Terza sinfonia

(in Mi bemolle maggiore op. 55, Eroica)

1. Novità epocale.

La Terza sinfonia, sinfonia Eroica, è l’opera della grande svolta nel corso creativo di Beethoven, divenuta pressoché popolare per il legame con la figura di Napoleone Bonaparte che ne accompagna l’origine. Ma sarebbe forse ora di spostare il centro dell’interesse verso una eccezionalità di tipo puramente musicale; la partecipazione di Beethoven a fatti, idee e personaggi del suo tempo, anche se pronta e accesa, era sempre un’adesione di natura intellettuale, risolta in lettere e conversazioni; in realtà, Beethoven era un sedentario, un uomo di tavolino e di pianoforte, insomma di studio, impegnato per tutta la vita a dominare e mettere in forma quel demonio che da dentro lo spingeva a produrre («perché Beethoven sa scrivere, grazie a Dio! – altro non sa fare al mondo»; a Ferdinand Ries, suo allievo e assistente, il 20 dicembre 1822; in Epistolario, IV, p. 633). La Terza sinfonia fa epoca per conto suo, come musica di incendiaria novità, divenendo in breve il pomo della discordia fra custodi dell’arte classica e apostoli dei primi fermenti romantici; forse è anche la prima opera puramente strumentale di cui si parla anche in riviste non musicali, di cultura varia, la prima musica strumentale che si considera veicolo di idee, alla pari di un libro o di un dipinto (Geck 2000, p. 29).

Sull’«AmZ» del 13 febbraio 1805, la sinfonia, che allora contava solo numerose esecuzioni semiprivate, è definita una «Fantasia molto elaborata, ardita e selvaggia», che «molto spesso sembra perdersi completamente in un mondo senza regole»; e il recensore, pur appartenendo alla schiera degli ammiratori di Beethoven, «deve confessare di trovare in questo lavoro un eccesso di frastuono e bizzarria, che rende estremamente difficile la visione d’insieme compromettendo quasi del tutto l’unità». È a critiche di questo genere che risponde la recensione eccezionalmente lunga di Johann Friedrich Rochlitz sull’«AmZ» del 18 febbraio 1807: il suo scopo è quello di mostrare che le credute bizzarrie o contraddizioni non sono altro che la capacità di cogliere la realtà nella sua complessità; Rochlitz non era un romantico en titre, eppure si avvicina ai romantici nell’amare la Terza proprio perché questa sinfonia non va in una stessa direzione, ma mescola alto e basso, contraddizioni e stranezze, che tuttavia non sono un divagare ma rappresentazioni di un mondo non dominabile dalla ragione.

2. Occasioni.

Sull’occasione che ha determinato o favorito la nascita dell’Eroica, data la natura dell’opera si è molto fantasticato: secondo il dottor Bertolini, uno dei medici di Beethoven, sarebbe nata alla notizia della spedizione d’Egitto di Bonaparte nel 1798; quanto alla Marcia funebre, una diceria la collega alla falsa notizia della morte di Lord Nelson nella battaglia di Abukir, giugno 1798; ma per un’altra fonte, i Ricordi di Carl Czerny, sarebbe stata provocata dalla morte del generale inglese Abercrombie nella battaglia di Alessandria, marzo 1801; al riguardo non abbiamo nessuna dichiarazione di Beethoven. Un tempo aveva avuto credito il nome del conte francese Jean-Baptiste Jules Bernadotte, di passaggio a Vienna nei primi mesi del 1798 come inviato dal governo francese per una missione diplomatica; avrebbe suggerito lui a Beethoven l’idea di scrivere un’opera musicale che celebrasse il generale Bonaparte, o almeno a lui dedicata; il fatto è riferito dai primi biografi, ma oggi sembra da accantonare per l’incerta presenza di Bernadotte a Vienna. (Peccato, perché l’aneddoto del futuro re di Svezia che ha l’impudenza di spiegare dal suo balcone il tricolore francese, suscitando un tumulto fra i patrioti viennesi, fa sentire una ventata di sconsideratezza, di poco rispetto delle etichette, penetrata a Vienna dalle novità di Francia; e venire in mente, in un passo di Guerra e pace [I, III, X], quel prigioniero francese capitato in mezzo a un gruppo di ufficiali russi che aveva portato con sé, in quella annoiata retroguardia, «l’atmosfera dell’esercito francese, che ci era così estraneo, in tutta la sua freschezza»).

Fra le ipotesi sull’origine di una sinfonia o cantata dedicata a Bonaparte non manca quella del vantaggio economico sotto forma di una tournée in Francia: Ferdinand Ries, scrivendo all’editore Simrock il 6 agosto 1803, dà per sicuro che Beethoven andrà a Parigi; anche la dedica della Sonata op. 47 per violino e pianoforte a Rodolphe Kreutzer, caposcuola del violinismo francese, potrebbe essere stata parte dei preparativi. Se così fosse, per la mente di Beethoven almeno per un attimo è passata quell’idea, costante nell’Ottocento, che un successo a Parigi vale un successo nel mondo, idea già mal esperita da Mozart; ma del viaggio, come sempre in Beethoven, non si fece niente e restano i motivi ideali.

