La quercia e il lago

Quando ebbi finito quella storia, Chance disse: – Mi è piaciuta molto. Puoi raccontarmene un’altra?

Vidi che Brett guardava l’orologio.

– Non stasera, – risposi. – Devo accompagnare a casa lo zio Leonard.

– Potrebbe dormire sul divano, – disse Chance. – Cosí restiamo alzati ancora un po’. Facciamo una specie di pigiama party.

– Mi dispiace, – disse Leonard, – ma è stata una lunga giornata e ci abbiamo dato dentro, in palestra. È arrivato il momento di tornarmene a casa e fare una bella dormita.

– Che cavolo, però, – protestò Chance.

– La prossima volta ci mangiamo una pizza, ci mettiamo seduti e ti racconto tutte le storie che vuoi, – dissi.

– Promesso? – chiese Chance. Sembrava una ragazzina, e d’altronde, quando gli anni passano, anche chi ha vent’anni, se non trenta, ti sembra un adolescente o poco piú.

– Promesso, – dissi.

Accompagnai Leonard con la macchina e lungo il tragitto si addormentò. Quando mi fermai davanti a casa sua, si risvegliò di botto. – Che cavolo, potevi fare il giro piú lungo e lasciarmi dormire un po’.

– Queste cose si fanno con i figli piccoli, – risposi. – E tu non lo sei.

– Ma potrei esserlo, il figlio piccolo di qualcuno.

– Può darsi, ma non il mio.

Leonard si allungò e mi diede un colpetto su una spalla con il pugno chiuso. – Buonanotte, fratello.

– Sogni d’oro.

Scese dall’auto e ripartii. In realtà, però, non ero molto stanco. Tutte quelle chiacchiere mi avevano reso nostalgico. Mi diressi nel posto dove Leonard aveva vissuto da ragazzo, dove Trudy era morta ed erano successe diverse altre cose brutte. Quel luogo ospitava anche dei bei ricordi, però, e cercai di concentrarmi su quelli. Ogni tanto ci tornavo, da solo o con Leonard, e ogni volta mi ripetevo che non l’avrei piú fatto, ma non serviva a niente. Era un po’ come quando un alcolista dice che non berrà mai piú e poi corre a prendere la bottiglia dalla dispensa per versarsi un goccio.

Non era a Trudy che pensavo, stavolta: i miei ricordi erano concentrati sulla casa di Leonard, sul bosco alle sue spalle e sull’albero di Robin Hood.

Un tempo c’era stata una grande quercia dietro la casa dove Leonard abitava: era al centro di un bosco ed era una delle ultime, grandi querce della zona. Era alta, robusta e antica. Aveva dei grossi rami sui quali arrampicarsi, stendersi e dormire senza alcun pericolo di cadere.

La chiamavamo l’albero di Robin Hood, in omaggio al grande albero intorno al quale Robin e la sua allegra banda si radunavano per chiacchierare e spassarsela. Tra me e me lo avevo soprannominato anche l’albero di Tarzan, immaginando che avrei potuto costruire una casa su uno dei suoi grossi rami e disporre di tutto lo spazio per viverci con una Jane bionda e flessuosa, facendo molto piú che lanciare i miei richiami agli elefanti o saltare da una liana all’altra.

Io e Leonard ci davamo appuntamento sotto la quercia, che raggiungevo a piedi da casa mia, attraverso il bosco. Il posto in cui abitavo non era poi cosí lontano, se seguivi uno dei sentieri tra gli alberi per poi abbandonarlo e imboccarne uno tracciato dai cervi e da lí proseguire a zig-zag tra le querce rosse fino a raggiungere Fisherman’s Creek. Sul lato opposto del torrente gli alberi diminuivano di numero, ma non erano meno imponenti. C’erano alberi della gomma, noci americani e ovviamente pini.

L’albero di Robin Hood era il patriarca di tutta quella famiglia. Era piú alto e aveva i rami piú larghi di qualunque altra pianta. La corteccia era scura e ricca di linfa e in primavera le foglie erano verdi come l’Irlanda. Ripararsi sotto quell’albero quando pioveva era un vero miracolo, perché i rami erano cosí fitti e le foglie cosí gonfie che durante la primavera e buona parte dell’estate, se non in autunno, quando le foglie diventavano marroni o gialle e cadevano, non ti bagnavi quasi. Durante le tempeste i rami ondeggiavano come soldati furibondi che sbatacchiassero le loro armi, ma non si rompevano mai, e a cadere erano solo i ramoscelli piú piccoli e qualche foglia. Il terreno sotto la quercia era scuro e denso grazie a tutte le foglie che erano cadute nel corso degli anni, trasformandosi in concime. C’erano parecchie ghiande e a volte, arrivando, vedevi gli scoiattoli radunati sotto l’albero; erano scoiattoli neri, una specie rara dalle nostre parti, che aveva eletto quella parte di bosco a proprio domicilio. Ce n’erano parecchi anche sui rami, allegri e chiassosi.

Io e Leonard ci vedevamo spesso lí, la mattina, di solito per fare colazione con delle uova sode che avevamo messo negli zaini e per bere il caffè dei nostri thermos. Ci portavamo dietro anche l’attrezzatura da pesca, e un pranzo al sacco.

