insieme al suo senso di giustizia.
Avevo dodici anni, e il paese non era com’è adesso. C’erano ancora alberi alti e antichi su entrambi i lati delle strade, insieme a pini, alberi della gomma e di ogni altro genere, e gli scoiattoli affollavano i rami, mentre gli uccelli che facevano il nido lassú erano cosí numerosi da sembrare fiori carichi di colori.
Papà si inerpicò su una collina con la nostra vecchia auto nera, e quando fummo in cima seguimmo il crinale per un po’ prima di svoltare a sinistra su una vecchia strada di argilla rossa, cosí stretta che i rami degli alberi sfregavano dolcemente contro i finestrini e frusciavano sul tettuccio e sul cofano della macchina. Era una giornata fresca di inizio inverno, e gli alberi gettavano la loro ombra sul sentiero che stavamo percorrendo.
Dopo un po’ svoltammo ancora, per poi parcheggiare in fondo a una strada sabbiosa e piena di buche, ancora piú stretta della precedente. C’era già un’auto ferma, al limitare del bosco. Una Chevrolet bianca. Papà le parcheggiò accanto e scendemmo. Tirò fuori due doppiette dal sedile posteriore: una calibro 12 per lui e una 410 per me.
Entrambe le armi erano a colpo singolo e andavano aperte per scaricare la cartuccia, e papà non le aveva mai fatte modificare. Mi porse la 410, sistemò la sua doppietta sul tettuccio dell’auto e guardò la Chevy mentre indossava la cartuccera e si infilava in tasca la carne essiccata che aveva portato con sé.
– È la macchina di Hank Jenner, – disse.
Conoscevo Hank Jenner solo di vista. Era un tizio robusto, con i denti macchiati di tabacco, e portava sempre un fedora unto, con la falda abbassata per proteggere gli occhi dal sole. Trascorreva parecchio tempo al negozio di mangimi, chiacchierando con altri uomini che non avevano un granché da fare, come lui, del resto. Lo vedevo ogni volta che andavo a comprare i miei albi a fumetti subito accanto, e quando passavo davanti alla porta aperta del negozio di mangimi, lungo il marciapiede, trovava sempre il modo di dire qualcosa. Non capivo mai bene cosa intendesse, e faceva delle battute anche a mia madre, affacciandosi addirittura dalla porta, ma lei lo ignorava. Gli uomini dentro il negozio ridevano, invece.
Una volta mia madre mi aveva intimato: – Non raccontare niente a tuo padre del signor Jenner e di quello che ha detto.
– Perché?
– Perché se lo fai la signora Jenner, che è tanto una brava persona, dovrà dormire da sola.
Non capii: non allora. Sapevo che a mamma e a papà il signor Jenner non piaceva. E in realtà andava a genio a ben poca gente, a parte i tizi del negozio di mangimi. Nessuno sapeva bene come si guadagnasse da vivere, ma aveva sempre un po’ di soldi da spendere, che gli servivano per il tabacco da masticare e, a sentire papà, per bere in abbondanza.
La moglie del signor Jenner, invece, mi piaceva. Era stata la mia maestra in quarta elementare. Era dolce, buffa e aveva dei figli piú grandi e piú piccoli di me, nessuno dei quali nella mia stessa classe.
Se la vedevo fuori da scuola insieme al marito, sembrava un’altra persona. Non era alta e dritta come in aula, non sorrideva mai e non si fermava a parlare con nessuno. Non indossava uno dei tre o quattro bei vestiti che portava a scuola, ma vecchi abiti grigi. Anche i figli erano vestiti maluccio. A scuola qualcosa di piú elegante lo mettevano, ma per il resto quella che possedevano era tutta roba vecchia. Potevo capirlo, del resto. I miei vestiti li cuciva quasi tutti mia madre, a parte quelli dismessi dai miei cugini quando diventavano troppo corti e stretti. Se non dovevo andare a scuola o in chiesa indossavo sempre i miei abiti piú vecchi, con le toppe sui gomiti e sulle ginocchia. Quella dove vivevamo era ed è ancora una delle zone piú povere del Paese.
A volte il signor Jenner veniva a prendere sua moglie all’uscita di scuola. Parcheggiava sul marciapiede, scendeva dall’auto e si piazzava a braccia conserte, appoggiato alla portiera, aspettando che la signora Jenner uscisse. Sembrava che diventasse piú piccola a ogni metro che percorreva verso l’auto. Non si rivolgevano neanche la parola. Lei saliva a bordo e basta.