Ma in fine la questione della committenza o dell’occasione precisa è secondaria: non ce n’era davvero bisogno pensando all’infatuazione europea per Bonaparte che dura fino al Terrore; come Goethe, Schiller, Hegel, Hölderlin, anche il giovane Beethoven aveva visto in Napoleone il simbolo della nuova umanità sbocciata dall’Illuminismo e dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo, il simbolo delle speranze di rinnovamento, di eguaglianza e giustizia sociale che fremevano in Europa; anche se non ci fu un invito formale, che poi per Beethoven sarebbe contato poco, e anche senza lo stimolo di un vantaggio economico, è naturale che nei circoli si parlasse del generale Bonaparte e che l’idea fosse in aria, un’idea che al Beethoven di quegli anni poteva andare a genio, una sfida degna di lui. Ma poi, come già accennato, c’era l’occasione interna dovuta al laboratorio sinfonico di Beethoven, per dare alla «nuova maniera», già creata nel pianoforte, la sistemazione monumentale in un’opera sinfonica; se la Seconda sinfonia sembra talvolta arrovellarsi per essere originale, la Terza, malgrado le zone drammatiche che attraversa, scorre placida come un fiume quando sbocca in una larga pianura.

3. Bonaparte, Prometeo e sinfonia Eroica.

Assieme al genio esaltante del giovane Bonaparte, nella genesi della sinfonia entra in congiunzione la figura mitica di Prometeo; l’ultimo movimento della sinfonia, da cui è incominciata l’elaborazione compositiva dell’opera, è basato sullo stesso tema che compare alla fine del balletto Le creature di Prometeo, per cui, in modo esplicito, anche la figura di Prometeo, il dio che più ha fatto per il progredire del genere umano, viene a far parte del mondo morale della Terza sinfonia. Prometeo nella lontananza del mito e Bonaparte nel presente epocale della storia sono i due astri che assistono alla nascita dell’opera: trasferirli tali e quali al suo interno come oggetti di una rappresentazione descrittiva sarebbe un grossolano errore; ma non meno sbagliato sarebbe ignorarli, riducendoli a pure fantasie estranee alla sostanza estetica dell’opera. Bonaparte e Prometeo sono moltiplicatori di energie che si esplicano e si realizzano nella così detta musica pura; ma si sospetta che senza di loro quella energia non sarebbe stata così coerente e quella musica pura non sarebbe stata così grande e nemmeno così pura.

Ferdinand Ries, scrivendo le sue memorie nel 1838, cioè oltre trent’anni dopo l’accaduto, ci ha tramandato questa scena divenuta leggenda:

a proposito di questa sinfonia Beethoven aveva pensato a Napoleone, ma finché era ancora primo console. Beethoven ne aveva grandissima stima e lo paragonava ai più grandi consoli romani. Tanto io, quanto parecchi dei suoi amici più intimi, abbiamo visto sul suo tavolo questa sinfonia già scritta in partitura dove sul frontespizio in alto stava scritta la parola «Buonaparte» e giù in basso «Luigi van Beethoven» e null’altro; ignoro se lo spazio in mezzo dovesse essere riempito e da che cosa. Fui il primo a portargli la notizia che Buonaparte si era proclamato imperatore, al che ebbe uno scatto d’ira ed esclamò: «Anch’egli non è altro che un uomo comune! Ora calpesterà tutti i diritti dell’uomo e asseconderà solo la sua ambizione; si collocherà più in alto di tutti gli altri, diventerà un tiranno!». Andò al suo tavolo, afferrò il frontespizio, lo stracciò e lo buttò per terra (Wegeler - Ries 1838, p. 78).

Lo sdegno e il mutamento di umore devono dunque risalire agli avvenimenti del maggio 1804, quando Napoleone si fece nominare imperatore; ma quell’ira non doveva essere definitiva: infatti un’altra copia della partitura, conservata nella Biblioteca della Società amici della musica di Vienna, presenta mezzo scancellate queste parole autografe in italiano: «Sinfonia grande/ intitulata Bonaparte/ del Sigr/ Louis van Beethoven», e poche righe sotto, a matita, «scritta su Bonaparte»; inoltre, pochi mesi dopo aver lacerato il frontespizio, Beethoven scrive all’editore Breitkopf il 26 agosto 1804: «La sinfonia, a dir il vero, è intitolata Bonaparte», aggiungendo: «oltre a tutti gli altri strumenti abituali richiede in particolare tre corni obbligati – Credo che interesserà il pubblico musicale – Vorrei che Lei ne pubblicasse la partitura anziché le singole parti» (Epistolario, I, p. 321); lo sdegno plutarchiano contro i tiranni evidentemente era sbollito, lasciando il posto a laconiche considerazioni tecniche.

La guerra franco-austriaca del 1805 rese comunque impossibili titoli o dediche che sapessero di Napoleone, per cui l’opera viene stampata nel 1806 (in parti d’orchestra separate) con il titolo definitivo di «SINFONIA EROICA, composta per festeggiare il sovvenire di un grand Uomo» e con dedica a «Sua Altezza Serenissima il Principe di Lobkowitz». Tuttavia la frase «la sinfonia, a dir il vero, è intitolata Bonaparte», anche se espressa in privato all’editore, conferma che quello restava il vero titolo, indice di un rapporto interno con l’opera impossibile da depennare; l’uomo era leale verso la nobiltà austriaca del suo ambiente, l’artista restava fedele al legame interiore fra la sinfonia e quello che Napoleone aveva significato per lui. Del resto, altre testimonianze di ammirazione appaiono in conversazioni e lettere degli anni posteriori; nel 1821, quando gli venne portata la notizia della morte di Napoleone, Beethoven disse che ne aveva «scritto la musica già vent’anni prima»; insomma la sua visione nei confronti di Napoleone Bonaparte, nonostante cambiamenti di superficie, resterà sempre ammirativa.

