Seconda sinfonia

(in Re maggiore op. 36)

1. Pronta in tre o quattro settimane.

Una volta prese le misure all’esigente ambiente viennese e rotto il ghiaccio con la Prima sinfonia, Beethoven non tarda a presentare la sua Seconda sinfonia in Re maggiore: che è un’opera di forza lineare più ferma e coerente, tecnicamente più audace e animata da una certa rustica allegrezza.

I primi abbozzi, sulla base dei taccuini di lavoro, risalgono all’estate o autunno dell’anno 1800 e si intensificano nel periodo che va dall’ottobre 1801 al febbraio 1802; Beethoven completa l’opera nell’estate, durante la villeggiatura trascorsa a Heiligenstadt, a quei tempi piccolo centro a nord di Vienna. In realtà, già il 28 marzo il fratello Kaspar Karl, che lo aiutava negli affari, poteva scrivere all’editore Breitkopf & Härtel di Lipsia che una nuova «grande sinfonia» sarebbe stata pronta entro «trequattro settimane» assieme a un concerto per pianoforte; e chiedeva risposta «con cortese premura specialmente per il primo pezzo, che vorremmo veder stampato al più presto, essendo una delle opere più pregevoli di mio fratello» (Epistolario, I, pp. 200-1). La premura era dovuta sopra tutto all’intenzione di presentare l’opera a un’accademia prevista per il mese di aprile, che però non si poté organizzare per la mancata concessione del teatro di corte; ma forse anche perché l’opera non era del tutto finita, sintomo dell’impegno elaborativo con cui Beethoven la concepiva; passò infatti ancora un anno, un po’ per il lavoro di revisione, un po’ per poterla offrire al pubblico assieme ad altre novità, prima di arrivare alla sua presentazione ufficiale: il 5 aprile 1803 al Teatro an der Wien, assieme alla Prima sinfonia, che si trovò modo di riproporre, al Concerto per pianoforte op. 37 e all’oratorio Cristo al monte degli ulivi.

Questa la prima esecuzione pubblica; ma è molto probabile che, essendo dedicata al fraterno amico Carl von Lichnowsky, la sinfonia sia stata fatta ascoltare più volte in forma privata in qualche dimora del principe. La locandina del Teatro an der Wien annunciava il concerto «sotto la direzione dell’autore»: avviso da intendere non nel senso moderno, con l’autore sul podio, ma presente in sala a dare le sue indicazioni al primo violino, il Konzertmeister, quale direttore effettivo. Ancora un anno deve passare prima della pubblicazione a stampa, che vede la luce nel marzo 1804 a cura del Bureau des Arts et d’Industrie di Vienna; Beethoven infatti si dedicò al lavoro di revisione non solo durante le (probabili) audizioni private e dopo la «prima» del 5 aprile 1803, ma anche durante l’anno che precedette la pubblicazione a stampa; forse Kaspar Karl era stato troppo ottimista quando parlava di «trequattro settimane» per finire un’opera che appare molto più complessa delle altre completate in quei mesi. Bisogna ancora notare che nel marzo 1804, quando pubblica la Seconda sinfonia dopo le ultime puliture, Beethoven si trova già immerso nel lavoro sulla Terza sinfonia Eroica: questa contemporaneità di concezione fra le Sinfonie dalla Prima alla Sesta, dove una nasce quando l’altra non è ancora finita, è un aspetto tipico della creatività di Beethoven che ci fa pensare alla produzione delle Sinfonie dal 1800 al 1808 come un’unica ondata sinfonica, malgrado la spiccata individualità delle opere via via portate a compimento.

