Prese insieme come un blocco solo, le Sinfonie di Beethoven possono far pensare al soggetto di un romanzo di formazione: con un giovane eroe che parte volenteroso per il vasto mondo, incoraggiato da parenti e amici, rivolgendo omaggi agli illustri predecessori; ma presto si scontra con il sorgere di limitazioni e ostacoli, sia sul piano privato sia su quello pubblico, che riesce tuttavia a superare a prezzo di una eroica volontà di azione; fatto uomo, può riposarsi in contemplazione della natura, ma tosto deve ripartire perché chiamato dal destino a nuove lotte e nuove conquiste; dopo tante avventure scopre la dimensione dell’umorismo, si volta a guardare all’indietro e infine, uscendo dalla sfera ristretta degli interessi personali, allarga la visuale a una dimensione sociale, celebrando idee di utilità generale: insomma, la maturità che, come è noto, è tutto.
La realtà storica, fin dove è possibile penetrarla, è leggermente diversa: la sinfonia era un genere già glorioso e celebrato quando Beethoven entra in scena, tanto che lui con avveduta cautela dilaziona il momento di mettersi sulle orme di Haydn e Mozart. Il blocco continuo comprende le Sinfonie dalla Prima alla Sesta, nel breve spazio 1800-1808, Settima e Ottava sono un poco staccate, la Nona arriva dopo un intervallo di undici anni e poteva anche non essere l’ultima, come dicono gli abbozzi interrotti di una decima sinfonia; ma alla fine, esclusi gli addetti ai lavori, per l’opinione comune quello schema evolutivo resta tuttora in piedi, creando anzi, per l’autorità di quelle musiche, un modello da usare come una chiave interpretativa anche con autori dove c’è poca o punta evoluzione. E la sua efficacia si vede sopra tutto dal fatto che il «romanzo di formazione» ha emarginato e in pratica sostituito la realtà biografica; certo, all’operazione collaborano anche sonate, quartetti, concerti, ma nelle Sinfonie l’invadenza della dimensione estetica è più evidente, quasi popolare. L’artista «annullato dietro la propria opera» andava molto in critici e scrittori in tempi di gusto metafisico; oggi non si condivide più questo entusiasmo, ma sta di fatto che, nell’attenzione del pubblico di appassionati, il modello delle Sinfonie di Beethoven in scala progressiva esaurisce la somma dei valori culturali messi in gioco da quelle opere, con un minimo sostegno di notizie storiche e biografiche.
L’annessione della musica strumentale al più vasto regno dei valori culturali, cioè non solo artistici, ma anche formativi, educativi, etici, è il risultato di una profonda rivoluzione del gusto che ha rapidamente trasformato il mondo della musica moderna; ancora negli anni settanta del Settecento, quando Beethoven è nato, la considerazione che la cultura estetica e letteraria riservava alla musica strumentale era pressoché nulla, come prodotto di puro intrattenimento, non degno di particolare attenzione per se stesso. Sempre desiderosa di rischiarare tutto, l’Età dei lumi doveva guardare alla musica, a quella strumentale in particolare, con un certo sospetto per i suoi lati indefiniti, inafferrabili, oscuri; anche la musica vocale in verità, oggetto di assidue riflessioni e di interminabili (e spesso inutili) polemiche, veniva considerata soltanto in ragione diretta dell’imitazione dei sentimenti espressi dalle parole intonate; ma la musica strumentale, priva del soccorso orientativo delle parole, era qualcosa di inesplicabile («Sonate, que me veux-tu?», dicevano i filosofi razionalisti), e restava nel migliore dei casi una occasione di diletto, un accarezzamento dell’orecchio per scacciare più gravi pensieri. Invece, senza ricorrere a manifesti o programmi di riforma, negli ultimi due decenni del Settecento quell’ansia di ragionamento e di chiarezza s’impossessava anche della musica strumentale, della musica «assoluta», cioè sciolta dalla parola; anzi, si può dire che proprio in quegli anni la musica si sia avvicinata come non mai all’ideale di una forma concettuale (anche se paradossalmente vuota di concetti), di un linguaggio articolato capace di ogni sfumatura espressiva, eppure del tutto autonomo e libero da riferimenti estramusicali.
