Capitolo 5

Emily

«Rispondi, rispondi!» grida Aaron.

«Che cosa faccio?» Gesticolo in preda al panico.

«Porca puttana. Rispondi», ordina Molly, prendendo il telefono.

«Non farlo», balbetto, cercando di toglierglielo dalle mani. Lei lo solleva in aria e lo agita.

«Rispondi, donna», esclama.

Glielo strappo e lo guardo vibrare. «Non ho intenzione di rispondere.»

Aaron me lo ruba e preme il tasto verde. «Pronto», dice con una finta voce da ragazza, poi me lo passa.

“Ma che cazzo?” mimo con le labbra.

«Pronto, Emily», mormora la voce vellutata di Jameson.

Sgrano gli occhi di fronte alle espressioni ammirate dei miei amici. Aaron si fa il segno della croce, come se fosse in chiesa, e congiunge le mani in segno di preghiera.

«Ciao.»

«Dove sei?» mi chiede.

«In un bar.» Mi guardo intorno, tenendo una mano sopra l’altro orecchio per cercare di sentirlo meglio. Merda, non ho intenzione di dirgli dove sono, ho un aspetto tremendo. Lo ascolto trattenendo il fiato.

«Voglio vederti.»

Mi mordo il labbro inferiore, e Molly mi colpisce su un braccio per riscuotermi dalla mia paralisi nervosa. «Ti ho detto che ho un ragazzo», rispondo in fretta. «Non posso incontrarti.»

«Porca di quella grandissima puttana», sussurra Aaron alla nostra collega, infilandosi le mani tra i capelli.

«E io ti ho detto di liberarti di lui.»

«Chi ti credi di essere?» farfuglio.

I miei amici ascoltano con attenzione.

«Esci da lì. Non riesco a sentirti», mi ordina con voce secca.

Mi alzo e attraverso il bar per andare sul marciapiede, e tutto tace.

«Così va meglio», commenta.

Lancio un’occhiata in strada, verso i taxi tutti in fila. «Che cosa vuoi, Jameson?»

«Lo sai cosa voglio.»

«Ho un ragazzo.»

«E io ti ho detto cosa fare.»

«Non è così semplice.»

«Sì, lo è. Dammi il suo numero, ti risparmio la fatica.»

Faccio un sorrisetto di fronte all’audacia di quest’uomo. «Lo sai, la tua arroganza mi fa passare qualsiasi voglia.»

È una sfacciata bugia, non è affatto vero.

«E tu me la fai venire. Sono duro da tutto il giorno. Vieni qui e metti fine al mio tormento.»

Mi sento il cuore rimbombare nelle orecchie. Sta succedendo davvero?

Una coppia di ubriachi mi supera barcollando, e devo spostarmi per non farmi travolgere. «Scusa», mi dicono.

«Domani mattina parto per la California», sbotto.

«Per vederlo?»

«Sì.»

«È rimasto lì?»

Contorco il viso in una smorfia.

Dannazione. Perché gliel’ho detto?

«Sì?»

«Quando lo vedi, voglio che tu faccia una cosa per me.»

«Che sarebbe?»

«Chiedigli se si sente morire al pensiero di non poterti più toccare.»

Mi acciglio. «Perché dovrei dirgli una cosa del genere?» bisbiglio.

«Perché c’è un altro uomo che si sente così.» Sento un click quando chiude la telefonata.

Fisso il telefono che ho in mano con la fronte aggrottata, attraversata dai brividi fino alla punta dei piedi.

Porca di quella puttana.

Mi premo una mano sulla bocca, non riesco a credere a quello che è appena successo.

Rientro nel bar sulle gambe malferme, e trovo i miei due amici che quasi saltellano sulle loro sedie, in attesa del mio ritorno.

«Che cosa è successo?» strillano.

Mi accascio, infilandomi le mani tra i capelli. «Voleva che andassi a casa sua e mettessi fine al suo tormento.»

«Porca puttana», esclama Aaron. «Posso avere il tuo autografo?»

«Ci vai?» farfuglia Molly. «Ti prego, dimmi che ci vai.»

Scuoto la testa. «No.» Rifletto per un momento. «Mi ha detto di chiedere al mio ragazzo se si sentirebbe morire al pensiero di non toccarmi mai più.» Mi ascoltano con espressioni perplesse. «Perché c’è un altro uomo che lo farebbe.»

«Cosa?» urla Molly. «Oh santo cielo, ci serve della tequila.» Si alza e sparisce verso il bar.

«Ti ha invitata a casa sua?» squittisce Aaron.

Annuisco.

«Sai dove vive?»

«No.»

«Park Avenue, con vista su Central Park.»

«Come fai a saperlo?»

«Google. Viveva nello One57, il Billionaire Building, ma lo ha lasciato per trasferirsi nel palazzo su Park Avenue. Il suo appartamento vale qualcosa come cinquanta milioni di dollari.»

«Cinquanta milioni…» Sussulto. «Dici sul serio? Come fa una qualsiasi cosa a valere così tanto? È ridicolo.»

Lui fa spallucce. «Non ne ho idea. Avrà i gabinetti d’oro o chissà che altro.»

Ridacchio, immaginandomi una persona seduta su un water d’oro.

Molly torna al suo posto e mi porge uno shot di tequila. «Bevi questo e poi vai a scopartelo senza pietà.»

«Non ci vado», esclamo.

«Beh, qual è il piano d’attacco?» domanda lei. «Vuoi fare la preziosa?»

«Nessun piano di attacco. Domani vado a casa per vedere Robbie.» Rilascio un sospiro grave. «Devo fare chiarezza nella nostra relazione, e spero che lui tornerà qui con me.»

Aaron solleva gli occhi in un’espressione delusa. «Non riesci a essere eccitata per Jameson Miles almeno quanto noi?»

