QUANDO GLI ANIMALI COMBINANO GUAI

 

 

 

Perché incomincio proprio dal lato più sgradevole della nostra convivenza con gli animali? Perché il nostro amore per loro si misura proprio dai sacrifici cui siamo disposti a sobbarcarci. Sarò eternamente grato ai miei pazienti genitori che si limitavano a scuotere il capo o a sospirare rassegnati quando, scolaretto o giovane studente, portavo a casa un ennesimo coabitante, prevedibilmente turbolento. E che cosa non ha sopportato mia moglie nel corso degli anni! Chi mai oserebbe infatti imporre alla consorte di lasciar circolare liberamente per casa un ratto domestico, che coi denti strappa tanti bei pezzettini dalle lenzuola per tappezzare la tana; o di permettere a un cacatua di beccar via tutti i bottoni dalla biancheria stesa in giardino; o di accogliere, per la notte, in camera da letto, un’oca selvatica addomesticata, per lasciarla poi volar via dalla finestra al mattino? (Sia detto qui per inciso che le oche selvatiche non sono minimamente educabili per quanto riguarda la pulizia!). E che direbbe una moglie scoprendo che quelle graziose macchioline blu seminate dagli uccelli su tutti i mobili e i tendaggi dopo una gustosa merenda di mirtilli non hanno alcuna intenzione di scomparire? Che direbbe se… e potrei continuare così per venti pagine.

«Ma sono proprio necessari tutti questi disagi?» mi chiederete; e io risponderò con un energico e convintissimo «sì». Naturalmente si possono tenere in casa degli animali anche rinchiudendoli in gabbie da salotto, ma gli animali superiori dotati di una più vivace attività mentale si imparano a conoscere solo se si dà loro la possibilità di muoversi liberamente. Come sono tristi e inibiti in gabbia un lemuride, una scimmia o un grosso pappagallo, e come sono invece incredibilmente vivaci, divertenti e interessanti in piena libertà! Però bisogna essere preparati anche ai loro disastri. La mia specialità è stata da sempre (se non altro per motivi di metodologia scientifica) quella di allevare animali superiori nella libertà più illimitata, ed è in queste condizioni che ho condotto la maggior parte delle mie ricerche.

Ad Altenberg le gabbie e le reti avevano una funzione opposta a quella che hanno di solito: dovevano cioè impedire che gli animali entrassero in casa o in giardino. Ad essi era inoltre severamente vietato di trattenersi all’interno del reticolato che circondava le nostre belle aiuole. Ma, come avviene coi bambini, così anche gli animali più intelligenti sono magicamente affascinati da tutte le cose proibite. E per di più le oche selvatiche, con il loro splendido attaccamento all’uomo, anelano sempre alla sua compagnia. Così ogni momento, in men che non si dica, ci trovavamo circondati da venti o trenta oche selvatiche che venivano a pascolare sulle aiuole, o, ancor peggio, che facevano irruzione sulla veranda salutandoci con forti schiamazzi. E purtroppo è estremamente difficile tener lontano da un dato luogo un uccello capace di volare, ma privo di qualsiasi timore nei confronti dell’uomo; a nulla servono le grida più selvagge, i più energici movimenti con le braccia. L’unico mezzo intimidatorio di una certa efficacia era un enorme ombrellone rosso scarlatto: simile a un cavaliere con lancia in resta, mia moglie, l’ombrello chiuso sotto il braccio, piombava sulle oche che avevano ripreso a pascolare sull’aiuola appena seminata e, gettando un grido bellicoso, l’apriva con mossa repentena. Questo era troppo perfino per le nostre oche, che si levavano in aria starnazzando. Purtroppo però mio padre rendeva totalmente vani tutti gli sforzi pedagogici di mia moglie nei riguardi di questi volatili: il vecchio gentiluomo era molto amante delle oche selvatiche, in particolare dei paperi, a causa del loro comportamento coraggioso e cavalleresco, e nulla quindi poteva dissuaderlo dall’invitarle tutti i giorni a prendere il tè sulla veranda. Essendo a quell’epoca già assai debole di vista, delle conseguenze materiali della visita egli si accorgeva a malapena solo se vi metteva proprio dentro il piede! Un giorno, dunque, recatomi in giardino all’imbrunire, vidi con stupore che quasi tutte le oche mancavano. Con foschi presentimenti mi precipitai nello studio di mio padre, e che cosa vidi? Sul magnifico tappeto persiano ventiquattro oche facevano cerchio attorno al mio vecchio che, seduto alla scrivania, beveva il tè, leggendo tranquillamente il giornale e offrendo ai volatili un pezzo di pane dopo l’altro. Questi erano un poco innervositi dall’ambiente sconosciuto, con conseguenze evidenti e spiacevoli per la loro attività intestinale: al pari di altre bestie che devono digerire molte fibre vegetali, anche le oche hanno, infatti, un intestino cieco assai sviluppato in cui certi batteri scindono la cellulosa rendendola assimilabile all’organismo. Di solito per ogni sei-otto evacuazioni normali ce n’è una dell’intestino cieco, che ha un odore particolarmente acre e un colore verde scuro assai intenso. Ma se un’oca selvatica è agitata o innervosita, c’è un susseguirsi ininterrotto di scariche di questo genere. Più di undici anni sono trascorsi da quella visita delle oche, e le macchie sul tappeto sono sempre là, anche se il loro colore, da verde scuro, si è fatto verde giallastro.

