Negli anni trascorsi da Beethoven a Bonn, prima del trasferimento a Vienna nel 1792, progetti di sinfonie sono documentati da schizzi e abbozzi riferibili agli anni 1788-90; cosa ben naturale, dato il prestigio goduto dal genere sinfonico e il desiderio del compositore non ancora ventenne d’impadronirsene e praticarlo; proprio negli stessi anni Mozart scriveva a Vienna i suoi capolavori sinfonici dell’agosto 1788. Gli studiosi dei quaderni di lavoro di Beethoven, a cominciare dal loro pioniere Gustav Nottebohm, informano che il tema del finale della Prima sinfonia era stato previsto per il primo movimento di una sinfonia in Do lavorata intorno al 1795-96 ma rimasta incompleta; anche altri spunti annotati in questi quaderni confluiranno più tardi nella Prima sinfonia.
Ma, una volta a Vienna, il giovane Beethoven appare riluttante a presentarsi alla ribalta come sinfonista e tende a ritardare il passo; atteggiamento analogo verso il quartetto d’archi, altro genere che a Vienna incuteva timore per gli stessi motivi. Così i primi lavori compiuti e inseriti a catalogo da Beethoven, anche se certo ricavati da materiali precedenti, sono i Trii op. 1 per pianoforte, violino e violoncello del 1793-94, le Sonate per pianoforte op. 2, messe a punto nel 1795 in vista della pubblicazione l’anno successivo, e le due Sonate per violoncello e pianoforte op. 5 del 1796. Come si vede, è costante la presenza del pianoforte, lo strumento nell’esercizio del quale non temeva confronti di sorta e che costituiva la base sicura per avviare una carriera di concertista: sopra i due Concerti per pianoforte e orchestra op. 19 e op. 15 (rispettivamente del 1795 e del 1800) c’erano i supremi modelli di Mozart, che però era uscito di scena lasciando libero un campo in cui Haydn aveva speso poco. Negli stessi anni, Beethoven schiva con astuzia il confronto col quartetto d’archi: nell’op. 3 gli archi sono tre, nell’op. 4 cinque; l’immagine del giovane Beethoven che a Vienna si fa largo con l’irruenza dei giovani va un po’ ritoccata pensando a questa prudenza, o accortezza, nel tenersi a distanza dai modelli dei padri deputati. Per quanto ne sappiamo, salve altre cause, possiamo supporre che Beethoven, già affermato maestro di musica da camera, abbia dilazionato la messa a punto di una sinfonia in piena regola fino a quando era sicuro di avere capacità e mezzi degni di un’opera che doveva apparire nella stessa arena delle sinfonie di Haydn e Mozart.
Il periodo decisivo per la gestazione della Prima sinfonia è il 1799 e prosegue nei primi mesi del 1800, per arrivare in tempo alla prima esecuzione pubblica del 2 aprile 1800, nel corso di un’accademia da tenere al Teatro di Porta Carinzia. Non è impossibile che a far decidere Beethoven a uscire allo scoperto fosse intervenuto un suggerimento di Gottfried van Swieten, cui la Sinfonia op. 21 è dedicata nell’edizione a stampa uscita nel dicembre 1801 presso l’editore Hoffmeister: figlio del medico personale di Maria Teresa, il barone van Swieten era cresciuto a Vienna studiando diritto e coltivando interessi musicali, poi sviluppati a Berlino: dove restò sette anni frequentando la cultura musicale superiore della città, Marpurg, Quantz, Carl Philipp Emanuel Bach; tornato a Vienna, si dedicò a diffondere il verbo di Bach (il padre, il grande Johann Sebastian) e di Händel, cointeressando i suoi protetti Haydn e Mozart. Probabilmente non aveva piena nozione della vastità e complessità del genio di Bach e di Händel, che considerava meri modelli di stile severo; ma Haydn e Mozart intuirono più di lui, e con l’innestare le vecchie energie del contrappunto nelle partiture moderne innescarono un processo di passione intellettuale che avrà anche in Beethoven uno dei suoi seguaci. Quindi suona bene che il nome di van Swieten compaia come dedicatario sul primo gradino delle Sinfonie di Beethoven; il quale, per altro, fece ancora in tempo a partecipare a quelle agapi di musica antica in casa del barone suonando preludi e fughe dal Clavicembalo ben temperato che conosceva a memoria dai tempi di Bonn.