«No, non lo sono. E, ricordate, non una parola con nessuno.» Bevo il mio drink. «So esattamente cosa succederebbe. Andremmo a letto una volta, poi Jameson passerebbe alla sua prossima vittima e io verrei licenziata.» Scuoto la testa, disgustata. «Mi sono impegnata troppo per ottenere questo lavoro, e quello è l’uomo che non ha nemmeno voluto il mio numero l’ultima volta che siamo stati a letto insieme.»

Il mio collega storce il naso. «Dio, perché sei così giudiziosa?»

«Lo so, è davvero uno schifo.» Sospiro.

Il telefono di Molly squilla. «Ti prego, fa che sia Jameson Miles alla ricerca di un piano B.» Sbuffa con espressione frustrata. «Pronto.» Si acciglia mentre ascolta. «Oh, salve, Margaret. Sì, mi ricordo di lei. È la madre di Chanel.» Sorride, continuando a prestare attenzione alla donna, ma poi la sua espressione si fa sgomenta. «Cosa?» Sgrana gli occhi. «Dice sul serio?» Si stringe la base del naso. «Sì.» Sembra che non riesca a dire una parola. «Capisco perché sia sconvolta.» Socchiude gli occhi, scuotendo la testa verso di noi. «Mi dispiace moltissimo.»

Aaron ed io ci guardiamo preoccupati. «Che cos’è successo?» le chiedo a bassa voce.

«Quanto espliciti sarebbero?» domanda lei alla persona dall’altro capo del telefono. Spalanca di nuovo gli occhi. «Oh mio Dio, mi dispiace così tanto.» Continua ad ascoltare. «No, la prego, non vada dal preside. Apprezzo che abbia chiamato prima me.» Chiude gli occhi con il telefono ancora incollato all’orecchio. «Di nuovo, le mie più sincere scuse. Grazie. Me ne occuperò io, sì. Arrivederci.»

«Che c’è?» domando.

Lei si prende la testa tra le mani. «Oh mio Dio. Era la madre di Chanel, la ragazza per cui mio figlio ha una cotta. Ha guardato nel cellulare della figlia e ha scoperto che si sono scambiati dei messaggi piccanti.»

Mi mordo il labbro per impedirmi di sorridere a quella notizia. «È piuttosto normale di questi tempi, non è vero?» Cerco di consolarla. «Credo che lo facciano tutti.»

«Quanti anni ha questa ragazza?» chiede Aaron.

«Quindici!» grida lei.

Ridacchio per la sua reazione. Dio, non riesco a immaginare come sia avere un figlio adolescente.

Molly compone il numero dell’ex marito. «Pronto», sbotta. «Vai in camera di tuo figlio, prendi il suo cellulare e butta quel maledetto coso nel gabinetto. È in punizione a vita.» Rimane in ascolto, mentre Aaron ed io iniziamo a ridere in maniera incontrollata. «Michael», fa lei, inspirando a fondo per cercare di calmarsi. «Lo so che si stanno frequentando e che probabilmente a lei sta bene. Ma lui ha quindici anni», bisbiglia furiosa. «Prendi il suo cellulare, o preparati, perché verrò io lì e lo farò a pezzi.» Riattacca di colpo e appoggia la testa sul tavolo, fingendo di sbatterla ripetutamente contro di esso.

Il mio collega ed io scoppiamo a ridere, mentre le do qualche pacca consolatoria sulla schiena. «Vuoi un altro po’ di tequila, Moll?» le chiedo con dolcezza.

«Sì… la voglio. Falla doppia», mi risponde con rabbia.

Ferma davanti al bancone del bar, lancio un’occhiata verso il tavolo: Aaron ha una mano premuta sulla bocca in preda a un attacco di ilarità. Abbasso la testa per nascondere il mio sorrisetto sciocco.

È esilarante… ma solo perché non sta succedendo a me.

* * *

«Ehi.» Non appena Robbie apre la porta, mi illumino.

«Ehi a te.» Lui mi sorride, stringendomi tra le braccia. «Che sorpresa.»

«Lo so. Mi mancavi, quindi questa mattina sono tornata a casa per un paio di giorni.»

«Vieni dentro.» Mi attira nel suo garage convertito ad appartamento.

La notte scorsa non ho dormito. Ero in ansia per via dei miei sentimenti, e non sono riuscita a smettere di pensare a quello stupido di Jameson Miles. Mi sono alzata per andare direttamente in aeroporto e prendere un volo per la California. Mi guardo intorno nel minuscolo monolocale del mio ragazzo, osservando i cartoni vuoti della pizza e i bicchieri sporchi sparsi in giro.

«Che cosa stavi facendo?» gli chiedo.

«Niente», mi risponde con tono allegro. Si sdraia sul letto e dà una pacca sul materasso accanto a sé. Mi stendo, e lui mi infila una mano sotto alla maglietta, abbassando lo sguardo su di me.

«Hai fatto qualche colloquio di lavoro questa settimana?» domando.

«Nah, non c’era nessun annuncio che facesse per me.»

Mi acciglio. «Qualsiasi lavoro andrebbe bene… non è così?» chiedo speranzosa.

«Sto aspettando quello giusto.» Mi bacia con dolcezza.

Lo guardo, sentendo la sua erezione crescere contro la mia gamba. «Robbie, vieni a New York insieme a me. C’è tantissimo lavoro lì, per te sarebbe un nuovo inizio. Potremmo esplorare insieme la città.»

Lui strappa via la mano dal mio seno e si allontana da me. «Non iniziare con le tue cazzate. Ti ho detto che non mi trasferirò a New York.»

Mi alzo di scatto. «Che cosa te lo impedisce? Non hai nemmeno un lavoro. Cosa ti trattiene? Spiegamelo.»