2. Lettere intime.

Non si può sorvolare su un argomento che ricorre di frequente discorrendo della Seconda sinfonia, il suo rapporto con la svolta tragica che segna la biografia di Beethoven all’incirca nell’epoca della sua composizione; il contrasto cioè fra una sinfonia pervasa di energia e serenità e le più brutte sorprese della vita: è di quel tempo, infatti, il primo manifestarsi in forma acuta della sordità, una malattia che la medicina del tempo era impotente ad alleviare nonché a guarire, e che per la carriera di Beethoven significava l’abbandono dell’attività di pianista-concertista già incominciata con successo. Suonare il pianoforte in pubblico a quei tempi non era infatti un’attività principalmente solistica, che sarebbe stata ancora possibile, ma di collaborazione con altri musicisti, strumentisti e cantanti, attività in cui l’«assieme» è imprescindibile; se la sordità nuoce al pianista, non avrà invece alcun danno per il compositore, anche quando diverrà totale; anzi, da molti è stata vista come un’occasione, un incentivo irresistibile per l’artista a rientrare in se stesso, e riscoprirsi e approfondirsi.

Quindi va subito detto che questa menomazione dell’udito, così come altre disgrazie, delusioni e dispiaceri che affliggeranno Beethoven nella vita quotidiana, rispetto all’opera musicale compiuta si ritirano sullo sfondo, sono una sorta di antefatto che non incide nella sostanza artistica. Tuttavia, anche se non indispensabili per l’immediata percezione della Seconda sinfonia, alcune testimonianze epistolari possono servire a capirne meglio le circostanze; e sopra tutto a intendere più da vicino l’eccezionale densità della personalità beethoveniana; ecco qualche passo della lettera scritta da Vienna nel giugno 1801 a Franz Gerhard Wegeler, caro amico degli anni di Bonn:

Le mie composizioni mi rendono molto, e posso quasi dire di avere più ordinazioni di quante ne possa soddisfare. Per ogni mio lavoro ho sei, sette editori e ancora di più se mi premesse d’averne; non si discute più con me; io chiedo e quelli pagano. Ammetti che non è mica male come situazione. […]. Se dovessi rimanere sempre qui, sono sicuro che riuscirei a organizzare ogni anno un’accademia a mio favore, come ho già fatto varie volte. Purtroppo un demone invidioso, la mia cattiva salute, mi ha messo i bastoni fra le ruote; voglio dire che da tre anni il mio udito si è fatto sempre più debole e ciò sarebbe causato dall’affezione intestinale, della quale soffrivo, come sai, fin da quel tempo; ma qui è assai peggiorata […]. Conduco una ben misera vita; da quasi due anni evito ogni compagnia, perché non mi è possibile dire alla gente che sono sordo. Se esercitassi qualsiasi altra attività la cosa sarebbe più facile; ma con la mia professione questa è una condizione terribile. […]. I suoni acuti degli strumenti e delle voci, se sono un po’ lontano, non li sento più (Epistolario, I, pp. 175-81).

Dello stesso contenuto, quasi con le stesse parole, sono una lettera a Carl Amenda del 1° luglio 1801 (I, pp. 182-4) e un’altra ancora a Wegeler del novembre di quell’anno (I, pp. 185-9); su una pagina di quest’ultima spunta l’inatteso raggio di sole di

una cara, incantevole ragazza, che mi ama e che io amo ed è la prima volta che sento che il matrimonio potrebbe rendere felici; purtroppo essa non è del mio ceto sociale e ora – non mi potrei davvero sposare – devo ancora darmi moltissimo da fare; se non fosse per l’udito, già da molto tempo avrei girato mezzo mondo.

Si tratta con ogni probabilità di Giulietta Guicciardi, niente meno che la dedicataria della sonata Al chiaro di luna, che dopo averlo rifiutato sposò nel 1803 il conte Gallenberg: donde altre delusioni e amarezze, sia pure di portata minore, e affatto prevedibili data la diversità dei ceti sociali.