Che Beethoven avesse la possibilità di organizzare una serata tutta per sé in un teatro imperiale è segno indubitabile delle buone relazioni da lui intrattenute con le grandi famiglie della nobiltà e dell’alta borghesia; ma ancora di più è la riprova della buona fama e ormai della popolarità che lo circondava nell’ambiente musicale viennese, di cui rappresentava l’uomo nuovo: insomma, Beethoven era già lui, per maturità e riconoscimento pubblico, quando scrive la Prima sinfonia.
Nel 1796 si è fatto conoscere a Praga, a Berlino e nel Nord della Germania con un lungo giro di concerti; nello stesso anno l’«Annuario musicale di Vienna e Praga» («Jahrbuch der Tonkunst von Wien und Prag»), in un articolo a firma di Johann Ferdinand von Schönfeld, lo qualifica già «un genio musicale», in mezzo a quarantadue compositori fra cui Haydn; il riferimento principale va forse al pianista e improvvisatore, ma non è esclusa l’attenzione anche al compositore. Tutti gli editori gli aprono le porte e Beethoven non si fa pregare; in pochi anni si afferma come artista indipendente, libero impresario di se stesso, anche se sostenuto dalla nobiltà locale: con cui ha legami sopra tutto di amicizia, perché quello che conta è che Beethoven scrive solo ciò che vuole, libero da qualsiasi committenza precisa.
Come già accennato, dove c’è il pianoforte Beethoven è più avanti, più audace, più originale e personale: alla data del 1800 ha già scritto dodici sonate, fra le quali la sonata Patetica op. 13, in cui il primo movimento si scrolla già di dosso ogni traccia di quel Settecento che nella Prima e Seconda sinfonia sorride ancora. Ma anche lasciando da parte la Patetica, le pagine contigue o di poco precedenti la Prima sinfonia hanno più carattere, sono tratteggiate in modo più rapido e disinvolto: come le Sonate op. 10 o il Concerto in Do maggiore op. 15, almeno nel primo movimento decisivo per sbloccare la sinfonia. È da ricordare che Beethoven usava lavorare contemporaneamente a gruppi di opere diverse, per concluderne poi una al momento buono; tanto più si vede la differenza quando c’è di mezzo il pianoforte: perfino un’opera minore come le Variazioni su Une fièvre brulante dal Richard Cœur-de-Lion di Grétry, pubblicate nel 1798, presenta nella coda un salto tonale (b. 65), con relativa espansione di orizzonte armonico, che analogo non si troverà nella scrittura sinfonica prima dell’Eroica. Comunque sia, affacciandosi alla data del 1800, Beethoven si decide a farsi avanti anche nei generi più solenni o riservati: la Prima sinfonia, i sei Quartetti op. 18, il Terzo concerto per pianoforte op. 37: con quest’ultimo, veramente, abbiamo già scavalcato il mondo espressivo della Prima sinfonia; per tornarci bisogna fare un passo indietro, incominciando a riferire il programma completo del concerto del 2 aprile 1800.