4. Maniera affatto nuova.

Con tutto ciò, l’appellativo Eroica dice poco, è troppo limitato rispetto alla portata espressiva della sinfonia; forse Egon Voss (Ulm 1994, p. 103) si spinge un po’ troppo avanti quando sostiene che uno «stile eroico» vero e proprio nella Terza sinfonia si trova solo nella Marcia funebre; ma ha ragione a dire che vasti tratti escono dal cartellino eroico, come la tendenza alla giocosità, al carattere danzante, alla cantabilità pastorale, all’umorismo e addirittura alla parodia. In effetti la varietà stilistica, il passare da un tono all’altro sono il risultato principale di quella «nuova maniera» che lo stesso Beethoven denuncia nella lettera del 18 ottobre 1802 all’editore Breitkopf: «Ho composto due serie di variazioni, una di otto, l’altra di trenta variazioni – Tutte e due le serie sono elaborate in maniera affatto nuova e ognuna in modo diverso e distinto» (Epistolario, I, p. 225): sono le Variazioni per pianoforte op. 34 e op. 35, nate nel 1802 al tempo dei primi schizzi preliminari sul finale della sinfonia. Ora, come osserva Egon Voss, se si tiene conto che all’inizio dell’Ottocento questa molteplicità stilistica, indifferente alle categorie dell’estetica classica, veniva considerata tout court come una espressione di «Humor» romantico, con il suo seguito di esagerazioni, capricci e bizzarrie, diventa chiaro «perché questa musica sia stata messa in relazione con i romanzi di Jean Paul e perché Beethoven venisse chiamato il Jean Paul della musica» (Ulm 1994, p. 105): paragone corrente su quelle gazzette che Beethoven seguiva con attenzione, ma che è molto difficile abbia potuto andargli a genio, data la concezione sanamente realistica e formativa che aveva della sua arte, anche nei momenti di più accesa originalità.

5. In privato e in pubblico.

Nell’autunno 1802 Beethoven si ammalò pare gravemente, tanto che si sparse la diceria che fosse morto (unica testimonianza: una lettera del pianista e compositore Joseph Wölfl all’editore Breitkopf del 25 ottobre 1802); se pensiamo che siamo anche nel mese del Testamento di Heiligenstadt, non resta che ammirare la spettacolosa rimonta intellettuale e morale del compositore, con la «maniera affatto nuova» delle Variazioni sopra citate, cui si uniscono le tre Sonate per pianoforte op. 31 quale massima prova del suo impulso a creare. Le Variazioni in Mi bemolle op. 35 (in seguito denominate impropriamente «Variazioni sull’Eroica») si concludono con un finale che è come una tela preparatoria per la sinfonia; dello stesso tempo è pure il completamento dell’oratorio Cristo al monte degli ulivi, non certo da considerare opera di circostanza, seppure secondaria rispetto alla sinfonia; Beethoven, anzi, scrisse all’editore Breitkopf, il 18 aprile 1805, che la sinfonia e il Christus eseguiti insieme completerebbero assai bene il programma di una intera serata (Epistolario, I, p. 358).

Comunque sia, sbocco maiuscolo del nuovo fervore creativo doveva essere la composizione dell’Eroica, che dopo i primi abbozzi dell’autunno 1802 occupò specialmente il 1803, tra maggio e novembre, a Baden e Oberdöbling, giungendo a compimento ai primi del 1804. Il fratello Kaspar Karl, con l’ansia anticipatrice del commerciante, ne parla come di cosa pronta all’editore Simrock di Bonn il 25 maggio 1803; nell’ottobre Ries sente Beethoven che la suona al pianoforte, ma all’opera occorre ancora un lungo lavoro di completamento e politura, perché la prima esecuzione privata di cui si ha notizia avviene solo nell’agosto 1804 nel palazzo del principe Lobkowitz a Vienna; quindi, a quanto sembra, nel castello di Raudnitz dello stesso personaggio alla presenza del principe Luigi Ferdinando di Prussia, che se ne era invaghito al punto di farla ripetere tre volte di seguito. Una esecuzione semipubblica avvenne nel dicembre 1804 sempre a Vienna nella dimora del banchiere von Würth; cui seguirono certo altre esecuzioni in case private, usate al solito da Beethoven come test per apportare ritocchi e aggiustature: si capisce anche da una lettera di Kaspar Karl all’editore Breitkopf del febbraio 1805: «mio fratello prima di aver ascoltato la sinfonia credeva che, ripetendo la prima parte del primo movimento, sarebbe stata troppo lunga, ma, dopo ripetute esecuzioni, è risultato al contrario che la sinfonia perde se non viene ripetuta la prima parte del primo movimento» (Epistolario, I, p. 350).

Prima esecuzione pubblica a pagamento è riconosciuta quella del 7 aprile 1805 al Teatro an der Wien durante un’accademia data dal violinista Franz Clement, presumibile primo direttore della nuova composizione; il ritardo della prima esecuzione pubblica e della stampa è da attribuire, oltre all’impegno sulle varianti, all’intenso lavoro sulla composizione di Leonore (Fidelio) fino ai primi mesi del 1804: diventa più intensa la sovrapposizione creativa di opere diverse, e quindi anche la consanguineità di idee.