L’altro celebre testo che illumina sulla situazione morale di Beethoven in quegli anni è il così detto «Testamento di Heiligenstadt» (scritto nell’ottobre del 1802) ritrovato fra le sue carte dopo la morte e pubblicato la prima volta sull’«AmZ» del 17 ottobre 1827: Beethoven manifesta ai fratelli Kaspar Karl e Johann la sua malattia all’udito, con poche speranze di guarigione, l’umiliazione del musicista, l’offesa alla sua indole socievole, la disperazione che a ventotto anni lo conduce sull’orlo del suicidio; più che una lettera, infatti mai spedita, sembra una pagina di diario, con una punta di distacco letterario che mette in risalto la formazione settecentesca di Beethoven, le sue idee illuministiche sul primato della virtù, il valore del conflitto e il carattere di missione assegnato alla sua musica:

Solo l’arte mi ha trattenuto; mi è parso impossibile lasciare questo mondo prima di aver pienamente realizzato ciò di cui mi sentivo capace (Epistolario, I, p. 221).

Alla sordità inguaribile Beethoven reagisce infatti con l’enorme consapevolezza del suo talento a creare, facoltà o dono di natura che gli appartiene completamente e non può essere né impedito né favorito da forze estranee. Viene tutto da dentro, da quel fondo prometeico del celebre inno di Goethe – «io sto qui e creo uomini a mia immagine e somiglianza» – che Beethoven sente suo con orgoglio. Anche nelle parole scritte in quel documento («mi è parso impossibile lasciare questo mondo prima di aver pienamente realizzato…»), non è difficile percepire una forza asseverativa, una passione per il fare che sarà il grande nutrimento delle opere successive, in particolare la Terza e la Quinta sinfonia.

3. Opera di transizione.

Nella Seconda sinfonia i contemporanei avvertirono subito qualcosa di eccessivo e sorprendente rispetto alle loro abitudini di ascolto: l’opera «guadagnerebbe ove venissero accorciati alcuni passi e sacrificate molte modulazioni troppo strane», è il parere espresso dall’«AmZ» nel 1804; un passo dello stesso giornale (9 maggio 1804) la definisce un’opera colossale, «di una profondità, forza, dottrina artistica come poche altre», tanto che dovrebbe essere suonata più volte di seguito perché anche l’ascoltatore esperto «sia messo in grado di seguire il particolare nel tutto e il tutto nel particolare» (una critica davvero di schietta impostazione Wiener Klassik). Lo stesso autorevole foglio, pur riconoscendo al genio di Beethoven ricchezza di nuovi pensieri, avanza ancora riserve molto puntuali: «troviamo il tutto troppo lungo, certi passi troppo elaborati; […] l’impiego troppo insistito di tutti i fiati impedisce a molti bei passi di sortire l’effetto» (2 gennaio 1805).

Tali riserve frammiste ai riconoscimenti dicono chiaro che la Seconda sinfonia si trova in un terreno di transizione dove finisce la prima maniera, quella di prevalente imitazione di Haydn e Mozart, e sta per cominciarne una nuova. Una maniera, anzi, già incominciata e attuata in opere dello stesso periodo, nel Terzo concerto per pianoforte e orchestra, nelle Sonate per pianoforte dall’op. 22 all’op. 31, nelle Sonate per violino e pianoforte op. 30; ma la sinfonia è un genere meno agile da manovrare e in quanto a rapidità innovativa resta ancora indietro sotto vari rispetti. Questa situazione di transizione è sottolineata nel giudizio di Paul Bekker che vede la Seconda in una posizione scomoda fra passato e futuro; Beethoven usa qui mezzi futuristici per l’epoca, ma carattere e contenuto sono ancora nelle convenzioni (Bekker 1912, p. 206). In quest’opera, osserva Bekker, il «tipo viennese» della sinfonia arriva alla matura perfezione, forse addirittura a un’iper-maturazione, che sarebbe appunto lo squilibrio fra i mezzi tecnici esuberanti e una idea poetica di base ancora indefinita; ma queste e simili critiche riscontrate a tavolino tendono poi a dissolversi quando il discorso si porta sull’oggetto musicale da ascoltare, sulla sua gioia fisica, tanto che «debolezze organiche di fondo non sono quasi più rilevabili» (ibid., p. 207).