La serata era composta così: una «grande sinfonia del compianto maestro di cappella Mozart» (non si sa quale sinfonia), un’aria dalla Creazione di Haydn, un Concerto per pianoforte suonato e composto da Beethoven, il Settimino di Beethoven, un duetto sempre dalla Creazione di Haydn, improvvisazioni al pianoforte di Beethoven, infine ancora «una nuova grande sinfonia per grande orchestra composta da Ludwig van Beethoven». Nella scelta spicca il triangolo perfetto della Wiener Klassik, Haydn-Mozart-Beethoven: l’augurio del conte Waldstein, che alla partenza di Beethoven da Bonn aveva auspicato per lui di ricevere lo spirito di Haydn dalle mani di Mozart, sembra divenuto una verità biografica. Il corrispondente viennese della «Allgemeine musikalische Zeitung» di Lipsia (forse la più importante rivista musicale del secolo), dopo averne lodato la novità e la ricchezza di idee, osservò un eccessivo uso degli strumenti a fiato, tanto da dare l’impressione di ascoltare, più che una partitura destinata all’orchestra completa, una «Harmonie», vale a dire una musica per soli fiati (Kunze 1987).
Il problema critico della Prima sinfonia è quello di poter essere considerata dimenticando per un momento la serie delle Sinfonie che seguiranno; i confronti più appropriati non sarebbero da fare con le successive Sinfonie, ma con i lavori contigui: già sappiamo che il pianoforte galoppa sempre avanti, e invano si cercherà nella Sinfonia op. 21 lo slancio imperioso e l’originalità della Sonata op. 22; ma rispetto alla semplice cordialità del Settimino op. 20, che peraltro venne presto a fastidio a Beethoven, la sinfonia è più «composta», organizzata con più fermezza e fantasia: scrivendo all’editore Hoffmeister nel gennaio 1801, Beethoven precisa che, pur non facendo differenza di prezzo per motivi di smercio fra sonata, settimino, sinfonia, ritiene «indiscutibile che una sinfonia debba valere di più». L’analogia più forte è forse con il Concerto op. 15 in Do maggiore, specie con il primo movimento, per la materia tematica fredda, omogenea, nella cui durezza le linee si stampano con rigore geometrico. Percepire poi una presenza di Mozart e Haydn, ovvero una eredità settecentesca, è un passo scontato quanto inevitabile; nelle carte di lavoro, embrioni tematici richiamano apertamente motivi mozartiani, come spore diffuse per l’aria, e sarebbe inutile pedanteria elencarli.
La sinfonia muove da un Adagio molto introduttivo, un uso di incominciare alla lontana abbastanza comune in Haydn e al quale anche Beethoven restò fedele: su nove Sinfonie quattro si aprono con una introduzione in tempo moderato; invece i Quartetti op. 18 incominciano tutti con il consueto Allegro, mentre nelle Sonate per pianoforte non ci sono introduzioni lente fino alla Patetica op. 13. Evidentemente, il preambolo introduttivo è un altro segno dell’importanza attribuita al genere sinfonico: si sente il bisogno di un pronao, di una certa solennità accademica di cui fanno invece a meno altri generi cameristici. Beethoven accetta la convenzione, solennizzando l’esordio con una sorta di portale, ma poi si riprende l’autonomia con un gesto di originalità voluta, se non di bizzarria: l’Adagio introduttivo non parte dalla Tonica, in Do maggiore, ma da un accordo di settima dominante di Fa maggiore, cioè da un composto armonico marginale al quadro fondamentale: nel quale rientra tuttavia dopo un circuito di poche battute. Si dice spesso che questa novità contro corrente avrà colpito le orecchie dei contemporanei; ma cosa sappiamo di quelle orecchie? Assai poco, perché da allora le abitudini di ascolto devono essere assai cambiate, stando a un recensore del 1805 che scrive sulla «Berlinische Musikalische Zeitung» che quello strano inizio è ben degno del genio di Beethoven, ma «non si adatta all’apertura di un grande concerto nella vastità di un teatro d’opera»: riserva che indica una sensibilità di percezione oggi quasi irrecuperabile.