«Mi piace vivere qui. Non pago l’affitto e mia madre cucina per me. Sto alla grande. Perché me ne dovrei andare?»

«Hai venticinque anni, Robbie.»

«E questo cosa vorrebbe dire?» sbotta.

«Non vuoi mantenerti da solo e provare a fare qualcosa di diverso?»

«No. Mi piace qui.»

«Devi crescere», scatto, ed entrambi ci alziamo.

«E tu devi tornare sul pianeta terra, cazzo. Il mondo non gira attorno a te.»

«Io voglio vivere a New York.» Lo prendo per mano, cercando di convincerlo. «Dovresti vederla, Robbie. Adoreresti stare lì. Ha un’atmosfera che non ho mai percepito in nessun altro posto.»

«Emily, New York è il tuo sogno, non il mio. Non mi trasferirò mai lì.»

Oh, cavolo. Siamo due mondi distanti. «Come possiamo stare insieme se viviamo ai due lati opposti del Paese?» gli chiedo piano.

Lui fa spallucce. «Avresti dovuto pensarci prima di fare domanda per quello stupido lavoro.»

«Non è uno stupido lavoro.» Lo supplico: «Non vuoi sostenere il mio sogno? Hai almeno intenzione di venire a trovarmi?»

«Te l’ho detto, non mi piacciono le grandi città.»

«Quindi mi stai dicendo che, se non torno in California, non ti potrò vedere.»

Robbie scrolla le spalle e si risiede, prendendo il controller della Playstation.

«Fai sul serio?» esplodo, iniziando a vedere rosso. «Mi sono fatta tutto il viaggio fino a casa per parlare del nostro futuro, e tu giochi a quel cazzo di Fortnite

Lui rotea gli occhi e avvia il gioco. «Smettila di rompere.»

«Oh, la smetterò», sbotto. «Non voglio vivere nel garage dei tuoi genitori, Robbie.»

«Allora non farlo.»

«Che problema hai?» grido in preda alla rabbia. «Perché vuoi marcire qui? Hai venticinque anni. Devi crescere.»

Lui alza gli occhi al cielo. «Se sei tornata qui solo per fare la stronza, non avresti dovuto disturbarti.»

Mi esce il fumo dalle orecchie. «Robbie, se esco da quella porta, tra noi è finita», gli dico. Mi guarda negli occhi. «Dico sul serio», bisbiglio. «Ti voglio nella mia vita, ma non sacrificherò la mia felicità perché tu sei troppo pigro per muovere il culo e crearti un futuro.»

Lui serra la mascella e torna al suo gioco, iniziando una partita.

Lo fisso tra le lacrime, sentendo i battiti furiosi del mio cuore nelle orecchie. «Ti prego», sussurro. «Vieni con me.»

Robbie rimane concentrato sullo schermo e comincia a sparare ai personaggi nel suo videogame. «Chiudi la porta mentre esci.» Si infila le cuffie per ignorarmi.

Ho un groppo in gola e finalmente vedo la nostra relazione per quello che è.

Una farsa.

Lancio una lunga occhiata alla sua stanza mentre lui gioca, e capisco all’istante cosa sta per succedere. Questo è il momento cruciale in cui devo capire quanto valgo e decidere cosa voglio dalla mia vita. Non posso salvarlo… se lui non lo vuole. Io voglio qualcuno che desideri crescere con me, anche se non so nemmeno di che crescita si possa trattare. Ma non posso più continuare a marcire qui, nel garage dei suoi genitori.

Non mi riconosco nemmeno più… ma questa non sono io.

Io sono la donna che vuole vivere a New York e ha ottenuto il lavoro dei suoi sogni.

La tristezza mi travolge. So cosa devo fare.

Mi avvicino a lui e gli tolgo le cuffie. «Io vado.» Mi fissa. «Sei migliore di così», sussurro. Lui serra i denti. «Robbie», bisbiglio. «Sei molto di più di un giocatore di football. Devi crederci.» Mi guarda negli occhi. «Trova qualcuno che possa aiutarti.» Osservo la sua stanza. «Anche se per noi ormai è troppo tardi, vorrei che lo facessi per te stesso.» Lui abbassa la testa e fissa il pavimento, così gli prendo una mano nella mia. «Vieni con me», mormoro. «Ti prego, Robbie, tirati fuori da questa situazione, se non per me, fallo per te.»

«Non posso, Em.»

Mi si riempiono gli occhi di lacrime e mi chino per baciarlo. Gli accarezzo la guancia ispida di barba e lo guardo in viso. «Trova una cosa qualsiasi che ti renda felice», bisbiglio.

«Anche tu», sussurra lui triste. Capisco che non vuole nemmeno opporsi, sa che è meglio così. Sorrido per un momento dolceamaro e lo bacio piano un’ultima volta, mentre le lacrime mi solcano le guance.

Entro nell’auto di mia madre e fisso a lungo la sua casa.

È stato molto più semplice e decisamente più difficile di quanto immaginassi.

Metto in moto la macchina e mi immetto in strada. Mi asciugo le lacrime con l’avambraccio, sentendo che un capitolo della mia vita si è appena chiuso.

Avanzo lungo la via, uscendo dalla vita di Robbie McIntyre. «Ciao, Robbie», dico ad alta voce. «Durante i momenti buoni, è stato fantastico.»

Lunedì mattina

«E cosa crede che succederebbe se raccontasse i suoi sospetti alla polizia?» chiedo.

«Niente. Niente di niente», risponde l’anziana e fragile signora. Deve avere almeno novant’anni. I suoi capelli bianchi sono acconciati in onde perfette e indossa un abito di una bella sfumatura color malva. «Sono inutili.»