Questa trasformazione è frutto precipuo, anche se non esclusivo, di quel momento della storia della musica che va sotto il nome di Wiener Klassik, «classicità viennese», perché ha trovato il suo centro nella città di Vienna e il suo culmine creativo nella produzione di Haydn, Mozart e Beethoven che fecero della città imperiale la sede della loro attività. Per quanto riguarda la sinfonia, le prime vette di questa epoca aurea sono le sei Sinfonie «parigine» (1785-86) e le dodici «londinesi» (1791-95) di Joseph Haydn; per le sinfonie di Mozart lo sguardo va con riguardo speciale alla Sinfonia K 504, detta Praga (1786), e alle tre dell’agosto 1788, K 543, K 550 e K 551, che fissano un canone della sinfonia valido ancora nell’Ottocento di Schumann e Mendelssohn; non meno importanti i suoi concerti per pianoforte e orchestra, specie quelli composti dal 1782 in avanti, in cui la presenza del pianoforte (che lui stesso suonava come solista, entusiasmando il pubblico viennese) creava un dialogo fra strumenti diversi che contribuì grandemente a dare flessibilità formale al linguaggio sinfonico. In questa maturazione confluiscono esperienze culturali favorite da un ambiente fervido di incontri e scambi internazionali: per Haydn e Mozart, ad esempio, la conoscenza della musica di Johann Sebastian Bach, avvenuta a Vienna intorno al 1782, sarà uno stimolo di somma importanza per la definizione del loro ultimo stile; ma nel conto entra anche il contributo di autori minori, di nuove istituzioni concertistiche, di intenditori e dilettanti, tutti riuniti in un codice comunicativo che resterà un modello compositivo e didattico per molte generazioni. Vienna e la classicità viennese: si può pensare per la vita dell’arte musicale a qualcosa come l’Atene classica o la Firenze del Rinascimento, quali mitici esempi di perfetta concordia fra la città e l’artista, dove spirito del singolo e spirito del tempo soffiano nella stessa direzione.
Anche la sinfonia all’inizio è musica da camera; fra il 1740 e il 1770 si vede la sinfonia settecentesca distaccarsi poco alla volta in tutta Europa dal concerto barocco; l’alternanza a incastro di «concerto grosso» o «tutti» e «concertino» o «soli», cioè due corpi sonori di diversa composizione, tende a essere rimpiazzata da un organismo unitario in cui al dominante gruppo degli archi (violini primi e secondi, viole, violoncelli e contrabbassi) si affiancano come sostegno coppie di strumenti a fiato, dapprima due corni, due oboi, due fagotti; quindi l’aggiunta di clarinetti, flauti, trombe e timpani: è un dato notevole, e significativo per intendere lo spirito dell’epoca, che questo organico resti sostanzialmente lo stesso passando dalle sinfonie di Haydn, a Mozart e Beethoven. La tendenza al corpo sonoro unitario è strettamente connessa, se non addirittura motivata, da una concezione formale, da un modo di costruire una composizione che è il fulcro pensante della classicità viennese, la così detta «forma sonata»: che, sintetizzando al massimo, diciamo articolata in tre parti – esposizione, sviluppo e ripresa –, con termini derivati dall’arte oratoria, dei quali si intuisce il significato («ripresa» è ripresa dell’esposizione). Ora, mentre nella esposizione e nella ripresa il compositore segue uno schema prestabilito dalla tradizione, nello sviluppo segue una via stabilita da lui stesso, libera, ma non capricciosa o improvvisatoria, e quindi ispirata a una forte coerenza e organicità: sviluppare infatti significa scoprire tutte le potenzialità dei temi presentati nell’esposizione collegandoli in un discorso complesso e contrastato.