La stampa in 18 parti separate in formato grande è dell’ottobre 1806 con il titolo già ricordato sopra di «sinfonia Eroica»: sulla parte del violino I, cioè del direttore d’orchestra, c’è una scritta in un italiano un poco gallicizzante ma tuttavia chiarissimo, che cerca di prevenire uno scarso successo a causa di eccessive lunghezze: «Questa Sinfonia essendo apposta più lunga delle solite, si deve eseguire più vicino al principio ch’alfine di una Accademia e poco dopo un Overtura un Aria ed un Concerto; acciocché, sentita troppo tardi, non perda per l’auditore, già faticato dalle precedenti produzioni, il suo proprio, proposto effetto». Una edizione in partitura esce nel marzo-aprile 1809 a Londra, da Cianchettini & Sperati, assieme a sinfonie di Haydn e Mozart; dalla lettera sopra citata del fratello Kaspar Karl sembra anche che Beethoven consigliasse l’editore di stampare, oltre le solite riduzioni per pianoforte e gruppi da camera allora comuni, anche una partitura tascabile (come faceva Pierre Le Duc a Parigi) «in modo che ogni conoscitore sia in condizione di procurarsela» (ibid.): è un’annotazione importante, perché rivela come per Beethoven l’opera non viva solo come spettacolo sonoro, ma anche come libro, opera scritta, testo da leggere: una delle tante novità segnate dall’Eroica nella storia del pensiero musicale.

6. Pensiero musicale.

Delle due tipologie (formali ma anche psicologiche) in cui, grosso modo, si possono distinguere le Sinfonie di Beethoven, la Terza appartiene al tipo che presenta in ogni movimento il medesimo argomento, ma considerato da un punto di osservazione diverso e tuttavia compiuto; la Quinta sinfonia incarna l’altro tipo, quello in cui ogni movimento acquista il suo significato più completo nel percorso lineare che lo unisce a tutti gli altri della sinfonia; non è una divisione da prendere in modo netto, ma la Pastorale e la Nona ad esempio sono più vicine alla Terza nel presentare uno stesso argomento dominante passato al vaglio dei diversi movimenti, la Settima invece assomiglia di più al tipo lineare progressivo della Quinta. Nella Terza sinfonia l’argomento è l’esaltazione dell’azione umana in tutte le sue occasioni e incarnazioni; azione che può essere tutta interiore perché nutrita da un senso positivo della vita: la positività di «afferrare il destino alla gola», ma senza la violenza dell’estrinsecazione verbale, con la calma di una perseverante fiducia; poiché, dopo tutto, «è così bello vivere mille volte la vita», come scrive a Franz Wegeler (Epistolario, I, p. 188).

La lunghezza del primo movimento Allegro con brio non è ovviamente un fatto solo materiale, di computo delle battute (che sono 691); una prima conseguenza è che i temi tendono a uscire dalla loro unicità per diventare dei «luoghi tematici», articolati e suddivisi in motivi diversi: causa di confusione per i contemporanei, ma strada aperta al secondo Ottocento sinfonico. Gesto puro, più che musica, è l’apertura, con i due secchi accordi, strappati in forte da tutta l’orchestra: è il residuo della introduzione lenta alla sinfonia settecentesca, quella stessa usata da Beethoven nelle prime due sinfonie; le carte di lavoro dicono che anche qui voleva una introduzione, procedendo per tentativi, alla fine tutti biffati in favore dei due ruvidi accordi che inquadrano la tonalità di Mi bemolle maggiore. Ma va notato subito che questi due accordi non sono materiali inerti usati qui tanto per incominciare, ma verranno richiamati in vita in decisivi momenti successivi: ad esempio, alla fine dell’esposizione (bb. 128-131), dove vengono sottoposti a un martellante lavoro di sfasamento ritmico: a chiarirci che il principio economico della forma sonata – non esserci nulla di inutile, tutto potendo essere sfruttato – nella Terza sinfonia non solo non viene superato, ma si scopre potenziato a livelli di sfruttamento capillare.

Il primo tema (bb. 3-6) ha struttura simmetrica: parte dal I grado, tocca il V grado e torna al I: la sua origine nucleare è certo nel tema del finale della sinfonia, ma modelli analoghi di simmetria melodico-armonica si trovano in Cherubini, ad esempio nell’ouverture di Anacréon (1803), con lontane origini, ancora una volta, nella semplificazione melodica di canti e inni rivoluzionari.

Esposto la prima volta dalla voce del violoncello, si presenta con la veste di una calma semplicità, tanto da ripetere la curva melodica dell’ouverture di Bastien und Bastienne, il Singspiel di Mozart dodicenne. Ma questa semplicità, che si culla sulle note base della tonalità di Mi bemolle, s’interrompe quando dopo quattro battute la melodia del violoncello deroga verso un Do diesis: sulla saldezza omogenea della tonalità di Mi bemolle quella nota estranea diventa un gesto immortale di attenuazione, un’ombra passeggera che rende il linguaggio musicale ipersensibile; il tema riappare due volte, la seconda in fortissimo, ma anche qui evita di proseguire, uscendo dalla sfera del Mi bemolle. Questo comportamento sfuggente del tema che apre la sinfonia deriva da una scelta strategica del compositore già avvertita da Berlioz e su cui è sempre bene rileggere quanto ne ha scritto Walter Riezler nella sua analisi: «Il primo tempo dell’Eroica, caso unico fra i tempi di Sonata di tutta la musica classica, non ha un “tema principale”. Circa il “motivo principale” non sussistono dubbi: fin dall’inizio esso viene esposto nella sua inconfondibile fisionomia per poi riapparire di continuo, più o meno variato, ma senza mai giungere a configurarsi in un periodo concluso» (Riezler 1977, pp. 391-2); la particolarità, quindi, di questo grandioso primo movimento, paradossalmente, è quella di non avere un tema principale: non averlo in senso sonatistico, cioè disponibile a un lavoro tematico di variazioni e sviluppi; questo ruolo è in realtà svolto da motivi secondari che acquistano importanza per plasticità tematica, ritmi sincopati, accenti sforzati, episodi cadenzanti di inusitata lunghezza (quello alla fine della prima parte, bb. 99-144, occupa 46 battute). Il tema d’apertura ogni tanto riappare come un monito, ma è lasciato fuori dalle elaborazioni più spinte e tenuto in serbo per il finale: dove (bb. 631 sgg.), completato di un equivalente simmetrico in armonia di Dominante, la sua apparizione non può generare stanchezza ma senso conclusivo. Con questa organizzazione della forma, frutto di scelte che hanno per oggetto l’elevazione intellettuale dell’ascolto, l’espressione «pensiero musicale» viene assumendo nella Terza sinfonia una nuova concretezza, in cui, anche nella forma definitiva, e non solo nel travaglio degli abbozzi, Beethoven sembra far assistere l’ascoltatore al suo lavoro di compositore.