Scrivo diligentemente la sua risposta sul taccuino. Oggi sono sul campo per seguire una notizia. Di recente, qualcuno ha cominciato a lasciare graffiti satanici sulle facciate di alcune case, e l’abitazione di questa donna è stata colpita tre volte. Esasperata dalla mancanza di supporto del dipartimento di polizia, ha contattato la Miles Media, e io sono stata la fortunata che ha risposto al telefono.

«Quindi… mi racconti quando è iniziato tutto», proseguo.

«A novembre.» Si interrompe, cercando di ricordare. «Il sedici di novembre è successo la prima volta. Un enorme murale del diavolo in persona.»

«Giusto.» Alzo lo sguardo dai miei appunti. «Che aspetto aveva?»

«La malvagità.» Le appare un’espressione distante negli occhi. «Pura malvagità, così realistico, con zanne enormi e sangue che grondava ovunque.»

«Deve essere stato terrificante per lei.»

«È così. È stato quando hanno rapinato la gioielleria all’angolo, quindi me lo ricordo bene.»

«Oh.» Mi acciglio. Non ne aveva parlato prima. «Crede che ci sia un collegamento?» La donna mi fissa senza comprendere. «Tra i graffiti e la rapina, intendo», chiarisco.

«Non lo so.» Si ferma per un momento e poi fa una smorfia come se ci stesse riflettendo. «Non ci ho mai pensato prima, ma ora tutto ha più senso. La polizia è coinvolta in questa cospirazione.» Inizia a camminare avanti e indietro. «Sì, sì, è così.» Si batte una mano in cima alla testa, aggirandosi per la stanza.

Mmh. Qui c’è qualcosa di strano. Questa donna è sana di mente?

«Che cosa ha fatto quando ha trovato i graffiti sulla sua casa?»

«Ho chiamato gli agenti, e loro mi hanno detto di non avere tempo per venire qui per dei murales, ma di fare una foto e inviarla per e-mail.»

«E lo ha fatto?»

«Sì.»

«E poi cos’è successo?»

«Mio figlio ha fatto fare un lavaggio con soluzione acida alla mia casa per rimuoverli, ma tre notti dopo è successo di nuovo. Quella volta era l’immagine di una persona che veniva uccisa, una donna pugnalata. Il murales era così complesso che sembrava un dipinto.»

«Oh.» Continuo a prendere appunti. «E quella volta che cosa ha fatto?»

«Sono andata alla stazione di polizia e ho preteso che qualcuno venisse a vedere la mia casa. Anche quella del mio vicino era stata vandalizzata.»

«Okay.» Scrivo la sua storia. «Qual è il nome del suo vicino?»

«Robert Day Daniels.»

Alzo lo sguardo dal taccuino, sorpresa dal nome. «Si chiama Robert Day Daniels?»

«O è Daniel Day Roberts?» Si interrompe mentre riflette. «Mmh.» La fisso, aspettando che decida qual è. «Non me lo ricordo.» Si infila le mani nei capelli, come se stesse per farsi cogliere da un attacco di panico.

«Va tutto bene. Per il momento scriverò Robert Day Daniels, e ci ritorneremo più tardi.»

«Sì, okay.» Sorride, compiaciuta che non stia insistendo per sapere il nome esatto.

«Cos’hanno disegnato sulla sua casa?» chiedo.

«Una di quelle orribili stelle del diavolo.»

«Capisco. Mi dica, cos’ha fatto la polizia quella volta?»

«Niente. Non sono nemmeno venuti a vederli.»

«Sono molto impegnati», la rassicuro mentre scrivo. «Mi racconti dell’ultima volta che è successo.»

«L’intera casa è stata verniciata di rosso.»

Alzo lo sguardo, sorpresa. «La casa era rossa?»

«Non solo la casa, tutta la strada.»

Sono assalita da un senso di disagio. «È strano.» Mi acciglio.

La donna si sporge verso di me, così che solo io possa sentirla. «Crede che si tratti del diavolo?» sussurra.

«Cosa?» Le sorrido. «No, probabilmente è solo opera di qualche ragazzino», dico, cercando di rassicurarla. «Ne ha parlato con qualcun altro?»

«No, solo con la Miles Media. Voglio che pubblichi questa storia in modo che la polizia le presti davvero attenzione. Comincio a temere che si tratti di qualcosa di più sinistro.»

Le stringo una mano. «Sì, credo di avere abbastanza materiale per scrivere l’articolo.»

«Oh, grazie, cara.» Mi afferra forte le dita.

«Le viene in mente altro che potrebbe essere rilevante?» le chiedo.

«Solo che vivo ogni notte nel terrore che torni il diavolo. I miei vicini hanno detto che può andare a parlare anche con loro.»

«Okay, fantastico.» Le porgo il mio biglietto da visita. «Se dovesse ricordare qualsiasi altra cosa, mi chiami, la prego.»

«Sì, lo farò.» Stringe con forza il biglietto.

Scendo in strada e intervisto altre sette persone, e tutte le storie combaciano. Ho abbastanza prove per andare avanti. Torno in ufficio per scrivere l’articolo al computer e consegnarlo a Hayden. Mi sembra una notizia interessante.

* * *

Sono seduta alla mia scrivania e fisso lo schermo del computer. Sono le quattro di lunedì e sono un po’ depressa. Da quando, ieri sera tardi, sono tornata a New York, sono sopraffatta dal senso di colpa. Pur sapendo che io e Robbie stavamo arrivando al capolinea, mi sento come se avessi accelerato il processo e non avessi permesso alla nostra storia di fare il suo corso. Ma, d’altronde, eravamo in quella situazione di stallo da mesi, e se ho accettato questo lavoro consapevole che lui non mi avrebbe seguita… è perché inconsciamente sapevo che eravamo vicini alla fine.

«Il dio è tra noi», sussurra Aaron.

Alzo lo sguardo. «Chi?»

«Tristan Miles», bisbiglia lui.