4. Introduzioni a confronto.

La Seconda sinfonia in Re maggiore sta alla Prima come la seconda Sonata per pianoforte op. 2 n. 2 sta alla prima op. 2 n. 1: c’è lo stesso apporto quantitativo di originalità, disinvoltura, di tratti bizzarri, che naturalmente nel pianoforte passano senza stupire troppo, mentre nella sinfonia per orchestra fanno più colpo e, come abbiamo visto, furono subito notati dai contemporanei come troppa voglia di uscir di regola. La sinfonia si apre con una introduzione lenta (Adagio molto) che nella calma della prima idea non lascia presagire i sentieri tortuosi in cui vorrà avventurarsi; nel tenero, bucolico esordio di oboi e fagotti Giovanni Carli Ballola (1985, p. 297) sente una comunanza con «uno di quei morbidi impasti di legni» tanto cari a Cherubini, musicista che Beethoven teneva in gran conto, specie per la partitura di Anacréon coeva alla nostra sinfonia. Dopo una decina di battute di rispettosi raffronti tra fiati e archi, una improvvisa svolta di tonalità (b. 12) avvia una ricerca armonica di considerevole ricchezza, prima ancorata a un Si bemolle di base, ma poi libera di esplorare modulazioni via via nuove, procedimento che il Bekker ha approssimato a una sorta d’«improvvisazione per orchestra»: ora, improvvisare, specie ai tempi di Beethoven, era comunissimo su strumenti soli, al pianoforte specialmente, dove le idee possono nascere anche dalla sensazione tattile della tastiera sotto le dita dell’esecutore; comunque attività eminentemente solistica, mentre improvvisare con un’orchestra sembra un’operazione per la quale bisogna attendere l’estro individuale dei componenti di una jam session jazzistica; ma è vero che il tono, il mood dell’improvvisazione sembra guidare Beethoven in quella pagina, che come sempre nelle improvvisazioni scritte è una improvvisazione simulata, costruita per tasselli, lavorata di motivi che si fissano su una figura per poi abbandonarla all’improvviso: lavoro di precisione che infatti è passato attraverso vari tentativi e rifacimenti.

Ma questo Adagio molto introduttivo presenta un altro spunto degno di attenzione: la sua affinità con l’analoga introduzione lenta della Sinfonia K 504 (Praga) di Mozart, una simiglianza di impianto formale da far supporre che Beethoven l’abbia presa deliberatamente a modello. Il parallelismo più evidente sta nella divisione in tre sezioni; nella Praga si susseguono affermazione della tonalità (bb. 1-15), repentino mutamento del quadro tonale (bb. 16-28), pedale di La, dominante di Re, che risolve nell’Allegro attaccato in piano dagli archi: il tutto unificato da un forte senso drammatico, una sensibilità risentita, una grandiosità capovolta in orgogliosa fierezza (quei colpi fatali del timpano!), ma pronta a ripiegare, a rimandare lo scontro, a considerare la cosa da un altro punto di vista: in altre parole, una delle pagine più alte e conturbanti di Mozart.

L’introduzione di Beethoven si divide pure in tre episodi, e ciascuno di una lunghezza all’incirca equivalente a quella mozartiana, tutti decisamente diversi e piuttosto autonomi, sì da dare argomento alla sensazione di una «improvvisazione»: il primo (bb. 1-11) bucolico e cameristico, di un clima che già anticipa il Larghetto successivo; il secondo episodio (bb. 12-24) è sinfonico a tutti gli effetti, percorso da scale discendenti e ascendenti per varie tonalità. Proprio alla fine di questo passo (b. 23) e circa a metà dell’introduzione, l’orchestra al completo, confortata dal timpano, scandisce in fortissimo le note della triade di Re minore, Re-Fa-La, con una prepotenza che sembra l’irruzione di un corpo estraneo, o una di quelle mosse tipiche di chi improvvisa: sgomberare il tavolo in quattro e quattr’otto per cominciare qualcosa di nuovo; invece quella irruzione non resta isolata e tornerà come un segnale a farsi ricordare nell’Allegro con brio successivo; da b. 23 parte il terzo e ultimo episodio dell’introduzione, tutto sul pedale armonico di La come nella Praga: per la pura gioia musicale è l’episodio più accattivante, con la frase severa che sale da viole e violoncelli e i trilli di flauto e violini, fino alla scala discendente che piomba leggera sull’attacco del primo Allegro.