La dialettica del contrasto, già presente nell’esposizione fra un primo tema e un secondo di carattere diverso, diventa la vera leva dello sviluppo e si afferma anche nei vari tempi o movimenti che costituiscono nel loro insieme una sinfonia: alle origini articolata in tre movimenti, uno veloce (Allegro), uno in tempo moderato (Andante o Adagio), l’ultimo ancora veloce; spesso questo terzo era in tempo di Minuetto, imprestato dalla suite di danze; ma la soluzione suonava poco conclusiva, per cui apparve anche un quarto movimento, anch’esso veloce, conservando però il Minuetto al terzo posto. Questa in quattro movimenti è la forma standard di una sinfonia di fine Settecento, quella che Beethoven si trova pronta fra le mani e che lui stesso condurrà avanti con alcune modificazioni interne di grande portata, ma senza sconvolgere il quadro formale esterno. Così fecero anche Haydn e Mozart prima di lui: l’apporto di Mozart nell’Adagio o Andante è quello di un «cantabile» dall’apertura di respiro melodico sconosciuta ai contemporanei, e derivata senza dubbio dalla passione che Mozart nutriva per il canto italiano, per i cantanti italiani, conosciuti sul campo nei suoi viaggi da adolescente, ma poi presenti in tutte le città europee; mentre l’apporto di Haydn si misura sopra tutto sui finali, in cui immette una carica di giocosità nuova, spesso schiettamente umoristica; una giocosità che si dissemina, con sorprese e burle, lungo l’itinerario della sua sinfonia, altrimenti nitido come una pianta topografica. In ogni caso, Haydn e Mozart: basta nominarli per avere di fronte un miracolo di equilibrio, di proporzioni formali concluse e armoniose, di fondamentale serenità, non ostante momenti di turbamento, agitazione, malinconia e inquieta passione.
I rapporti di Beethoven con i suoi due grandi predecessori nella Wiener Klassik sono compendiati in un celebre augurio formulato da un protettore di Beethoven, il conte Waldstein, quando il giovane compositore nel 1792 era in procinto di lasciare Bonn per recarsi a Vienna: l’augurio di «ricevere lo spirito di Mozart dalle mani di Haydn», che era poi un invito a seguire una rotta a preferenza di altre, la via del sonatismo che si articolava in sonate quartetti e sinfonie; con Mozart, scomparso nel 1791, l’appuntamento era perduto, ma di Haydn divenne allievo diretto, anche se non esclusivo, studiando anche (e forse con maggior profitto) con maestri meno noti e meno occupati, come Johann Schenk e Johann G. Albrechtsberger; negli anni di Bonn l’influenza di Mozart è più forte di quella di Haydn, mentre a Vienna l’influenza di Haydn prende il sopravvento.
Di alcune opere mozartiane, le ultime sinfonie, gli ultimi dieci concerti per pianoforte e orchestra, i quartetti del 1785, la musica da camera con pianoforte, Le nozze di Figaro, il Don Giovanni e Il flauto magico, Beethoven letteralmente era compenetrato, derivandone molti presupposti. In Mozart, ad esempio, Beethoven troverà già costituita la personalità di molte tonalità: il Do minore della Quinta sinfonia, il Mi bemolle maggiore della Sinfonia Eroica sono scelte tattiche compiute sulle orme di capolavori mozartiani impiantati in quelle tonalità; e un tirocinio sui testi mozartiani dura a lungo, se ancora nel 1798 Beethoven ricopia di sua mano una sezione del Quartetto K 387, il primo della gloriosa serie dedicata a Haydn.
Sulla piattaforma delle Sinfonie di Beethoven la società musicale europea ruota su se stessa, completando in modo definitivo la trasformazione da società aristocratica a società borghese moderna; allo stesso tempo si definisce la figura del direttore d’orchestra, e la sinfonia diventa il genere strumentale per eccellenza; certo, la trasformazione era già in atto da anni, basta pensare alla doppia tournée a Londra di Haydn, o ai successi di Mozart con i suoi concerti per pianoforte e orchestra fra il pubblico borghese di Vienna, ma con le Sinfonie di Beethoven si entra in una fase in cui quelle premesse si amplificano e si stabilizzano in modo irreversibile. La presenza di un pubblico attorno all’opera musicale si fa sentire anche nell’opera stessa: già in molte sinfonie di Haydn, di cui sono eco i titoli che le accompagnano (La caccia, La sorpresa, Con colpo di timpani, La pendola ecc.), agisce la volontà di fare effetto sul pubblico con qualcosa fuori dell’ordinario; Mozart a sua volta amava rivolgersi direttamente agli ascoltatori suonando il pianoforte nei suoi concerti; ma alcuni momenti famosi di Beethoven – il crescendo della Quinta sinfonia che conduce al finale, l’esplosione del timpano solo nello Scherzo della Nona – suppongono la presenza di un pubblico che non poteva più essere contenuto nelle sale da musica dei palazzi aristocratici. Il culto dell’interiorità coltivato più tardi dal romanticismo, l’orrore del virtuosismo, tenderà a considerare come secondari se non superficiali questi effetti, questo parlare a tu per tu, fuori dagli schemi; che invece in quella precisa età storica segnavano una nobile ansia di partecipare, di farsi comprendere a tutte lettere da una massa casuale di pubblico, fatta di intenditori, semplici appassionati, ammiratori fedeli e curiosi di passaggio.