Sbircio da sopra il divisorio sulla mia scrivania e lo noto mentre parla con una responsabile di piano, Rebecca. Indossa un completo gessato blu scuro, i suoi capelli mossi e castano scuro sono scompigliati alla perfezione e ha un sorriso affascinante sul viso mentre parla. Ha i denti più bianchi che abbia mai visto e delle profonde fossette sulle guance.

«Rebecca sta ridacchiando come una scolaretta.» Aaron corruga la fronte.

«Non scende mai a questo piano», commenta Molly.

«Cosa credete che stia facendo qui?» sussurra l’altro, con lo sguardo incollato su quel magnifico esemplare di uomo.

«Il suo lavoro», replico impassibile. «Lavora qui, sapete.»

Più ci penso e più capisco di aver idealizzato tutta la faccenda con Jameson Miles. Io non gli piaccio. È solo arrapato. C’è una grossa differenza. Probabilmente avrà fatto sesso con altre cinque donne da quando abbiamo parlato venerdì sera. È da allora che non lo sento, né voglio farlo.

Non ho lasciato il mio ragazzo perché me lo ha ordinato lui, ma perché Robbie ha smesso di combattere per noi. Se Jameson venisse a sapere che ci siamo mollati, penserebbe che l’ho fatto perché voglio tornare a letto con lui… e non è così.

Non voglio assolutamente. Stupidi uomini.

Non dirò ai miei colleghi che ci siamo lasciati. Preferisco che non ne facciano un dramma. Mi serve un po’ di tempo per fare ordine tra i miei pensieri.

Tristan Miles dice qualcosa e Rebecca ride. Poi lui svanisce nell’ascensore, e torniamo tutti al lavoro.

* * *

Sto lottando con l’ombrello mentre avanzo lungo il marciapiede sotto la pioggia. New York è un po’ meno incantevole tutta bagnata. Aspettando che il semaforo cambi, prendo il Gazette e me lo infilo nella borsa. Lo leggerò mentre aspetto il caffè. Sento il telefono che squilla.

«Pronto, parla Emily Foster», rispondo, camminando a passo svelto tra la folla.

«Salve, Emily», dice una voce familiare.

Mi acciglio, non riuscendo a capire di chi si tratti. «Chi parla, scusi?»

«Sono Marjorie. Abbiamo parlato ieri.»

Oh, merda, la donna dei graffiti.

«Oh, sì, salve, Marjorie. La linea è disturbata, non riuscivo a sentirla bene», mento.

«È Danny Rupert», replica lei.

«Chiedo scusa?» mi acciglio.

«Il nome del mio vicino è Danny Rupert. Ieri non riuscivo a ricordarlo.»

Sobbalzo e faccio una smorfia. Oh Dio. Spero che l’articolo non sia già andato in stampa. Mi sono completamente dimenticata di cambiarlo. Il panico comincia a crescere dentro di me.

Merda.

«Credo che la storia sia già andata in stampa, Marjorie. Sono davvero dispiaciuta di non averlo ricontrollato con lei.»

«Oh, non c’è problema, cara. Non importa. Mi sentivo sciocca a non ricordarlo, per cui ho deciso di richiamarla.»

Mi si stringe lo stomaco in una morsa. Invece ha importanza. Non si sbagliano i nomi in un articolo. Sono le basi del giornalismo.

Cazzo.

Gonfio le guance e poi rilascio il fiato, travolta da un senso di delusione nei miei confronti. Dannazione. Non è un piccolo errore, è un grosso casino.

«Grazie per la telefonata, Marjorie. La richiamerò non appena sarò in ufficio per farle sapere quando l’articolo verrà pubblicato.» Con un po’ di fortuna, non sarà prima di domani, e io avrò il tempo per cambiare il nome.

Chiudo, maledicendomi internamente.

Dannazione. Rimani concentrata.

Entro nel bar di fronte al palazzo della Miles Media e ordino il mio caffè. Tiro fuori il giornale dalla borsa e lo sbatto sul tavolo.

Non riuscirò a tenermi il lavoro facendo errori grossolani come questo. Sono davvero irritata con me stessa.

Sfoglio il giornale, ma qualcosa cattura il mio sguardo.

Graffiti satanici a New York

Una serie di bizzarri attacchi a suon di graffiti sulle case del West Village ha gettato i residenti nel panico. L’abitazione di Marjorie Bishop è stata vandalizzata tre volte e la polizia si rifiuta di intervenire. Anche un altro cittadino, Robert Day Daniels, è stato colpito.

Aggrotto le sopracciglia, leggendo l’articolo.

Cosa?

Marjorie ha detto di non averne parlato con nessun altro oltre a me. Lo leggo e lo rileggo. La mia storia è citata quasi alla lettera, e a ogni rilettura sono sempre più confusa.

Che abbia detto lo stesso nome sbagliato a un altro giornalista? Tiro fuori il cellulare e compongo il suo numero. La donna risponde al primo squillo.

«Pronto, Marjorie, parla Emily Foster.»

«Oh, salve, cara. È stata veloce.»

«Marjorie, ha parlato di questa storia dei graffiti con qualcuno di un altro giornale?»

«No, cara.»

«Non lo ha detto a nessuno?» Mi acciglio.

«Nemmeno a un’anima. Con il vicinato abbiamo deciso che volevamo che solo la Miles Media scrivesse l’articolo. Così saremmo stati certi che la polizia ci avrebbe prestato ascolto.»

Inizio a sentire il cuore rombarmi nelle orecchie. Che diavolo sta succedendo?

«Un caffè per Emily», mi chiama il cassiere.

«Grazie.» Prendo il mio bicchiere ed esco di nuovo sotto la pioggia, confusa da morire.

* * *

È l’una e sono in pausa pranzo. Arrivo all’ultimo piano e attraverso la reception.

«Salve.» Sorrido nervosa. «Sono qui per vedere il signor Miles. È una questione urgente.»