Dopo l’estensione e la densità di questa esposizione viene al pettine il problema della sua ripetizione, secondo l’uso corrente, prima di attaccare lo sviluppo. Sappiamo già della lettera del fratello di Beethoven all’editore del 12 febbraio 1805: secondo la quale il compositore in un primo tempo credeva che la ripetizione avrebbe allungato troppo i tempi, mentre poi dopo diverse esecuzioni, «è risultato […] che la sinfonia perde se non viene ripetuta la prima parte del movimento»; in assenza di una dichiarazione diretta dell’autore, questa testimonianza di Kaspar Karl può anche non sembrare attendibilissima, e giusta invece la prima sensazione del compositore; di certo, «ci perde» lo sviluppo, che non spicca più, fra esposizione e ripresa, come la sezione più lunga del movimento (250 battute): novità sensazionale di cui Beethoven era certo consapevole.

(Può interessare qualche lettore consultare, sul sito internet «An Eroica Project» curato da Eric Grunin, un grafico che indica come, dal 1920 al 1980 circa, nella quasi totalità delle esecuzioni quel ritornello non veniva eseguito; dal 1980 in avanti la tendenza si inverte e le esecuzioni con ritornello diventano poco alla volta prevalenti).

7. Di alcune novità sensazionali.

Nello sviluppo infatti i principali elementi presentati nell’esposizione diventano oggetto di esegesi e si chiariscono in un ragionamento in cui il mestiere di compositore si esalta; in queste 250 battute culmina la concezione classica dello sviluppo organico, già realizzata da Mozart e Haydn, ma qui organizzata in dimensioni e audacie ancora inaudite: il tema principale, con la sua immensa forza espansiva, si oscura in tonalità minori alternandosi al gentile tema secondario suddiviso fra oboe, fagotto e flauto; poi possiamo solo enumerare gli episodi salienti: un fugato che occupa sopra tutto gli archi e che sbocca in una pagina di laceranti dissonanze, sforzati e accenti sincopati; quindi, ulteriore novità, la comparsa a sorpresa di un nuovo tema (b. 284) nella tonalità lontana di Mi minore, dal carattere intimo e quasi assorto nella sua ombrata strumentazione. Pur così particolare nell’espressione, anche questo tema nuovo è pur sempre bilanciato sul rapporto simmetrico tonica-dominante-dominante-tonica, seme generatore di tutta la sinfonia dal primo movimento al finale (o viceversa, stando all’ordine cronologico di composizione). L’inserimento di un tema nuovo, in un contesto già così ricco di temi, non deriva tanto da un impulso innovativo di spezzare vincoli formali, ma da una spinta opposta, rispettosa del sentimento della forma; lo sviluppo ci ha portato così lontano, la forma sonata è stata così sbalestrata che Beethoven sente il bisogno di un perno che la rinsaldi, come quelle barre di ferro che congiungono fra loro muri pericolanti: questo perno è il nuovo tema, che mettendosi fuori dalla solita forma la rinvigorisce in salda unità.

Degno dell’altezza di queste concezioni è il ponte o tratto di unione con la ripresa, tratto che è uno dei pezzi più sensazionali di tutta la sinfonia: è costituito da un gigantesco crescendo che estua in un salto tonale (b. 362) di un effetto incomparabile, schiacciante: Mozart lo ha usato nella sinfonia Praga, e Beethoven lo riutilizzerà nel Quinto concerto per pianoforte: e non si può che stupire e ammirare la discrezione dei classici, che vanno adagio nello sfruttare le novità sensazionali, le trovate, sapendo bene quanto ci perdano a profittarne troppo. Ma un’altra novità, ancora più sensazionale, si prepara: è il tratto del famoso passo (bb. 390-395) del corno solo che anticipa la sua entrata tirandosi dietro l’attacco della ripresa, bizzarria o capriccio inaudito, del tutto nuovo in orchestra per la sovrapposizione di tre note di tonica a due di dominante: possente artificio retorico per rendere necessaria e come nuova la musica della ripresa, e insieme caso straordinario di come la musica si presti alle letture più varie, opposte e tuttavia legittime: a Romain Rolland il passo evoca parole bibliche, «Lazaro, lèvati!», mentre Egon Voss lo sente come tratto parodico: il cornista, distratto, entra prima.

Le variazioni della ripresa sono in funzione dell’unità del racconto che volge alla conclusione: spariscono o quasi le sincopi aggressive e compaiono tratti e ornamenti amabili, quasi graziosi (b. 567), che ci dicono che siamo usciti dal conflitto. Imponente, adeguata al respiro di tutto il movimento, la coda: anche le prime due sinfonie hanno delle code, ma si tratta, specie nella Prima, per lo più di prolungamenti di cadenza: con il primo movimento della Terza la coda (bb. 557 sgg.) diventa una parte strutturale che condiziona la forma generale, quasi un secondo sviluppo; che si conclude, come è facile indovinare, con l’epifania del tema principale ribadita su tutti i registri in una giostra senza fine.