A volte ci sedevamo sotto l’albero a chiacchierare per poi metterci in moto con le nostre borse termiche, passando in mezzo al bosco e costeggiando il torrente fino al lago. Era molto grande, e un tempo c’era stata una casa, nelle vicinanze, ma ora si era ridotta a un ammasso di legno ingrigito e di chiodi arrugginiti, e a una pila di mattoni nel posto dove un tempo c’era stato il camino. Alle spalle della casa c’era un fienile rivestito di legno che stava ancora in piedi, anche se le due ante della porta erano sparite, probabilmente sottratte e usate come legname da costruzione. Gli alberi erano cresciuti anche dentro il fienile e un albero della gomma era arrivato al tetto, premendo fino a sfondarlo.

Il cratere in cui sorgeva il lago era stato scavato cinquant’anni prima e riempito di pesci, e quelli che abboccavano alle nostre esche ne erano i discendenti diretti. Sulla riva c’era una barchetta che avevamo portato non senza fatica lungo le sponde del torrente perché fosse a nostra disposizione ogni volta che ci andava di pescare. Nessuno le prestava la minima attenzione, perché nessuno frequentava quel lago, a parte noi. Il terreno apparteneva a qualcuno che viveva a nord e si era dimenticato della sua esistenza. L’acqua del lago era sempre torbida, ma c’erano pesci in abbondanza. Li prendevamo all’amo e di solito li ributtavamo in acqua, a meno che non fossero belli grossi e pasciuti, nel qual caso tornavano insieme a noi e diventavano la nostra cena. Pescavamo al lancio e con canne improvvisate, perché quello era il posto ideale per pescare all’antica, senza bisogno di mulinello. Montavamo la lenza, i piombini, il galleggiante, l’amo e come esca usavamo lombrichi. Poi, dalla barca, calavamo la lenza e guardavamo i pesci saltare fuori dall’acqua, le libellule lanciarsi in picchiata sulla superficie del lago, le ombre degli uccelli in volo. Di tanto in tanto ci capitava anche di vedere una rana salterina, o un mocassino d’acqua. Le teste delle tartarughe facevano capolino come periscopi per poi tornare a immergersi, sollevando piccoli schizzi.

A primavera il clima restava fresco a lungo e in estate poteva diventare molto caldo, ma pescavamo comunque, proteggendoci dal sole con i nostri cappelli a tesa larga, seduti, parlando a bassa voce per non spaventare i pesci. Discutevamo delle mille cose in cui credevamo, e di quelle su cui non la vedevamo allo stesso modo. Parlavo a Leonard delle mie ragazze e lui mi raccontava dei suoi ragazzi. Parlavamo di fratellanza, senza mai usare direttamente quel termine. Tiravo fuori una sfilza di barzellette idiote e Leonard bofonchiava.

Quando Leonard lasciò la sua casa accanto al bosco, e dopo che mi fui trasferito anche io, smettemmo di frequentare quei luoghi.

Alcuni anni piú tardi, ai tizi del nord tornò in mente che quella terra era di loro proprietà; assoldarono delle squadre di operai e fecero abbattere tutti gli alberi, compresa la quercia grande e antica, che doveva aver opposto una fiera resistenza alle motoseghe con il suo legno vecchio e duro. Ma le motoseghe finirono per prevalere, la quercia crollò a terra e fu cosparsa di benzina e bruciata. Non si diedero nemmeno la briga di farla a pezzi e utilizzarla come legname da costruzione. Il terreno rimase annerito dal fuoco per diversi anni.

Al posto del bosco originario furono piantate file su file di pini, che venivano abbattuti ogni quindici o vent’anni, venduti come legna da ardere e rimpiazzati da nuove piante. La gente sostiene che ci sono piú alberi oggi che in passato, ma si sbaglia. Un tempo si poteva attraversare in macchina tutto il Texas orientale e vedere alberi dappertutto, e non soltanto pini. Gli alberi crescevano a pochi metri dalle strade e le ombreggiavano con la loro chioma. Non è necessario andare nei boschi e contare gli alberi uno a uno per sapere che chiunque sostenga che non c’è mai stata una vegetazione piú fitta mente sapendo di mentire. I pini che avevano piantato al posto della vecchia quercia non ti proteggevano dalla pioggia e non ondeggiavano al vento come il nostro vecchio albero di Robin Hood.

Alla fine riempirono anche il lago di terra, uccidendo tutti i pesci. Costruirono una diga lungo il corso del fiume realizzando un altro lago artificiale molto piú grande, a monte, ma non aveva alcuna attrattiva e rimase senza frequentatori. Per giunta, in quelle acque non c’erano pesci.

Una ditta che allevava polli per una catena di supermercati acquistò il terreno, e una serie di lunghe casupole adibite a pollai prese il posto del lago e dei boschi che lo avevano circondato, ma anche dei pini, che furono abbattuti senza piú essere rimpiazzati. Ora c’è una grande strada di pietrisco che porta dal luogo dove un tempo sorgevano gli alberi fino alla statale. È strano quanto sembri vicina, ora, la statale. Prima che il bosco sparisse, sostituito dalla strada, ci era parsa lontanissima.

Quando passavamo di lí, Leonard non si voltava neppure verso il luogo in cui aveva vissuto. Io guardo, invece, ogni volta che mi trovo da quelle parti, ma non mi piace quello che vedo. La pioggia continua a cadere e il vento a soffiare, ma la quercia e il lago non ci sono piú.