5. Allegria di contrasti.

L’Allegro con brio prende il volo da un tema che sfreccia via impaziente da viole e violoncelli; anche l’Allegro della sinfonia Praga incomincia con una simile sensazione di energia trattenuta e pronta a slanciarsi; e un’altra analogia mozartiana si può sentire con l’attacco in pianissimo dell’ouverture delle Nozze di Figaro, per la simile tensione rettilinea. Il tema principale è singolarmente esteso, ma viene suddiviso in frammenti che si combinano fra loro secondo la tipica tecnica sonatistica del «lavoro tematico»; parte piano e si prende un ampio respiro prima della sua ripresa in forte, ripresa però che è abbreviata per abbordare nuove tonalità e nuove figure; altre idee, e talvolta si tratta solo di brevi accenni, tratti di collegamento, si rincorrono nella pagina in preda a un vero entusiasmo costruttivo. Clarinetti, fagotti e corni propongono il secondo tema in La maggiore (b. 73), una spigliata, mattutina fanfara, cui risponde in fortissimo tutta l’orchestra; se già nella Prima sinfonia l’assieme di corni, trombe e timpani rimandava agli ariosi richiami di una musica militare, qui il plein air entra nella formazione melodica di un tema argutamente orecchiabile, dagli intervalli ben scanditi, che dei vari rivoluzionari e post, Méhul, Cherubini, Gossec dà una versione più allerta e giovane; in realtà, Cherubini a parte, non sembra che di Méhul e Gossec a Vienna si suonasse gran che; ma lo stile militare in quegli anni si respirava nell’aria, basta pensare al continuo succedersi di guerre e invasioni, alla presenza di guarnigioni con colorite bande militari nel bel mezzo delle città.

Secondo Paul Bekker il gioco di contrasti in questo Allegro, proseguendo lo stile improvvisatorio dell’introduzione lenta, è condotto in modo saltuario, casuale, non metodico; ma quando si trova di fronte all’episodio delle bb. 96-110 il tono cambia di colpo: pesanti accordi a tutta orchestra, «pause angosciose» che seguono l’ultimo schianto, un misterioso «fruscio» degli archi in pianissimo, momenti in cui «lampeggiano demoniache scintille» (Bekker 1912, p. 207); come abbiamo già avuto occasione di notare, l’illustre critico dà un giudizio molto restrittivo della Seconda sinfonia considerata a distanza: sproporzione fra destrezza tecnica e idea poetica non corrispondente, tasselli che si muovono senza un piano coerente e finalizzato al tutto; ma poi, di fronte ai casi particolari il suo rigore si scioglie, e il critico si lascia portare dall’esperienza del conoscitore. In effetti è quello delle battute indicate sopra il momento più nuovo e originale del movimento, e la sua concezione, fatta di immediati e violenti contrasti, aveva già trovato una prima sistemazione nel primo movimento della Sonata per pianoforte op. 2 n. 2, pure in Re maggiore (bb. 76-79).

Lo sviluppo attacca con il tema principale oscurato in Re minore e poi è portato ad affacciarsi su varie tonalità; quando sembra esaurito, a sorpresa, invece del tema principale appare l’amabile fanfara del tema secondario (b. 182), quello militare, che si dedica a un piccolo sviluppo per conto suo, come una battaglietta di legni e violini fra spalti domestici; quindi, altra sorpresa, recuperato dalla introduzione lenta ritorna il motivo di b. 23 sulle note della triade di Re minore, ma qui (b. 118) applicato sulla tonalità di Fa diesis minore con un gioco vivacissimo di tasselli giustapposti; così come tornerà ancora nel trionfale Re maggiore della conclusione, corpo estraneo assorbito nella totalità del movimento.