8. Marcia funebre.

Lo stacco con i movimenti lenti delle due sinfonie precedenti non potrebbe essere più radicale: di colpo si apre l’abisso di una marcia funebre talmente potente da conquistarsi un campo d’azione autonomo, quasi distaccandosi dai nessi di prospettiva con l’insieme dell’opera. Nella Prima e nella Seconda sinfonia i secondi movimenti tenevano ancora qualcosa della serenata settecentesca; ma non si arriva di colpo a questo Adagio assai, bisogna almeno ricordare il Largo e mesto della Sonata per pianoforte op. 10 n. 3 come gesto di taglio netto dal mondo per chiudersi nella solitudine più interiore; e poi c’è il cartone preparatorio della «Marcia funebre sulla morte d’un eroe» nella Sonata op. 26 (1802), pagina di scabro rigore, dove l’idea dell’eroe da celebrare è già insediata nell’animo di Beethoven; ma nemmeno va dimenticato che il modulo «marcia funebre» era qualcosa di normale diffusione a quel tempo, come mostra anche la quinta delle Variazioni di Beethoven op. 34, Marcia Allegretto, in un Do minore lieve, funebre senza drammi.

La Marcia funebre dell’Eroica, sublimazione di cerimonie mortuarie en plein air all’ordine del giorno nei decenni rivoluzionari, è un grande poema scandito in strofe diverse entro cui s’incuneano, talvolta di forza, episodi estravaganti dalla materia principale. La prima strofa è la marcia funebre vera e propria, ritmo puntato che stilizza il passo cadenzato, tonalità di Do minore, quadro tragico essenziale. I vocaboli di un lessico eroico (ritmo, tonalità di Do minore) sono simili a quelli dei «Funerali di Patroclo» nel «dramma eroico» Achille di Ferdinando Paër, dato a Vienna nel 1801 e quindi forse visto da Beethoven; ma la tensione interna sembra piuttosto ricreare il pathos classico del coro n. 24 dell’Idomeneo di Mozart, l’immane «Oh voto tremendo!», con il colore brunito di trombe e timpano e il fatale incedere dei ritmi. Il primo accordo (sotto voce) degli archi, il suo primo rintocco, ha il suono dell’«Ei fu.» manzoniano (quell’Ei fu seguito dal punto fermo, di solito ignorato nelle letture scolastiche); ma quel suono è poi reso specifico dall’uso dei contrabbassi «soli», nel senso di separati dai violoncelli: uno dei primi casi della scissione del binomio violoncelli-contrabbassi, dove i primi avevano appunto la funzione di chiarificare il suono un po’ sordo dei secondi, pur necessari al sostegno; è dai contrabbassi, dal loro goffo rotolare su e giù al basso, che viene quello sfondo polveroso e corroso alla mesta melodia dell’oboe che riprende per intero la prima frase. La nuova idea è in maggiore, nel timbro degli archi: dopo la fatalità che viene da fuori, è la voce dell’interiorità, il contropiede del sentimento di umana solidarietà; la prima strofa si completa nel ritorno al Do minore di un motivo proposto dai violoncelli, dove solo una nota del timpano ricorda il ritmo di marcia: l’aspetto rituale è sospeso, l’autore si tira fuori e riassume dall’alto la sostanza emotiva del pezzo.

La seconda strofa è il «Maggiore», altro passo obbligato: se le sezioni in minore tendono al tombeau idealizzato, il Maggiore è più realistico, quasi descrittivo nel particolare degli accordi di tutta l’orchestra in fortissimo (b. 78), e sforzati in contrattempo per di più, mentre perdura il rullo di timpani: il tutto sembra qualcosa come il presentat’arm! in una parata militare. Le terzine sono un luogo tipico del classicismo viennese, a partire dall’Orfeo di Gluck quando canta e commuove le furie; sulla loro lieve increspatura, si richiamano oboe, clarinetto e fagotto in un diffuso clima idillico: «l’eroe da vivo», diciamo, se non in famiglia. Chiuso l’idillio ritorna il Minore, ma abbreviato perché bisogna fare posto a grosse novità mentre le strutture si ampliano e si spalancano: la prima sorpresa è l’inserimento di un pezzo in stile fugato, inserimento piuttosto eteroclito in una marcia funebre; il compositore fa valere i suoi diritti, mettendo sul tavolo i dati della fuga e del contrappunto come cifra di un’alta scuola compositiva: è un altro contrassegno della classicità viennese, specialmente dopo la maggiore conoscenza di Bach e di Händel propiziata da van Swieten e messa in pratica dall’ultimo Mozart sinfonico.

Si volta pagina a preparare una nuova strofa: i violini attaccano il tema principale, e lasciati soli salgono a un La bemolle acuto, e lì si fermano come sospesi a un filo di seta; la stessa nota è ripresa in fortissimo dal fondo più nero di violoncelli e contrabbassi, che poi si muovono in tenebrose terzine, mentre i tre corni e le due trombe sovrastano tutti con la fatalità del ritmo puntato: la morte riprende il suo imperio e tutto l’episodio si può dire equivalga alla terribilità del Dies irae nella messa latina. Questa terza strofa è uscita dai confini, e il suo effetto perdura sulla ripresa del tema principale perché, pur attenuandosi gradatamente, continua il battito delle terzine scatenate nel passo precedente, che restano in aria, agli strumenti più alti, violini e flauti, e, divenute acefale per la pausa di sedicesimo, danno il senso di un respiro affannoso: un senso di masse sospinte in un andare pieno d’angoscia accompagna tutta l’ultima ripresa del tema principale. Arrivati al fondo dell’episodio, la composizione si conclude con una coda (b. 209) che svolta di colpo al maggiore di un La bemolle; i violini secondi, come nella sinfonia La pendola di Haydn, poi gli altri archi gli uni alla volta, si aprono a un gioco di lieve dondolio in cui i ricordi della Marcia funebre si stemperano in una penombra di tenerezza. Nelle ultime battute il tema principale si riduce a frammenti, si disfa e scompare in un ultimo soprassalto angoscioso; l’animo ne resta turbato ma non avvilito, al pensiero severo che tante res gestae possano sparire nel nulla.