Mi sono tormentata per tutto il giorno per la questione dell’articolo sul Gazette, e l’unica ipotesi che mi è venuta in mente non è bella. Devo parlarne con Jameson.

L’assistente bionda mi sorride. «Solo un momento, per favore. Il nome è…»

«Emily Foster.»

Preme un pulsante sull’interfono. «Signor Miles, c’è Emily Foster qui per vederla.»

«Mandala dentro», mormora la sua voce vellutata senza esitazione.

Mi sento sprofondare lo stomaco per l’ansia, e seguo la donna lungo il corridoio dal pavimento di marmo. Dannazione, non ho ancora comprato delle scarpe con la suola di gomma. Cerco di camminare in punta di piedi per non fare rumore mentre avanzo.

«Bussa pure alla porta in fondo.»

Porca miseria.

Il mio cuore comincia a battere all’impazzata, ma mi costringo a sorridere. «Grazie.»

L’assistente svanisce, e io mi fermo di fronte all’ufficio con gli occhi chiusi, per prepararmi.

Okay, eccoci qui.

Toc, toc, toc.

«Avanti», sento rispondere Jameson.

Serro le palpebre, tesa per il nervoso. Apro, e lui è seduto dietro alla scrivania, avvolto in un completo blu scuro. Con una camicia bianca, quei capelli scuri e i suoi penetranti occhi blu, sembra il dono di Dio alle donne. Forse lo è.

«Ciao, Emily», mormora, guardandomi con un’espressione seducente.

«Salve.»

Jameson si alza e mi osserva. Ci fissiamo a vicenda, e l’aria tra di noi si carica di elettricità. «Prego, accomodati.»

Mi lascio cadere su una sedia, e lui torna a sedersi alla sua scrivania, appoggiandosi allo schienale della poltrona, senza mai distogliere lo sguardo da me.

«Volevo vederti per un motivo ben preciso», dico, lanciando un’occhiata al bicchiere di scotch che ha accanto.

Non so che razza di impiego preveda l’alcol, ma dov’è il mio bicchiere? Avrei proprio bisogno di un drink in questo momento. O magari di dieci.

Jameson mi fa un sorrisetto, come se fosse divertito.

«Ehm.» Mi interrompo e cerco di scacciare la secchezza che avverto in gola. «Dunque, è successa una cosa, e so che potrei finire nei guai, ma credo che tu debba saperlo», confesso di colpo.

«Sarebbe?»

«Ho sbagliato un nome in un articolo.» Il suo sguardo poco colpito incrocia il mio. «Ma è stranissimo», balbetto. «Oggi il Gazette ha pubblicato la stessa storia… con dentro il mio errore.»

Lui si acciglia. «Cosa?»

«Senti, non lo so, e potrei sbagliarmi completamente, ma credo…» Mi interrompo.

«Credi cosa?» sbotta.

«L’unica cosa di cui sono certa è che quelli del Gazette non hanno ottenuto la storia da soli, ed è impossibile che abbiano fatto il mio stesso errore. La signora anziana che ho citato nell’articolo ha contattato direttamente me perché voleva parlare solo con la Miles Media.» Appoggio il giornale sulla scrivania di fronte a lui, e Jameson lo legge per poi fissarmi per un istante, come se stesse elaborando le mie parole.

«Ne sei sicura?»

«Al cento percento. Ho sbagliato il nome.» Indico il punto con il mio errore. «Questo qui è il mio sbaglio.»

Jameson si passa il pollice sul labbro inferiore, guardando pensieroso il giornale di fronte a sé. «Grazie. Ne parlerò con Tristan e ti farò sapere.»

«Okay.» Mi alzo. «Mi dispiace per l’errore. Non è stato professionale e non succederà più.» Sposto lo sguardo su di lui, e aspetto che dica qualcosa. Abbiamo già finito?

«Arrivederci, Emily», mi saluta, impassibile.

Oh, mi sta congedando.

«Arrivederci.» Mi volto, avvilita, e torno al piano di sotto. Non so se ho fatto la cosa giusta esponendogli la mia teoria. Forse la mia scelta si rivolterà contro di me.

* * *

Sono le quattro e sto bevendo il mio caffè pomeridiano. Mi squilla il telefono e io rispondo. «Pronto.»

«Pronto, Emily, sono Sammia. Il signor Miles vorrebbe vederti nel suo ufficio, per favore.»

Mi acciglio. «Ora?»

«Sì, per favore.»

«Okay. Salgo subito.»

Dieci minuti più tardi, sto bussando alla porta di Jameson. «Avanti», mi dice.

Entro e lo trovo seduto dietro la sua grande scrivania. Non appena incontra il mio sguardo, sul suo viso appare un sorriso sexy.

«Ciao.»

Il mio stomaco si stringe in una morsa per il nervoso. «Ciao.»

«Hai passato una bella giornata?» mi chiede, e io lo guardo umettarsi il labbro inferiore come al rallentatore. È diverso da questo pomeriggio. Ha un atteggiamento giocoso.

«Volevi vedermi?» gli chiedo.

«Sì, ho parlato con Tristan, e abbiamo un progetto speciale su cui vorremmo che lavorassi», dice, reclinando all’indietro lo schienale della poltrona.

«Davvero?»

«Sì. Vorremmo che scrivessi un articolo da pubblicare.»

Deglutisco il groppo che ho in gola. «Okay.» Faccio spallucce. «Su cosa deve essere?»

Jameson socchiude gli occhi mentre riflette. «Stavo pensando… a qualcosa sui morsi d’amore.»

Aggrotto le sopracciglia, perplessa. «Morsi d’amore?»

Per un istante gli appare sul volto un’espressione divertita, come se si stesse sforzando per rimanere serio. «Proprio quelli.»