Comunque sia, per il comune ascoltatore non è avvenuto nulla che possa impedirgli di godersi questa bella introduzione, con lo spazio comodo in cui si piazzano le piene sonorità dei fiati a contrasto con i pizzicati degli archi. Inoltre, il fatto che lo stesso percorso armonico (arrivare al Do passando per la dominante di Fa) ritorni intorno agli stessi anni nell’ouverture per il balletto Le creature di Prometeo op. 43 suggerisce che Beethoven non lo riteneva qualcosa che dovesse sconcertare o impegnare in modo particolare l’ascoltatore. Siamo molto distanti dall’introduzione lenta della Sinfonia K 425 di Mozart, una delle sinfonie che con più frutto possono essere confrontate con la Prima di Beethoven; le diciannove battute introduttive di Mozart sono piene di fermenti e di impulsi melodici contrastanti, mentre l’armonia scava in un terreno inquieto. Molto diverso il giovane Beethoven, che in quell’esordio ci mette il volto schietto e aperto della buona volontà; quello che conta in lui è il senso di luogo alto, di tempietto neoclassico, che circola in quelle battute piane e distese.
L’analogia con l’ouverture delle Creature di Prometeo si ripresenta anche nel tema dell’Allegro con brio: nell’ouverture del balletto la stessa materia armonica si scioglie in un rincorrersi di scale veloci, mentre nella sinfonia si rapprende in un gesto cadenzale ripetuto con insistenza (bb. 13-16). È come un sigillo, breve e adatto al lavoro tematico di una sinfonia, seguito da cinque note di un arpeggio ascendente (bb. 16-17), come in quelle figurazioni che i maestri di Mannheim chiamavano Raketen (razzi): un particolare che ci indica quanto Beethoven possa ancora servirsi dei più vecchi schemi settecenteschi. Questo tema principale, tutto nervi e ossa, è comune farlo risalire a una tipologia «francese» di normale circolazione nell’epoca pre e post-rivoluzionaria, una corrente che in modo più o meno segreto scorre nelle Sinfonie di Beethoven fino alla Nona. Si tratta di un tipo musicale che predilige la tonalità più semplice di Do maggiore, l’andamento di marcia dai ritmi squadrati, gli intervalli melodici ascendenti di quarta e quinta dal carattere incoativo: parentele e somiglianze con il nostro tema sono state indicate (Arno Forchert, in Interpretationen 2009, p. 173) nell’ouverture della Journée de Marathon di Rodolphe Kreutzer e nell’ouverture del Sylvain di Grétry: un opéra-comique rappresentato a Bonn nel 1771 con il nonno e il padre di Beethoven fra i protagonisti: in genere, musica che sembra stare in riga o sull’attenti, pronta a mettersi in marcia.
Quando, dopo i consueti convenevoli, il secondo tema passa al fagotto e ai bassi in passeggera tonalità minore (bb. 77-81), per un attimo il quadro sereno si adombra, una nuvola passa, mentre oboe e fagotto si mettono a dialogare fra loro: che sprezzatura, che voltafaccia; nessun dubbio che la lezione di Mozart sia stata assorbita appieno, la lezione dell’antirettorica, dell’analisi e della densità rapprese in poco spazio. Alla sezione centrale dello sviluppo partecipano diligentemente i due temi, il principale sopra tutto e il secondario; ma il primo piano va anche alla figura che abbiamo chiamato Rakete, l’arpeggio ascendente, sfrecciante come una fusetta che dà slancio al movimento modulatorio (bb. 122-136). I temi del primo movimento non saranno nulla di eccezionale, ma sono perfettamente adatti al «lavoro tematico»: cioè a quella riflessione, impegnativa e costante come un lavoro, nei confronti di tutti i dati, anche minimi, della propria inventiva; è l’aspetto artigianale della forma sonata, è l’altra grande lezione, accanto a quella mozartiana: quella della frugalità di Haydn, del fare molto con poco.