Gli animali vivevano dunque in piena libertà, ma anche in gran confidenza con tutti noi, e caso mai c’era da guardarsi proprio dai loro eccessi di confidenza. All’esclamazione che altrove è consueta: «L’uccello è fuggito dalla gabbia, presto, chiudi la finestra!», si contrapponeva il nostro grido di allarme: «Per l’amor di Dio, chiudi la finestra, il cacatua (oppure il corvo, il maki, o la scimmia cappuccina) vuol venire dentro. Ma la più bella applicazione del principio «della gabbia all’inverso» la escogitò mia moglie quando il nostro primogenito era molto piccolo. Tenevamo allora alcuni animali grossi e potenzialmente pericolosi: dei corvi imperiali, due cacatua dal ciuffo giallo, due maki e una scimmia cappuccina, tutti soggetti, soprattutto i corvi, che non era opportuno lasciare soli con il bambino. Così mia moglie in quattro e quattr’otto sistemò in giardino una grossa gabbia, e vi pose dentro… il pargoletto!

Purtroppo gli animali superiori hanno una capacità e una tendenza a combinar disastri direttamente proporzionale alla loro intelligenza. Quindi soprattutto le scimmie antropoidi non possono essere lasciate a lungo incustodite. Coi lemuridi però, e soprattutto con il delizioso maki, che per molti anni è stato un nostro caro e divertente coabitante, la cosa è possibile, perché in loro l’interesse di ricerca e la curiosità nei confronti degli oggetti domestici sono ancora scarsi. Invece le vere scimmie, anche se filogeneticamente inferiori come quelle del Nuovo Continente (platirrine), hanno un interesse ardente verso ogni nuovo oggetto, e se ne servono per ogni sorta di «esperimenti». Per quanto importante dal punto di vista della psicologia animale, ciò diventa alla lunga finanziariamente insostenibile, come dimostrerò con un solo esempio.

Da giovane studente, quando abitavo ancora presso i miei genitori a Vienna, avevo uno splendido esemplare di scimmia cappuccina (Cebus fatuellus), una femmina di nome Gloria, che stava in una gabbia assai spaziosa nella mia camera. Quando io ero a casa e potevo quindi sorvegliarla, Gloria aveva il permesso di circolare liberamente per la stanza, ma quando dovevo uscire la chiudevo in gabbia, dove essa si annoiava a morte ed escogitava ogni sorta di espedienti per uscire al più presto. Rientrando una sera dopo un’assenza un po’ prolungata, girai l’interruttore della luce, ma tutto rimase buio come prima, e il riso sommesso di Gloria, proveniente non dalla gabbia, bensì dal supporto della tenda, non lasciava dubbi sulla causa e sull’autore del guasto. Tornai con la candela accesa, e ai miei occhi esterrefatti si presentò la scena seguente: Gloria aveva tolto la pesante lampada di bronzo dal tavolino da notte, l’aveva trascinata attraverso tutta la camera (purtroppo senza staccare la spina dalla parete), l’aveva sollevata sopra il più alto degli acquari, e sbattuta violentemente contro la grossa lastra di vetro, facendola poi cadere nell’acqua, donde il corto circuito. In seguito, o forse anche prima, Gloria aveva aperto la serratura della mia libreria (impresa stupefacente date le minuscole dimensioni della chiave), ne aveva estratto i volumi 2° e 4° del Trattato di medicina interna dello Strümpell, li aveva portati presso l’acquario, riducendoli in briciole e riempiendone con indefesso zelo la vasca. Sul pavimento giacevano le rilegature vuote, senza neppure il più piccolo frammento di pagina. Nella vasca galleggiavano tristi anemoni di mare coi tentacoli pieni di carta…

Ma l’aspetto più interessante di questo «esperimento» era l’assoluta precisione con cui era stato condotto: la scimmia doveva aver dedicato un tempo considerevole all’impresa, che, anche solo dal punto di vista fisico, era certo ragguardevole per un animale così piccolo. Soltanto piuttosto costosa!

Qual è dunque l’aspetto positivo che fa da contrappeso a questi fastidi e guai infiniti provocati dagli animali che circolano liberamente per casa?