Lo fisso per un momento, in preda alla confusione. Non capisco.

Oh mio Dio.

Sta parlando del succhiotto che gli ho fatto. Che sfacciato. È proprio da lui ritirare fuori quella storia.

Sollevo la testa con aria di sfida. «Credo che scrivere un articolo sull’eiaculazione precoce sarebbe più nelle mie corde. Così potresti aiutarmi», replico.

Gli brillano gli occhi, deliziato. «È così?»

«Sì», rispondo, seria. «È sempre meglio quando le notizie sono supportate da prove.»

Il divertimento gli attraversa il viso mentre sorseggia il suo drink. Non ho idea di cosa abbia per la testa questo pomeriggio. Forse ha bevuto troppo scotch. Ci fissiamo a vicenda, e io vorrei domandargli: “Pensi mai a me?”, ma non posso perché questo è lavoro e soprattutto perché mi sto fingendo disinteressata. Anzi, riformulo: non sono affatto interessata, solo vagamente affascinata. C’è un’enorme differenza.

«Come è andato il weekend?» mi domanda.

«Bene.»

Solleva un sopracciglio. «Solo bene?»

Annuisco. «Sì.» Non voglio dirgli che io e Robbie ci siamo lasciati, ma non voglio nemmeno mentirgli.

«Sei tornata domenica notte?»

«Sì.»

Incrocia il mio sguardo, e capisco che vorrebbe sapere di Robbie e me, ma che si sta trattenendo dal domandarmelo.

«Come è stato il tuo weekend, invece?» gli chiedo.

«Fantastico», risponde, abbassando gli occhi sulle mie labbra. «Ho passato uno splendido fine settimana.»

Mi acciglio. Fantastico significa genericamente buono oppure “Ho fatto sesso bollente con una donna splendida e sexy per tutto il weekend”?

Smettila.

«Chiedo scusa», esordisce Tristan, entrando nella stanza. Mi fa un caloroso sorriso e mi stringe la mano. «Sono Tristan.» È poco più giovane di Jameson e ha i capelli leggermente mossi e castani chiari. I suoi occhi sono grandi e marroni. È molto diverso dal fratello, ma trasmette lo stesso senso di potere.

«Sono Emily.»

Sostiene il mio sguardo. «Salve, Emily.» Lui e Jameson si scambiano un’occhiata, e in quel momento capisco che sa dei nostri trascorsi. Deglutisco il groppo nervoso che ho in gola.

Perché avrebbe raccontato a suo fratello di me?

Tristan abbassa lo sguardo sullo scotch di Jameson. «Che ore sono? È già iniziato l’happy hour?»

«Le quattro e mezza, e sì», replica lui.

L’uomo più giovane va al bar per versarsi lo stesso liquido ambrato. Solleva il bicchiere. «Gradiresti un drink, Emily?»

«No, grazie. Sto lavorando», rispondo, un po’ nervosa.

Mentre Jameson si porta lo scotch alle labbra, sul suo volto appare un lampo di divertimento. Okay, che diavolo era quell’espressione? Un ghigno accondiscendente o quasi un sorriso? Non riesco proprio a capire quest’uomo.

Jameson rimane seduto immobile e mi guarda. Ci fissiamo a vicenda, e l’aria tra di noi si carica di elettricità.

«Volevate vedermi?» domando.

Non so che razza di riunione preveda lo scotch. Forse avrei dovuto accettare un bicchiere.

Dio, no. Ricordati cosa hai fatto l’ultima volta che ti sei ubriacata con lui. Hai cercato di succhiargli via tutto il sangue.

«Come stavamo dicendo poco fa, abbiamo un progetto speciale su cui vorremmo che lavorassi», risponde Jameson.

Annuisco, facendo slittare lo sguardo tra i due uomini.

«Sì. Alla luce di ciò che mi hai detto questa mattina, vorremmo che scrivessi un articolo da pubblicare.»

Deglutisco per schiarirmi la gola. «Okay.» Li guardo entrambi. «Su cosa?»

«Proponi tu un argomento.» Jameson tira fuori la lingua per umettarsi il labbro inferiore, e io avverto una scossa che mi fa rabbrividire fino alla punta dei piedi. «Stiamo lavorando a un progetto segreto e vorrei coinvolgerti, ma devo sapere se sei in grado di scrivere un articolo.»

«Sai che posso. Ho lavorato cinque anni come reporter per dei giornali regionali.»

«È strettamente confidenziale», interviene Tristan. «Non puoi parlarne con nessuno. È fondamentale.»

«Non lo farò», replico, guardando prima l’uno e poi l’altro.

«È da un po’ che crediamo che qualcuno al tuo piano stia vendendo le nostre storie alla concorrenza, perché le pubblichi prima di noi. Quello che ci hai detto questa mattina ne è la conferma.»

Mi acciglio. «Come fate a saperlo?»

«Fidati di me, lo sappiamo e basta», risponde Jameson. «Le nostre azioni stanno crollando, e così la nostra credibilità. Questa faccenda deve finire.» Li ascolto con la fronte aggrottata. «Vogliamo che inventi una notizia falsa e la invii tramite i soliti canali, così vedremo se apparirà sulle riviste della concorrenza.»

Lo fisso, cercando di costringermi a tenere il passo. «Di cosa dovrei scrivere?»

«Di qualcosa che valga la pena di essere venduto. Non deve essere vero. Più finto è e meglio sarà, così sarà più facile da seguire.»

«Chi credete possa essere?» domando, attraversata da una scarica di entusiasmo. Questa è la mia occasione. Se lavoro bene, posso dimostrare di essere una dipendente valida. E se risolvessi il caso? Mi mordo il labbro inferiore per nascondere un sorriso. Devo comportarmi come se eventi emozionanti come questo mi capitassero ogni giorno.

«Non ne abbiamo idea, ma sappiamo che non sei tu.»