Ero molto eccitato, quel giorno, e la presenza dell’auto del signor Jenner non mi fece né caldo né freddo. C’era un sacco di gente che veniva a caccia in quei boschi. Immagino fossero di proprietà di qualcuno, ma a quei tempi vigeva una regola implicita in base alla quale si poteva cacciare nei terreni di proprietà altrui, purché non si sparasse troppo da vicino, non si tagliasse il filo spinato e non si accendessero fuochi per poi lasciarli incustoditi. Mi piaceva sparare agli scoiattoli ed ero andato a caccia diverse volte, mangiando sempre quello che uccidevamo, come aveva stabilito mio padre. Se non prendevamo nulla, sapevo già che il giorno dopo ci sarebbe toccata una minestra di chicchi di granturco.
Ci inoltrammo nel bosco seguendo una pista tracciata dagli animali e cacciando «in silenzio». Cosí avevamo battezzato il nostro metodo: in realtà, non avendo un cane da caccia, ci limitavamo a camminare guardando in alto e non appena scorgevamo una coda di scoiattolo che oscillava al vento sparavamo. Potevamo uccidere un numero limitato di scoiattoli, cui ne aggiungevamo due per una famiglia di colore particolarmente povera. Era cosí che si chiamavano allora, gli afroamericani: gente di colore.
Vivevano non lontano da noi. Il marito aveva un grosso problema a un piede e poteva sobbarcarsi soltanto lavori leggeri, perciò avevano sempre bisogno di cibo e di soldi. La moglie faceva la donna delle pulizie e i figli avevano degli impieghi part time e andavano alla scuola di colore poco oltre Marvel Creek, in un posto che si chiamava Sand Ridge. Da quella parti abitava un sacco di gente di colore.
Vivevo in un costante stato di confusione, perché papà non faceva che insultare i «negri», chiamandoli «scimmioni» e «balordi», ma gli regalava tutti gli scoiattoli in piú che riusciva ad accoppare, o i pesci d’avanzo. E quando non prendevamo abbastanza pesci o uccidevamo solo pochi scoiattoli li dava tutti a loro e noi dovevamo accontentarci della minestra.
Eppure, dentro casa, dei neri diceva peste e corna, e mi faceva venire quasi il mal di stomaco, certe volte, anche se non ero sicuro di capire il perché.
Mamma invece vedeva il lato positivo in tutte le persone, indipendentemente dal colore della pelle.
Lei e papà parlavano in modo molto diverso della gente di colore, anche se sembravano entrambi gentili e generosi con tutti, e papà, cosa strana, visto come ne parlava, lo sembrava ancor di piú proprio con i neri. Il momento in cui ero arrivato piú vicino a capirlo era stato quando mi aveva detto di sapere che cosa significasse soffrire la fame.
Io e papà proseguimmo per un po’ nel bosco, con i fucili imbracciati. Era appena finito l’autunno, e gli alberi erano tutti spogli tranne i pini, che restavano sempre verdi a meno che non fossero secchi. L’aria profumava di resina, di terra bagnata e dell’acqua del Sabine, che scorreva non lontano da lí.
Dopo un po’ vidi uno scoiattolo e papà lasciò che fossi io a sparargli. Lo centrai al primo colpo e cadde dall’albero. Lo tirai su per la coda e lo appesi alla cintura con un pezzo di spago, dopodiché riprendemmo il cammino.
Era quasi mezzogiorno quando ci fermammo a mangiare qualcosa. Avevo ucciso due scoiattoli, e papà altrettanti. Tirò fuori la carne secca dal giubbino che fungeva da cartuccera, tolse l’involucro di plastica in cui era avvolta e me ne diede un pezzo.
– Mangia adagio: potrebbe volerci un bel po’ prima che ceniamo, – disse.
Masticai lentamente, fingendo di essere Davy Crockett a caccia di orsi.
Papà disse: – Ti piace sparare agli scoiattoli, eh?
– Sissignore.
– Be’, gli scoiattoli sono cibo. Non c’è niente di male se si prova soddisfazione nel procurarsi da mangiare, ma se cominci a sparare solo per veder cadere una preda e inizi a credere che uccidere sia una bella cosa, è arrivato il momento che ti siedi su un ceppo come questo e fai una bella chiacchierata con te stesso. Uccidere non è mai bello, figliolo, a meno che tu non lo faccia per nutrirti o per proteggerti. E comunque non dovresti trovarlo divertente neppure in quel caso.