6. Tesori perduti.

Il Larghetto che segue, con la sua aria mite e amabile, è forse il fulcro poetico di tutta la sinfonia; il sentimento principale del brano è quello di una compresenza fra il compiaciuto possesso di tutte le grazie del Settecento e allo stesso tempo la consapevolezza di stringere in mano un bene perduto, un insieme di valori giunti al tramonto; lo scrupolo di trattenere ancora un poco un tesoro perento dà sapore al piacere di muoversi fra vecchi modelli, incrinati cimeli che nelle loro venature quasi avvertono un brivido di malinconia; un sentimento assai raro in Beethoven, che sembra reagire con un impegno formale estremamente accurato.

Tutto incomincia con la delicata legatezza di un quartetto d’archi, con quel tema principale che inizia con quattro note ascendenti come l’ouverture delle Creature di Prometeo; proposte e risposte, grazie e galanterie si rispecchiano fra gli archi e i legni, tutto in bella simmetria come fra le statue di un giardino settecentesco. Sembra di essere in piena atmosfera di serenata o di Lied; invece con una certa sorpresa notiamo che questo Larghetto è tutto contesto in una elaborata forma sonata, con esposizione (bb. 1-98), sviluppo (bb. 100-158) e ripresa con coda (bb. 159-276), e poi con articolazione di temi secondari e ponti di collegamento; ma l’inganno è dovuto alla sua dominante e pervasiva cantabilità che copre o nasconde gli snodi formali: come dice Dahlhaus, si tratta infatti di una forma sonata «in cui non domina il principio del contrasto tematico, ma quello della paratassi melodica» (Dahlhaus 1990, p. 95). Beethoven infatti dedica tutto lo spazio necessario a tornire la cantabilità dei temi, derogando alle sue abitudini preferite (quelle delle sonate per pianoforte) di procedere in serrata concisione; anzi, qui abbonda di ripetizioni, muovendosi in un tempo da douceur de vivre, passa da un motivo all’altro senza sbalzi, e l’umore cantabile non cambia nemmeno quando nello sviluppo il tema principale osa addentrarsi nella tonalità minore. Il secondo tema in Mi maggiore (b. 48) ha una vena melodica di inconsueta cordialità; tanto da presentare, come osserva Armin Raab (Ulm 1994, p. 84), una forte analogia di contenuto espressivo con la sezione Andante moderato del terzo movimento della Nona sinfonia. Non mancano poi spunti giocosi: quello di bb. 75-78 si trova già nell’Andante della Sonata in Re maggiore op. 28; nella coda, l’arpeggio ascendente del flauto anticipa il clima della «Scena al ruscello» nella sinfonia Pastorale: ma non si contano le allusioni, i particolari significativi, tutti agguagliati nella calma luminosità della pagina.

7. Scherzi e bizzarrie.

Puro ritmo, al contrario, è l’essenza dello Scherzo, nome che per la prima volta s’incontra nelle Sinfonie; è un Allegro di singolare economia di linee, con un tema fatto di sole tre note ascendenti che con gioco leggero si rispondono fra archi, corni e «tutti», timpani compresi. L’economia di note e una certa secchezza geometrica ricordano lo Scherzo della già citata Sonata per pianoforte op. 28, una sonata che non solo per la comune tonalità di Re maggiore vien fatto di accostare alla nostra sinfonia. Nella seconda parte (b. 21) s’impenna di colpo un’armonia di Si bemolle: una irruzione che Beethoven ha già impiegato nell’introduzione lenta della sinfonia (e naturalmente nelle sonate per pianoforte: si veda il primo movimento dell’op. 10 n. 3). Nel trio intermedio, a una prima parte amabile e garbata per soli fiati (oboi, fagotti e corni), contrasta in modo scoperto la rude entrata degli archi «sforzati», che si gettano unisoni sul Fa diesis percorrendo in su e giù le note della tonalità di Fa diesis maggiore; nel trio del Minuetto nella Sonata op. 10 n. 3 succede lo stesso, facendo leva sul Fa diesis; da qui, insofferente di buone maniere, Beethoven balza direttamente al La per ripiombare sulla tonica Re: questi voltafaccia sono comuni nella musica di balletto per seguire movimenti e situazioni, ma in una sinfonia potevano sembrare immotivati: bizzarrie, come quelle censurate dai primi critici delle gazzette.