Dal punto di vista della vicenda armonica dello sviluppo è stata notata una somiglianza con la sezione analoga nella Sinfonia K 551 di Mozart, la famosa Jupiter; mettendo i testi vicino, sembra probabile che Beethoven avesse studiato il passo corrispondente di Mozart, seguendolo nei mobili, rapidi spostamenti di tonalità: si è però limitato alla cornice esterna, come non volesse lasciarsi influenzare troppo da un modello che metteva soggezione. Alla fine della ripresa il movimento è suggellato da una coda (b. 260), dove emerge un particolare sonoro già presente prima, ma qui portato avanti in piena luce; è forse l’unico elemento in cui Beethoven «sfora» rispetto a Haydn e Mozart con autorità propria: l’éclat timbrico di trombe e timpani, che, specie nelle cadenze finali, emerge con la lucentezza di una «musica militare» a cui resta poco di settecentesco; un particolare di contorno, ma con quegli appoggi squadrati ad angolo retto sulla tonalità di Do, «democratici» verrebbe da dire, rivelativo di una nuova sensibilità.
Nell’Andante cantabile con moto, il «con moto» toglie tentazioni contemplative al primo movimento lento nelle Sinfonie di Beethoven. In generale, il clima di introspezione connesso all’indicazione adagio, alla pulsazione della massima lentezza, è congeniale al terreno più personale delle sonate per pianoforte; nelle Sinfonie, a parte la Marcia funebre della Terza sinfonia, l’indicazione adagio appare solo nella Quarta e nella Nona, essendo più comune l’andante, il moderato, l’andante mosso; come qui dove, inoltre, c’è qualcosa del Settecento agghindato, con raffronti e riverenze fra legni e archi che ricordano il clima di socievoli serenate. Il ritmo ternario, il disegno melodico a entrate fugate dei vari gruppi hanno fatto parlare spesso di una derivazione dalla pagina analoga (Andante) della Sinfonia K 550 di Mozart; certo Beethoven la conosceva bene, ma l’affinità è solo figurale, perché nell’Andante della Prima sinfonia ricorre un tono galante, un desiderio di piccole originalità (come la combinazione di timpani e trombe: strumenti assenti nella Sinfonia K 550) e talvolta il desiderio di qualche strizzatina d’occhi che si allontana radicalmente dalla suprema severità di quella pagina mozartiana. Beethoven si tiene su un livello più comune di gradevolezza, ma non rinuncia a singole uscite allo scoperto; come nella ripresa (b. 101), quando i violoncelli accompagnano i violini secondi con una figura in pianissimo che si dilegua verso il basso, con qualcosa della birichina vivacità del violoncello solo alla fine di «Batti, batti, bel Masetto» nel Don Giovanni. Ma sopra tutto vale insistere ancora sul colore timbrico, nella fase cadenzale, di timpani e trombe in pianissimo (bb. 53-61): un colore attenuato, di probabile origine gluckiana, ben noto a Mozart che lo usa nella Sinfonia K 425, al secondo movimento Poco adagio.
Come terzo movimento della sinfonia appare il Minuetto, o Menuetto (alla francese), antica danza imprestata dalla Suite che attraversa in sostanza senza modificarsi il crogiolo della Wiener Klassik. I rapporti di Beethoven con questo tipico residuo di Settecento sono molteplici e riemergono saltuari in tutta la sua carriera; nelle Sinfonie, come nelle sonate e in altre forme strumentali, la velocità con cui Beethoven dapprima lo intende, dà a questo movimento il carattere di uno Scherzo, anche se talora gli resta ancora il nome di Minuetto; la forma per altro è la stessa, e assai rigida: una prima parte divisa in due sezioni ma con un solo tema, e una seconda detta Trio (perché in origine, ma non più con Haydn, Mozart e Beethoven, era realizzata da tre strumenti soli); segue la ripetizione alla lettera della prima parte.