Papà era fatto cosí. Diceva delle cose che sembravano quasi fuori tema, ma poi ci ragionavi sopra e ne capivi il senso. Io però mi ero divertito eccome, a sparare a quegli scoiattoli. Avere un fucile e usarlo per uccidere ti fa sentire potente.
Quando finimmo di mangiare riprendemmo la caccia, e uccidemmo un altro scoiattolo a testa. Stavamo per tornare verso l’auto quando papà vide qualcosa di rosso brillare in terra, tra due sicomori. C’era una macchia nera sopra quel rosso, che si muoveva e riluceva nella striscia di sole che filtrava tra i rami degli alberi. Ci avvicinammo.
Papà mi prese per le spalle e mi disse di proseguire fino a un grosso olmo che mi indicò con un dito. Io obbedii, ma ormai avevo visto cosa c’era lí per terra, e anche abbastanza da vicino. Era un uomo al quale mancava un bel pezzo di testa. Avevo sparato a uno scoiattolo poco prima, portandogli via buona parte del cranio, ma l’effetto non era stato lo stesso. Quando ci eravamo avvicinati al cadavere, le mosche si erano sollevate formando una nuvola, e ora quella nuvola stava scendendo nuovamente. Ben presto il corpo ne fu ricoperto, e quando le mosche si muovevano lo facevano in massa, come se fossero tutte parte di un’unica creatura. In mezzo alle mosche si intravedeva il lembo di una camicia rossa, poi per qualche ragione misteriosa si sollevavano e tornavano ad ammassarsi sul cadavere. L’aria aveva un odore sgradevole.
Una bestia, forse un cane selvatico, un coyote o un lupo rosso, aveva tirato via a morsi uno degli stivaloni da cowboy, che si trovava a una certa distanza dal corpo, e poi si era dedicato a rosicchiare il piede del cadavere con tutto il calzino. Non sembrava piú neanche un piede: la calza era scomparsa quasi per intero e una parte di essa si era trasformata in un lungo filo penzoloni. Vicino al cadavere c’era un fedora unto, capovolto, e ancora piú vicino un fucile.
– Jenner, – disse papà.
Non era possibile riconoscerlo dalla faccia, ma sapevamo che era lui per via di come era vestito, per la corporatura e soprattutto per la sua auto, parcheggiata sul limitare del bosco.
Papà si piegò sul corpo per studiarlo piú da vicino. Sbirciò il fucile calibro 30-30 di Jenner, sul terreno accanto al corpo. Si risollevò, girò attorno al cadavere e si piegò nuovamente per controllare il terreno cosparso di foglie. Lasciò scorrere un dito su qualcosa che si trovava in terra. A quel punto non potei piú trattenermi. Mi scostai dall’olmo quanto bastò per vedere che si trattava di un’impronta, e che ce n’erano altre. Erano piccole e portavano in direzione del fiume, che gorgogliava in sottofondo, non lontano da dove ci trovavamo.
Perfino alla mia età, non era difficile capire quanto quelle impronte fossero incongrue. Jenner era un uomo grande e grosso, e lo stesso valeva per i suoi piedi, mentre quelle impronte erano molto piú piccole, e risalivano sicuramente al giorno prima. Lo sapevo perché erano secche, ma dovevano essere state lasciate quando il terreno era ancora bagnato. E il giorno precedente aveva piovuto.
Papà si allontanò dal corpo, tirò fuori da una tasca un pacco di tabacco da masticare e se ne infilò un bel pezzo in una guancia. Non disse niente, limitandosi a cullare tra le braccia la sua doppietta.
– Avvertiamo lo sceriffo? – chiesi.
– A tempo debito. Tanto, piú morto di cosí non potrebbe essere.
Tornammo verso l’auto. Ci volle quasi un’ora per uscire dal bosco. Papà si fermò accanto alla Chevy, e fece una cosa strana. Tirò fuori un fazzoletto dalla tasca e lo usò per aprire la portiera sul lato del passeggero. Infilò la testa dentro, prese una borsetta nera dal sedile e richiuse la portiera con un ginocchio.
– Sali in macchina, giovanotto.
Spalancai la portiera posteriore, quindi aprii il caricatore della mia doppietta. La cartuccia, vuota, saltò subito fuori, rotolando in terra. La raccolsi e la misi in tasca insieme alle altre, quindi sistemai la mia 410 sul sedile di dietro. Salii a bordo e papà sistemò la sua doppietta accanto alla mia, lasciando cadere la borsetta sul sedile anteriore.