«E come mai?»

«Perché questa faccenda è iniziata prima che ti assumessimo», risponde Jameson, alzandosi e dirigendosi verso il bar.

«Okay.» Rifletto per un momento. «Posso farlo.» Li guardo entrambi. «Per quando volete l’articolo?»

«Per domani pomeriggio, se possibile.»

«Va bene.»

Una voce emerge dall’interfono. «Tristan, hai Londra in linea sulla due.»

Lui si alza e preme un tasto. «Dammi un momento per tornare nel mio ufficio.»

«Okay», replica l’assistente.

«Scusate, devo rispondere. Ci stiamo accordando con una nuova compagnia. Riprenderemo il discorso domani pomeriggio.»

«Certo.» Gli sorrido. Oh, mi piace. È più amichevole di suo fratello.

Mi stringe la mano. «Ricorda, non una parola con nessuno. Detesterei doverti licenziare.» Mi fa un occhiolino divertito, ma qualcosa mi dice che non sta scherzando.

Mi acciglio.

Ma che cavolo?

«Okay.»

«Non vedo l’ora di leggere il tuo articolo», conclude. Si gira per lasciare l’ufficio e si chiude la porta alle spalle.

Mi volto verso Jameson. I suoi occhi sono cupi e lui ha in mano il bicchiere di scotch. Sorseggia lentamente il liquido all’interno, e io gli sorrido nervosa, con il cuore che batte all’impazzata. Mentre ne beve un altro sorso, solleva un sopracciglio. La tensione tra di noi è palpabile nell’aria.

«Dovrei tornare alla mia scrivania», bisbiglio.

Lui tiene lo sguardo fisso su di me come se volesse dire qualcosa, ma rimane in silenzio.

«C’è altro che posso fare?» mormoro, alzandomi.

Jameson appoggia il suo bicchiere sul tavolo e si incammina verso di me. «Sì, in effetti. Qualcosa ci sarebbe.»

Si ferma davanti a me, a meno di un centimetro dal mio volto, e io alzo lo sguardo su di lui. La sua vicinanza mi toglie il respiro, e, come un’onda nell’oceano, l’eccitazione monta tra di noi.

«Lo riesci a sentire?» sussurra.

Annuisco, perché è innegabile.

«Sono così sessualmente attratto da te che lo trovo quasi assurdo», bisbiglia. «E lo sono dal primo momento in cui ti ho vista su quell’aereo.»

Lo fisso, immaginandolo mentre mi getta sulla sua scrivania.

Lui mi fa scorrere l’indice lungo il viso, fino al centro del petto, tra i miei seni e poi più in basso, sul mio stomaco, sfiorandomi l’osso pubico prima di appoggiare la mano sul mio fianco.

«Ho una richiesta.»

«Sì.» Chiudo gli occhi, sentendomi sciogliere sotto il suo tocco.

Lui si sporge verso di me fino a quando le sue labbra arrivano quasi a toccarmi un orecchio. Il suo respiro mi fa il solletico e mi manda una serie di brividi giù per la schiena.

«Voglio che domani indossi la gonna grigia, quella con lo spacco.»

Aggrotto le sopracciglia, ascoltando le sue parole sussurrate.

«La camicetta di seta bianca e quel reggiseno di pizzo che porti sotto.»

Porca puttana…

«Niente calze.» Mi stringe il fianco, e il mio sesso si contrae. Mi lecca l’orecchio. «Voglio che ti raccogli i capelli in una coda, perché io possa avvolgermela attorno a una mano.»

Ho una visione di lui che stringe la mia chioma tra le dita e rischio di prendere fuoco.

Quest’uomo è un dio.

Lo fisso. «Qualcos’altro?» ansimo.

«Sì.» I suoi occhi si incupiscono e alza una mano per strofinarmi l’indice sul labbro inferiore. «Questa notte, voglio che tu prenda il tuo vibratore.» Ha una voce profonda e bassa, che mi fa sentire dentro delle cose che non credevo possibili. Sgrano gli occhi quando lui fa dischiudere delicatamente le mie labbra con il dito. Poi me lo spinge in bocca, e io mi ritrovo a succhiarlo. Mentre mi guarda, gli si dilatano le pupille e un sorriso sexy gli appare sul viso. «Voglio che ti scopi. A lungo… lentamente e profondamente.»

Oh… Signore, abbi pietà.

«Perché dovrei farlo?» Espiro in modo brusco.

«Perché so che quando verrai vedrai il mio volto.» Si china e mi accarezza il collo con la lingua, per poi mordicchiarmi l’orecchio. Le mie gambe minacciano di cedere. «Fai i tuoi compiti e verrai ben ricompensata», mi sussurra prima di baciarmi la gola.

Sono come argilla tra le sue mani. Non posso nemmeno fingere di oppormi a tutto questo… qualsiasi cosa questo sia. Mi sfiora le labbra con le sue, ma poi indietreggia e il mio corpo sobbalza per quella lontananza improvvisa. Lo fisso, ansimante.

«Fai i tuoi compiti, Emily. Ci vediamo domani.»

Lo guardo per un momento, mi sta congedando.

Quando Jameson si volta per tornare a sedersi alla sua scrivania come se niente fosse accaduto, mi acciglio. Lui solleva il suo scotch e lo sorseggia, sostenendo il mio sguardo. Poi fa scivolare una chiave di sicurezza sul tavolo. «Con questa potrai accedere al mio piano.»

Oh. Che cavolo è stato?

Afferro la chiave e lascio il suo ufficio in preda all’agitazione. Entro nell’ascensore con il cuore che rischia di esplodere da un momento all’altro.

Cristo santo. Ho bisogno di ritrovare un po’ di autocontrollo, e devo farlo in fretta.

Perché per ora il controllo della situazione lo ha tutto lui.