L’orchestra delle Sinfonie di Beethoven esercita per lo più le sue novità, le sue finezze e i suoi colpi di teatro all’interno della composizione, servendosi, come già accennato, di una compagine che nelle linee generali è ancora quella delle ultime sinfonie di Mozart e Haydn. Il gruppo degli archi resta dominante e impostato sul modello del quartetto amplificato; da un certo punto in avanti violoncelli e contrabbassi, finora sempre assieme, possono procedere separati, su parti autonome; costanti anche i fiati a coppie; eccezioni: un flauto solo nella Prima e nella Quarta sinfonia, tre corni nella sinfonia Eroica, quattro nella Nona; lo spettro sonoro aumenta decisamente nella Quinta, con l’entrata di tre tromboni, controfagotto e ottavino a tempo debito, e nel finale della Nona dove agli ultimi strumenti citati si aggiunge la «musica turca» di piatti, triangolo e gran cassa.
Con le Sinfonie di Beethoven, nel lavoro di tensione e chiarificazione interna del loro testo, prende contorni sempre più precisi, come anticipato, la nuova figura del direttore d’orchestra: compositori contemporanei o quasi di Beethoven, come Louis Spohr e Carl Maria von Weber, già violinisti o pianisti acclamati, praticano anche la direzione con una evidente consapevolezza del nuovo mestiere. Nei primi decenni dell’Ottocento la direzione d’orchestra aveva ancora qualcosa di pittoresco e bizzarro, e vigevano pratiche diverse a seconda dei luoghi e dell’importanza delle partiture; per lo più, nella musica puramente strumentale, il direttore era il primo violino, anche perché la sezione dei violini, di solito incaricata della melodia o del tema principale, era quella che sosteneva il filo del discorso; dirigeva continuando a suonare, segnando il tempo e dando gli attacchi con l’archetto; altri usavano una bacchetta di legno, o di cuoio, meno rumorosa da battere sul leggio, o un rotolo di carta, o il bâton alla francese, o dirigevano a mani nude. In partiture che prevedevano l’intervento di voci, sole o in coro, e in genere nella musica sacra, interveniva anche il maestro di cappella come secondo direttore, sovraintendendo dal cembalo per sostenere le voci e rinforzare le armonie; anche Haydn a Londra diresse le sue «Londinesi» seduto al cembalo, anche se la sua orchestra non aveva più bisogno di rinforzi o puntelli esterni. I due più affidabili violinistidirettori attorno a Beethoven erano Ignaz Schuppanzigh e Franz Clement; ma per il primo violino, a mano a mano che la musica si complicava, suonare e dirigere insieme diventava sempre più faticoso, senza contare dissapori e contrasti con il maestro di cappella. In una lettera del 7 gennaio 1809 scrive Beethoven a Breitkopf & Härtel di Lipsia: «durante la rappresentazione dell’opera Milton [di Gaspare Spontini], opera breve e facile, l’orchestra è andata per i fatti suoi a tal punto che il maestro di cappella, il primo violino e l’orchestra hanno fatto letteralmente naufragio – perché il maestro di cappella, invece di dare l’attacco in anticipo, lo ha dato in ritardo, e il primo violino gli è andato dietro» (Epistolario, II, p. 59). Nel 1824 alla prima esecuzione della Nona sinfonia a Vienna l’orchestra era diretta da Schuppanzigh e il coro e le voci dal maestro di cappella Ignaz Umlauf; e la pratica della doppia direzione, così come l’incombenza per il violinista di dirigere e suonare allo stesso tempo, andrà avanti ancora a lungo, almeno fino agli anni quaranta-cinquanta dell’Ottocento, per scomparire soltanto nella seconda metà del secolo. È indubbio che a compiere il passo decisivo di mettere un’opera in mano a un direttore unico, responsabile di tutto, abbiano contribuito in modo determinante le Sinfonie di Beethoven, una volta che la loro circolazione arrivò a condizionare la prassi esecutiva di tutta la vita concertistica europea. In tal senso agì con particolare influenza il peso della concezione unitaria che plasma il sinfonismo beethoveniano; concezione già presente in Mozart e Haydn, ma che con Beethoven si fece sentire con una persuasione rinforzata anche dalla retorica; la traiettoria dell’azione unitaria di una sinfonia, una volta entrata nella pelle degli esecutori, non poteva più tollerare la doppia direzione: una sinfonia Eroica, una Quinta, una Pastorale, affidate alle diversità d’opinione o alle rivalità del maestro di cappella e del primo violino? Non riusciamo davvero a immaginarlo.