Quando si fu accomodato al volante dissi: – Che cosa è successo al signor Jenner?
– Dirò che si è trattato di un incidente.
– Avvertiamo lo sceriffo?
Glielo avevo già chiesto, ma non riuscivo a pensare ad altro. Avevo visto un sacco di sceneggiati televisivi e di film, e quando succedeva una cosa come quella cui avevamo assistito si chiamava subito lo sceriffo, la polizia, i tutori della legge.
– Tra poco, – rispose.
Guardai la borsetta. Aveva qualcosa di familiare.
Dopo essere usciti con l’auto dal bosco e aver imboccato la statale, non ci dirigemmo verso casa, ma dalla parte opposta.
– Dove andiamo, papà?
– Ho una piccola faccenda da sbrigare.
Proseguimmo per una ventina di minuti, credo, finché non raggiungemmo una casa sul lato della strada. Si trovava in fondo a un terreno grande circa un acro. Nello spiazzo davanti alla casa c’erano dei grossi alberi, e l’erba era secca come quasi ovunque, vista la stagione, e scura come il pane tostato. La casa era grande ma anche vecchia: aveva una veranda che le girava tutto attorno e un passaggio per i cani esattamente al centro. La pittura veniva via in lunghe strisce che mi fecero pensare alla pelle quando ti sei preso una bella scottatura ed è già passato qualche giorno. Intorno alla casa c’era un bosco, e mi resi conto che il fiume era molto vicino. A volo d’uccello, il punto nel quale avevamo trovato il signor Jenner non doveva essere molto distante dal retro della casa e probabilmente ci voleva meno tempo per raggiungerlo a piedi che non in macchina.
– Tu resta seduto qui, va bene? – disse papà.
– Sissignore.
Prese la borsetta e scese dall’auto.
Benché fosse inverno non faceva freddo: tutt’al piú era fresco. Avevo il finestrino abbassato e vi appoggiai sopra il gomito, pensando al cadavere nel bosco. Ma ben presto la mia mente si spostò altrove. Non so se accadde perché il signor Jenner non mi piaceva o perché non mi andava di continuare a rivedere quel cadavere con la testa ridotta a una poltiglia e quella nube di mosche che si alzava e tornava ad abbassarsi.
Sta di fatto che, dopo pochi istanti, cominciai a pensare alla cena, e prima di tutto agli scoiattoli fritti. Speravo che mamma avesse raccolto un po’ d’insalata di denti di leone per accompagnarli. Prima però, non appena fossimo arrivati a casa, avrei dovuto scuoiare e lavare gli scoiattoli. Quel compito spettava a me. Per scuoiarli tagliavo la pelliccia all’altezza delle zampe posteriori e proseguivo fino a farla passare sopra la testa dell’animale, come una camicia da notte. Subito dopo tagliavo la testa ed estraevo le interiora, stando bene attento a non infilare la lama del coltello nell’ano. Aprivo lo stomaco dello scoiattolo fino al buco del culo e tiravo fuori le budella, che davo subito da mangiare al cane. A quel punto non mi restava che lavare lo scoiattolo con la pompa, risciacquando la cavità addominale ormai vuota e consegnarlo a mamma, che lo avrebbe fatto a pezzi e cucinato.
Era a questo che pensavo seduto in macchina, ma i preparativi per la cena mi uscirono dalla mente non appena la signora Jenner fece la sua comparsa. Aprí la porta e rimase per un istante dietro la zanzariera, prima di spingerla e uscire fuori. La richiuse con delicatezza alle sue spalle, attraversò la veranda e scese gli scalini. Le ci volle un bel po’. Indossava un vestito molto vecchio, cosí consunto da sembrare quasi bianco; era probabile che, sotto il sole, fosse addirittura trasparente. La pelle della signora Jenner era chiara quasi quanto il suo vestito, e mi venne da pensare che i raggi diretti avrebbero permesso di vedere direttamente il suo scheletro, con una sola eccezione: l’occhio sinistro, che era nero e gonfio. Fu allora che mi tornò in mente l’immagine del signor Jenner con la testa spappolata e il sangue ormai secco sparso sul terreno come fosse vernice. Qualcosa ribolliva nella mia testa di ragazzino, ma non riuscivo ad afferrarlo.
Papà porse la borsetta alla signora Jenner e sentii chiaramente cosa le diceva.
– Ho trovato questa.
– Oh, – rispose lei, e la prese.