Il Menuetto della Prima sinfonia (Allegro molto e vivace) è subito preda di una energia ritmica per la quale il termine «minuetto» suona superato; ma se per la velocità potrebbe essere Scherzo, per l’economia di linee e la regolarità metrica potrebbe far pensare piuttosto a un «minuetto velocizzato». Naturalmente Beethoven ha già scritto scherzi aerodinamici in pagine cameristiche, ma passando alla sinfonia preferisce conservare il vecchio nome, come se la forma sinfonica esercitasse una sorta di calmiere sulle novità; comunque sia, lasciando le questioni di definizioni che dicono poco, è lo Scherzo della Sonata per pianoforte op. 2 n. 3 la cosa più vicina alla nostra pagina; riconoscendo al pianoforte il primato dell’effervescenza, l’impeto è lo stesso, la rapidità toglie al Menuetto ogni gesto o fronzolo superfluo; a ripensarci, lo spirito della vecchia danza era più presente nell’Andante precedente, qui sostituito dall’accalorata accelerazione del movimento. Il tema sale di corsa per due ottave e le armonie cambiano in poche battute dal Do maggiore di base al lontano Re bemolle; il ritorno a casa, con la risalita cromatica in pianissimo di violoncelli e bassi cui rispondono oboe e fagotto (bb. 34-44), sono due tratti di penna che bastano a dar luce a tutto l’episodio. Il trio intermedio porta molto Haydn con sé: come in una danza costumata, i fiati si schierano dirimpetto agli archi, avanzando e poi bloccandosi in modo che gli archi possano tracciare le loro veloci evoluzioni; la simmetria dura ancora un po’, poi le figure si mescolano, anche col rumoroso intervento del timpano, ricomponendosi nella ripresa del Menuetto.
In capo al finale ricompare un Adagio introduttivo che tanto sorprese i primi ascoltatori da indurre alcuni direttori a sopprimerlo; si tratta di sei battute in cui i violini sembrano realizzare in una scala ascendente la pantomima di una concentrazione prima dello slancio, o dell’abbattimento di un ostacolo: qualcosa di apertamente teatrale, per dare importanza all’attacco dell’Allegro molto e vivace che spicca il volo dall’ultimo gradino della scala. Come già ricordato, questo finale è il pezzo che era stato sbozzato per primo, come primo movimento di un’altra sinfonia rimasta interrotta; è organizzato in una forma sonata ordinata e diligente, senza particolari elaborazioni; ma ascoltandolo sembra un rondò, per lo spiccato carattere di rondò del suo tema principale, e al rondò si pensa anche per l’accortezza con cui sono intessuti i suoi ritorni periodici. Poche volte Beethoven è stato così vicino a Haydn come in questa pagina pervasa di serenità: il tema sorridente va a concludere la sua corsa in festosi motivi di marcia, con totale soddisfazione di ottoni e timpani; il tema secondario (b. 56) ha qualcosa di un tema di vaudeville, per il tono popolaresco e la sana voglia di muoversi e dimenarsi. Pur trattando una materia tematico-motivica leggera, questa pagina, che una parte della critica giudica la più debole della sinfonia, è tuttavia in sé tirata a perfezione nei rapporti fra temi e digressioni, briosità dello strumentale e cura nel piccolo lavoro artigianale. Come alla fine del primo movimento, e del Minuetto, ancora una volta nella coda scintilla lo smalto di una musica militaresca affidata a oboi, corni e infine a trombe e timpani: è proprio la musica della «vita militare» del Cherubino mozartiano, stilizzazione festosa di inni e marce, dilaganti dall’opéra-comique parigino in composizioni di ogni genere.
Ma questa componente popolaresca è comunque stemperata nelle «buone maniere» di una musica tutta inscritta nella socievolezza settecentesca: anche gli omaggi, gli avvicinamenti pieni di tatto, alla Sinfonia K 425 di Mozart, a Haydn nel finale, sono fatti con discrezione, senza l’invadenza del nuovo arrivato; bastava al Beethoven della Prima sinfonia scrivere il suo nome accanto a quello degli illustri predecessori nella grande accademia del 2 aprile 1800.