Beethoven, che continuò per un po’ la carriera di pianista in esibizioni pubbliche, fu impedito dalla sordità crescente a praticare la direzione d’orchestra; alcune testimonianze restano a ricordare le situazioni imbarazzanti in cui si trovò provando a dirigere quando ancora sentiva, ma già in modo imperfetto (la sordità totale arrivò solo dopo il 1816 circa). Assisteva però alle prove, rendendosi perfettamente conto di quanto succedeva, tanto da intervenire, se era il caso, a interrompere l’esecuzione: come ricorda il vivace quadretto riportato in alcune righe della lettera sopra citata: «I musicisti [del Theater an der Wien] sono rimasti particolarmente scossi per il fatto che, avendo l’orchestra commesso per pura negligenza un errore nel passaggio più elementare e chiaro di questo mondo, io, di colpo, feci interrompere l’esecuzione, intimando a gran voce: Ancora una volta – A loro una cosa del genere non era mai successa; il pubblico invece mostrò di divertirsi» (Epistolario, II, p. 60).
Infine, il modo in cui una sinfonia di Beethoven si presentava al pubblico contemporaneo rappresenta molto bene la situazione di transizione fra tempi e costumi vecchi e nuovi in cui nasceva. Dedicate a illustri esponenti dell’aristocrazia austro-ungarica (salvo la Nona che reca la dedica al re di Prussia), le Sinfonie di Beethoven dalla Prima all’Ottava restavano per un po’, almeno nominalmente, proprietà riservata del dedicatario; il quale aveva il privilegio di tenere per sé l’opera, facendola eseguire nelle sale dei suoi palazzi cittadini o residenze fuori dalla capitale (esecuzioni private molto utili a Beethoven per introdurre varianti e miglioramenti nell’opera); dopo qualche mese, di solito sei, la nuova sinfonia veniva presentata al pubblico comune in concerti, denominati «accademie», organizzate dal compositore stesso. A sinfonia non ancora completata, squadre di copisti erano già al lavoro per ricavare dalla partitura autografa le singole parti dell’orchestra (violini, violoncelli, oboi, corni ecc.) indispensabili per l’esecuzione; tutte le prime esecuzioni delle Sinfonie di Beethoven avvennero leggendo da copie manoscritte della partitura e delle parti separate; l’edizione a stampa arrivava uno o due anni dopo, in alcuni casi anche più tardi, quando ormai la composizione circolava da tempo in trascrizioni e riduzioni per pianoforte a quattro mani, o per duo, trio, quintetto o altri complessi cameristici, per un pubblico che se la suonava a casa propria. Nel 1817, quando aveva già composto tutte le sue Sinfonie salvo la Nona, Beethoven pubblicò a Vienna e a Lipsia («AmZ», 17 dicembre 1817) le indicazioni del metronomo, da poco entrato in uso, relative ai movimenti delle otto Sinfonie scritte fino allora. Ma non ne aveva una grande considerazione sostenendo che potevano al massimo dare un’idea dell’aspetto esteriore, ma non dell’anima della composizione.