Rimase a fissare papà, come se non fosse sicura di averlo veramente davanti a sé. O forse era lei, che non era sicura di esserci. Uno dei figli guardò fuori da dietro la zanzariera e rientrò subito in casa.
– Ho trovato suo marito, – sentii che le diceva papà. – In mezzo al bosco, dove andiamo a caccia.
– Oh, – rispose lei.
– È morto.
– Davvero?
Era come se le avessero appena detto che aveva bucato una ruota e che sarebbe rientrato a casa piú tardi del previsto.
– È stato ucciso con un colpo di fucile.
– Capisco, – rispose lei.
– Potrebbe trattarsi di un incidente di caccia. Magari è incespicato su una radice e il suo fucile ha esploso un colpo che lo ha preso in pieno. Capita.
– Lei dice? – La signora Jenner incrociò le braccia, premendosi i gomiti contro i palmi.
– Per terra, però, c’era solamente un calibro 30-30. E visto che a ucciderlo è stata una doppietta, avrebbe dovuto essercene una, sul posto. Suo marito non è molto lontano da qui. La sua auto è parcheggiata in fondo a un sentiero.
– Già. Non gli è mai piaciuto attraversare a piedi il ponte sul fiume. Troppo instabile, diceva.
– In effetti non è l’ideale, per un uomo grande e grosso, – disse papà. – Ma una persona piú piccola e piú leggera non avrebbe nessun problema, credo.
La signora Jenner annuí. – Ogni tanto mi costringeva ad andare a caccia insieme a lui.
Stavolta toccò a papà annuire.
– In realtà non mi è mai piaciuto, ma lui mi obbligava, – aggiunse la donna.
Papà annuí di nuovo.
– Credo che il corpo sia lí da un giorno, e dovrò riferirlo alla polizia. Ma mi ci vorrà un bel po’ di tempo prima di andare in città, perché sono molto lento, quando guido.
La donna studiò mio padre.
– Visto che ad ammazzarlo è stata una doppietta, credo che dovrebbe essercene una, accanto al corpo. È difficile spiegare la presenza di quel calibro 30-30, ma potrei non aver visto bene. Magari c’era una doppietta, lí per terra. È sicuramente possibile. E dovrebbe essere proprio cosí, visto quello che è successo. L’incidente, voglio dire.
– Certo.
– Mi dispiace di averle portato una brutta notizia.
– Nessun problema, – rispose lei. – Qualcuno me lo avrebbe detto comunque, prima o poi.
– Meno male che abbiamo visto il corpo, cosí ha potuto saperlo per tempo.
– Già. Una vera fortuna.
– Ora andiamo. Mi spiace per suo marito.
– Mi diceva che avvertirà lo sceriffo.
– È quello che farò, ma come le dicevo vado molto lento, con la macchina, e forse devo fermarmi al supermercato per comprare il latte e il pane. Ora che ci penso sí, andrò prima lí e poi dallo sceriffo. Mi ci vorrà un bel po’ di tempo, insomma.
– Non abbia fretta, per favore, – disse la signora Jenner.
Papà annuí, poi disse: – Allora vado.
Salí in macchina, girò la chiave di accensione ma non inserí la marcia. Rimase seduto, con il motore in folle.
– Papà, cosa stai facendo? – gli chiesi.
– Sono seduto su un ceppo.
– Come?
– Sto facendo una bella chiacchierata con me stesso.
– Signore?
– Va tutto bene, figliolo.
Papà fece manovra, imboccò il viale d’accesso e ci allontanammo. Mi voltai indietro e vidi che la signora Jenner era appena uscita dalla porta sul retro della casa e stava attraversando il cortile. Indossava un paio di pantaloni da uomo, degli stivali e stringeva qualcosa tra le braccia, ma eravamo già ai margini del bosco e potei solo intravederla per un attimo, prima che sparisse.
Quando fummo sulla strada papà disse: – Che arma hai visto accanto al cadavere del signor Jenner?
– Un fucile, – risposi.
– No, figliolo, era una doppietta. Chiunque sia a chiedertelo, dovrai rispondere cosí. Anch’io ho pensato che fosse un calibro 30-30, ma mi sono sbagliato.
Sapevo bene che cosa avevo visto, ma in quell’istante capii tutto, o comunque quanto bastava.
– Sissignore, – dissi. – Era una doppietta.
La signora Jenner continuò a insegnare fino al termine del semestre; si vestiva sempre bene e sorrideva anche fuori da scuola. Poi, quando il semestre finí, si trasferí insieme ai suoi figli, e non la rividi mai piú, né seppi piú nulla di lei.