9. Scherzo fatato.

Anche questo Scherzo taglia di netto i ponti con il suo equivalente nelle sinfonie precedenti, dove la matrice del minuetto era ancora leggibile sotto l’impazienza dello scherzo; qui la velocità dell’Allegro vivace (da battere «in uno») cancella ogni sentore di musica di danza e diventa essa stessa argomento, motivo poetico centrale della composizione: la novità assoluta è infatti l’inedita rapidità di una corsa leggera, quel pianissimo degli archi divenuto sussurro indistinto da cui salta su, come la pallina sullo zampillo della fontana, l’oboe che si associa ai violini primi per concludere il tema. Questa idea sonora «impressionistica», dove non conta più la nota singola ma il colore complessivo, è qualcosa di squisitamente orchestrale, cioè nato e pensato in orchestra e intrasferibile sul suono di qualunque altro mezzo; l’orchestra di Beethoven così spalanca un mondo nuovo, perché quel bulicare indistinto dei violini in punta d’arco, sensazione più che disegno, è già puro romanticismo: colto a volo infatti da Mendelssohn sedicenne che ne deriva la leggerezza fatata della sua ouverture per il Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare.

Il tema dello Scherzo è uno solo: all’intervento pungente dell’oboe segue la replica del flauto, ancora più acuto, quindi alcune digressioni contrappuntistiche che conducono al fortissimo liberatorio di tutta l’orchestra, finalmente nella tonalità base di Mi bemolle; questa esplosione è momentanea e avviene una volta sola, perché nell’economia del brano conta meno dell’effetto magico degli archi leggeri punteggiati dai legni (idea che tornerà senza varianti nello Scherzo della Nona sinfonia). Il Bekker vede in questo scherzo, come in molti altri di Beethoven, «un ripensamento del primo movimento», una sorta di sua rinascita nel nuovo ritmo ternario; e noteremo ancora la fecondità di questa idea a proposito dello Scherzo della Quinta sinfonia.

Sulla base di trasvolante leggerezza dello Scherzo stacca per contrasto la solida ossatura del trio, con i tre «corni obbligati» prescritti da Beethoven all’editore quando aveva già in mente il passo: tema di eroica prestanza, un po’ come nella seconda parte dell’aria di Leonore, alle parole «Ich folg’ dem innern Triebe» («Seguo l’impulso interiore»); verso la conclusione, questa fanfara militare si congeda rivolgendosi a un diverso orizzonte, con un romantico indugio sul Re bemolle del secondo corno (b. 236) in armonia di dominante; esauriti gli onori del picchetto di guardia, lo sguardo si perde per un attimo verso un punto lontano. Lo Scherzo si ripete da capo con alcune varianti che ne aumentano l’impeto ritmico e si conclude con una coda: balenante per il tambureggiare del timpano e per una sorta di lamento cromatico dei legni, che parte proprio da quel Re bemolle su cui nel trio si era arrestata la fanfara dei corni.

10. Festa di forme.

Con il finale la sinfonia torna alla sua origine, al tema di quelle Variazioni op. 35 che ne sono come un cartone preparatorio; il tema compare pure in una serie di contraddanze per pianoforte e nel finale del balletto per Salvatore Viganò Le creature di Prometeo: caso unico in tutto Beethoven di una tale tenacia fabbrile, decisa a non lasciare l’oggetto trovato prima di averne cavato tutto quanto gli sembrava possibile; ma è nelle Variazioni op. 35 che quel tema viene sottoposto a un tipo di elaborazione così serrato da rimandare la conclusione a una fase ancora ulteriore: appunto, al finale della sinfonia, che salda in una visione unitaria, veramente sinfonica, le tante proposte divergenti della forma variata e del balletto scenico.

L’Allegro molto parte da una scala discendente degli archi che nel balletto accompagna la discesa in tutta fretta di Prometeo dall’Olimpo; segue il tema in pizzicato, subito replicato in dialogo con i legni (un tocco di strumentazione che ha potuto incantare Berlioz), idea che nel balletto rappresenta i passi degli automi, le due figure d’argilla che Prometeo trasforma in creature umane; è chiaro dunque da queste corrispondenze musicali che il significato generale delle Creature di Prometeo, celebrazione di colui che ha portato le arti e le scienze fra gli uomini, si riflette sul significato di tutta la sinfonia e di questo finale in modo speciale.

Nello spazio compreso dalle quattro note che aprono il tema (bb. 12-16), riducibili allo schema tonica-dominante-dominante-tonica, si inscrivono quasi tutte le formazioni tematiche della sinfonia; l’originalità di questa presentazione, già esplicita nelle Variazioni op. 35, è che quel tema è solo il «basso del tema», che partorisce dal suo seno il «tema melodico» vero e proprio (bb. 76 sgg.); il procedimento di accreditare un tema, incominciare a variarlo, e poi mutargli il ruolo in «basso del tema», cioè accompagnamento di un nuovo «tema melodico», avvicina l’ascoltatore al tavolo di lavoro del compositore, al procedere graduale delle sue idee; lasciando, si capisce, sconcertati molti contemporanei, che giudicavano «bizzarro» quel modo di procedere a passi successivi. Ancora oggi il finale della sinfonia Eroica è considerato il più singolare di tutti i movimenti delle Sinfonie di Beethoven, per il quale sarebbe difficile «indicare un modello formale» (Egon Voss, in Ulm 1994); ma se è difficile nominarne uno, è forse più facile indicarne tre: il principio del tema con variazioni, quello della forma fugata, quello dello sviluppo sonatistico, tutti fusi insieme in un tragitto che, pur muovendosi in una libera combinazione di stili, non poteva non guardare all’aureo modello del finale nella sinfonia Jupiter di Mozart: a quella sintesi suprema fra contrappunto antico e sonata moderna, Beethoven aggiunge la forma variata per un tour de force costruttivo e conclusivo.