A prescindere dalle ragioni metodologiche, che per certe ricerche di psicologia animale esigono soggetti psichicamente sani e immuni dalle influenze dannose della cattività, l’animale in libertà, che potrebbe fuggire e invece rimane perché mi è affezionato, costituisce per me una fonte di gioia ineffabile. Quando, passeggiando lungo la riva del Danubio, mi giunge il richiamo sonoro del corvo, e al mio grido di risposta il grosso uccello, lassù in cielo, ripiega le ali, si butta a capofitto facendo sibilare l’aria e poi, con una brusca frenata, viene a posarsi dolcemente sulla mia spalla, ciò mi ricompensa di tutti i volumi lacerati, e di tutte le uova di anitra svuotate che il mio corvo ha sulla coscienza. E il fascino di questa esperienza non svanisce con il passare del tempo, anche se l’uccello di Wotan è divenuto per me un compagno abituale, come per altri lo sono il cane o il gatto: e un animale che mi è divenuto amico non mi riempie di gioia soltanto per ciò che mi dona in quel dato momento, ma anche per tutti i ricordi che risveglia in me. Ecco, mi viene in mente un mattino nebbioso, all’inizio della primavera, in cui camminavo sulla riva del Danubio. Lungo la corrente ancora invernale, magra e nerastra, vennero volando dei quattrocchi, degli smerghi maggiori e minori, qualche stormo di oche granaiole, e fra loro, come se appartenessero alla stessa famiglia, uno stormo di oche selvatiche. Io vedo che alla seconda oca, nella fila sinistra dello schieramento triangolare, manca una penna primaria, e in un attimo mi balena alla memoria tutto ciò che so di quell’oca e della sua penna primaria spezzata, tutto quanto era accaduto un giorno. Perché, naturalmente, si trattava delle mie oche selvatiche che tornavano: non ce ne sono altre sul Danubio, neppure all’epoca delle migrazioni.

Dunque, il secondo uccello nella fila sinistra della falange triangolare era il mio papero Martino. Martino a suo tempo si era fidanzato con la mia oca addomesticata Martina, ed era quindi stato battezzato col nome di lei (prima non era che un numero, perché solo le oche da me allevate ricevevano un vero nome). Presso le oche selvatiche il giovane fidanzato suole seguire letteralmente ogni passo della sua promessa. Martina però si muoveva con gran disinvoltura per tutte le stanze della nostra casa, senza preoccuparsi del fidanzato che, cresciuto in libertà, era costretto ad avventurarsi in regioni a lui ignote. Se si pensa alla ripugnanza che hanno le oche selvatiche, uccelli che amano gli spazi aperti, a spingersi anche solo fra i cespugli o sotto gli alberi, Martino ci apparirà come un piccolo eroe: col collo teso seguì un giorno la sua amata attraverso la porta principale, fin nell’ingresso, e poi su per le scale, fino in camera da letto. Mi sembra ancora di vederlo ritto in mezzo alla stanza, con le penne appiattite contro il corpo dalla paura, il becco spalancato, tremante per la tensione, sfidare orgogliosamente il grande ignoto fischiando a pieni polmoni! In quel momento, dietro di lui si chiuse improvvisamente la porta con un colpo violento. Neppure un eroico papero avrebbe potuto rimanersene ancora saldo sulle sue gambe: prese il volo e andò dritto a sbattere contro il lampadario; questo perse parecchi ciondoli e il cavaliere Martino una penna primaria.

Ecco quello che sapevo sulla penna primaria mancante alla seconda oca della fila sinistra. Ma sapevo anche altre cose, ancora più consolanti: sapevo per esempio che, quando sarei rientrato dalla passeggiata, le oche sarebbero state lì sulla scala, davanti alla veranda, e mi avrebbero salutato col collo proteso: un gesto che per le oche ha lo stesso significato dello scodinzolare del cane.

E mentre ancora seguivo con lo sguardo le oche che volavano basse sull’acqua e scomparivano alla prossima curva del fiume, fui improvvisamente colto da quel senso di meraviglia per le cose note e familiari che è all’origine della filosofia. Provai in me un profondo stupore per la possibilità di una tale dimestichezza con un uccello libero e selvatico, e la constatazione di questo fatto mi rese stranamente felice, come se con ciò si fosse potuto un poco riparare alla cacciata dall’Eden.

Ora, dopo i bombardamenti, i corvi se ne sono andati via da Königsberg, mia ultima sede d’insegnamento, e così pure le oche selvatiche, emigrate chissà dove. Di tutti i miei uccelli selvatici sono rimaste solo le taccole, i primi volatili che ho allevato ad Altenberg. Questi miei perenni compagni continuano a intrecciare i loro voli attorno al tetto, e il loro sonoro richiamo, di cui comprendo ogni inflessione, continua a echeggiare nel mio studio attraverso le canne del calorifero. Ogni anno essi continuano a intasare i camini con i loro nidi, e a irritare i vicini danneggiandone i ciliegi.

Comprendete ora che i guai e i disagi ci sono ripagati non solo dai risultati scientifici, ma anche da qualcosa di molto, molto più grande?