Ma in quanto a bizzarrie, il finale (Allegro molto) passava avanti a tutti: «e il finale anche adesso dopo una conoscenza più precisa lo teniamo per troppo bizzarro, selvaggio e rumoroso», scriveva il recensore dell’«AmZ» (2 gennaio 1805). Questa pagina, frutto di numerose revisioni come documentano gli abbozzi, è prima di tutto una vasta ricapitolazione di tutti gli atteggiamenti espressivi della sinfonia, specialmente del desiderio di attizzare contrasti e suscitare sorprese; il tema principale consta di due idee separate da una pausa: la prima, più di un tema è un gesto stizzoso, uno spintone, tanto è rappreso fra le due prime note e il trillo aggressivo; la seconda parte è la risposta degli archi, una sequenza più regolare, sul tipo veloce delle ouvertures di Nozze di Figaro e Don Giovanni, per restare nel tono di Re maggiore. Certo simili arguzie tematiche, esche a corse leggere e crepitanti, specialmente Haydn aveva fatto conoscere; ma qui si sbrigliano con un gusto per i contrasti, le interruzioni, per gli ostacoli da abbattere, che scuote da vicino il pacifico ascoltatore; siamo ancora nei limiti del finale giocoso, ma messo a soqquadro da una vena umoristica turbolenta che ha ormai scavalcato la «vivacità» settecentesca. Dagli schizzi preparatori si capisce (Adolf Nowak, in Interpretationen 2009, p. 296, nota 1) che questo finale è stato dapprima concepito secondo la forma circolare del rondò, per poi deviare verso la forma sonata; il carattere dei temi, anche nella forma definitiva, inclina verso il rondò e così certi particolari nella segmentazione del movimento.

Un tema secondario (b. 26) esalta la cantabilità del violoncello, poi estesa a tutti gli altri strumenti; segue un umoristico duetto fra fagotto e clarinetto da una parte, oboe dall’altra, mentre agli archi tocca tenere continua e spumeggiante la vitalità ritmica. Lo sviluppo attacca con ripresa completa del tema principale e denuncia, nella sua assenza di uno stacco dall’esposizione, l’origine della pagina come rondò; in altre parole, il passaggio da esposizione a sviluppo non è marcato come di solito avviene in una forma sonata, ed è invece liscio e continuo come di solito avviene nel rondò. Lo sviluppo è quasi tutto lavorato sulle due idee complementari che formano il tema principale, condotto attraverso varie modulazioni, con oboi e fagotti che lo fissano con un mastice armonico intermedio; poi taglia corto, e a salti e lanci conduce alla ripresa.

La coda (b. 338) non è un’appendice ma un’aggiunta sostanziale alla conclusione: lo staccato degli archi in punta di piedi, sotto le note tenute dai fiati, sparge per l’aria un clima da opera buffa, una gestualità accentuata che strizza l’occhio all’ascoltatore; quando questa leggerezza esplode nel grande finale operistico, il fortissimo non teme di avvicinarsi al frastuono perché la velocità delle figure di ottavi, adatta agli archi, costringe i legni, i fagotti in particolare, ad ardite acrobazie; in sostanza, qui le note singole contano meno dell’effetto di vitalistico accumulo sonoro: un effetto che sarà ripreso nel vertiginoso finale della Settima sinfonia.

E in effetti la Seconda qualche volta sembra voler scappare fuori da se stessa; quelle buone maniere rispettate nella Prima sinfonia qui lo sono di meno, con i voltafaccia, i contrasti violenti e le singolarità formali che denunciano un intento di essere originale a ogni costo; per andare oltre su questo terreno non bastavano più trovate o soluzioni di breve respiro, ci voleva un deciso cambiamento di mentalità, un’idea che dettasse legge, imponendo un ruolo alla sinfonia che il Settecento non aveva ancora concepito.