Anche se non esistono legami precisi fra questo finale e la musica del balletto, qualcosa di mimico, di teatrale, circola in singoli motivi o improvvisi accostamenti di idee; le tre note bussate in fortissimo di battuta 29 fanno pensare a un gesto dovuto a qualche necessità scenica (anche se poi un gusto analogo della sorpresa appare nelle Variazioni su un tema di Süssmayr, WoO76, bb. 19-20); ma ancora più vicino a un clima teatrale è il gioco con cui si alternano le apparizioni del «basso del tema» e del «tema melodico», il primo destinato a sostenere le parti in stile fugato o di sviluppo, il secondo a collegare gli episodi formalmente più impegnati con la distensione della cordialità melodica. Sono sopra tutto le solite quattro note del basso del tema, il chiasmo tonica-dominante-dominante-tonica, che sostengono gli sviluppi spingendosi in diverse tonalità; ma non si danno contrasti drammatici, tutto si assomiglia e tutto è gioioso come in una festa popolare, specie per via del tema melodico che ritorna ogni volta sorridente come in un rondò. Se ci sono contrasti sono di pura natura timbrica, scacchiere di colori opposti: dopo la variazione in Re maggiore (bb. 175 sgg.) che si conclude con una scintillante esibizione del flauto, si piomba nella tonalità di Sol minore dove sul basso del tema ai contrabbassi e violoncelli, come indica Egon Voss (Ulm 1994, p. 103), si innesta la travolgente forza ritmica di un vérbunko, una danza di corteggiamento ungherese; l’episodio corrisponde un po’ all’apparizione nel mezzo di un rondò di un episodio «alla turca» o «all’ungherese» appunto; pur essendo in minore, non c’è nulla di tragico, semmai nella massiccia pesantezza dei bassi sentirai un passo militare grottesco, da gradasso.

Alla fine di un secondo episodio fugato, tutti gli strumenti un po’ alla volta convergono su un pedale di Si bemolle (bb. 28 sgg.), come un movimento di folla che si assiepa, pigiandosi contro una serie di accordi di dominante e una grande pausa con corona: la cosa da vedere, il personaggio atteso è il Poco andante, l’episodio conclusivo della sinfonia. Il basso del tema, come avesse esaurito il suo compito, si ritira e il tema melodico resta padrone di distendersi nelle ultime variazioni; la prima intonata dai legni ha un carattere innodico, che sembra anche più intimo quando la riprendono gli archi, come la benedizione della sera dopo l’agitata festa: un senso di raccoglimento che sembra ricollegarsi all’uso di canti strofici della Rivoluzione francese, in cui l’ultimo couplet era cantato in tempo più lento e sotto voce. Ma il clarinetto giocherellone rompe il clima austero con le sue terzine a sostegno di violini e oboi, preparando la strada alla seconda variazione: quella dell’esaltazione dell’eroe a piena orchestra, incoronata dalle lame fiammanti delle trombe. Un altro compositore avrebbe finito qui; non Beethoven, che gira pagina verso la tonalità di La bemolle (b. 404) e, forse stufo di parate e tracolle, ci dà il rovescio della medaglia, illuminando un quadretto di vita intima e affettuosa. A questo punto sembra che Beethoven voglia prendere qualche precauzione per riavvicinare questo finale al resto della sinfonia; la sua freschezza e gioiosità, facendo figura di dispersione, era apparsa come un difetto ai primi recensori, e ancora fra gli ammiratori moderni non manca chi colloca il finale su un piano inferiore agli altri movimenti, ai primi due in specie. Incomincia un crescendo che, come dice Romain Rolland, «va couvrir le monde» e che riprende (b. 414) il colpo grosso dello scarto tonale di terza già lanciato nello sviluppo del primo movimento (b. 362); da qui la linea di displuvio su un lungo pedale di Sol, con archi e legni che si rispondono con le due note a singulto, evidente richiamo all’episodio centrale della Marcia funebre. Un presto che riparte dalla scala discendente del principio scaccia in breve ogni nube con la ripresa accelerata del tema melodico, le fanfare degli ottoni e i replicati accordi di Mi bemolle maggiore.

Si conclude così, alle corte, questo monumento all’inventiva e al ragionamento musicali. Ma anche a considerarla come opera rappresentativa di una età o celebrativa di una idea, forse non ce n’è un’altra, in nessuna arte, che le stia a pari per intensità e fermezza di tratti, oltre che per assenza di spargimenti retorici; nell’arte statuaria e anche nella pittura del tempo c’è sempre qualcosa di troppo lustro, di ufficialmente decorativo; meglio è riuscito Stendhal, quando Fabrizio del Dongo voltandosi per nascondere le lacrime di gioia vede in alto un’aquila, l’uccello di Napoleone, che «maestosamente» stende il suo volo verso la Svizzera e di là verso Parigi: un’intuizione che nella sinfonia Eroica prende massa e si distende nella poderosa architettura dei suoi quattro movimenti.