12.

Fumava anche lei. Abbiamo iniziato insieme, poi ha smesso, e dopo se la prendeva con me che ho continuato. Fumare era l’unica soddisfazione della mia giornata. Mi alzavo presto, la mattina, c’era solo mia suocera in piedi, ma non ci disturbavamo. Bevevo il caffellatte, mi lavavo e uscivo di casa con un solo pensiero: fermarmi nel parcheggio del cimitero a fumare una sigaretta. La prima della giornata, in piedi, era la migliore di tutte. Che piovesse o ci fosse il sole, facesse caldo o freddo, tirasse maestrale o non si muovesse foglia, io prima di andare a prendere la corriera mi fermavo nel parcheggio del cimitero: toglievo una sigaretta dal pacchetto e me la godevo in pace e tranquillità.

Non fumavo tanto e ogni sigaretta scandiva un momento preciso della giornata. Della prima ho già detto. Poi c’era quella delle dieci e un quarto, in pausa. Altre due all’ora di pranzo, una prima di mangiare e una dopo il caffè, preciso e regolare, come se fosse una medicina. Un’altra la fumavo quando andavo via dall’ufficio e un’altra ancora, spesso l’ultima, quando tornavo a Sinnai, scendevo dalla corriera e mi fermavo di nuovo nel parcheggio del cimitero. A casa fumavo di rado, quando la signora si addormentava e io riuscivo a sgattaiolare fuori e non farmi beccare. Sembravo un adolescente. Fosse stato per me avrei fumato di continuo, in faccia a lei e sputandole addosso il fumo, ma mi mancava il coraggio. E soprattutto non avevo voglia di sentire i suoi commenti, i suoi rimproveri. Le sue urla.

“Non lo capisci che papà è stato male per colpa delle sigarette?” mi chiedeva con il tono di chi non si aspetta risposte.

Era un rimprovero e io come tale lo prendevo.

“Vuoi stare male anche tu? – continuava – Non ci pensi a noi due?”

Era bravissima a fare la vittima.

In realtà il padre aveva fumato moltissimo fin da ragazzino, salvo poi smettere di colpo un giorno che gli era venuto un mezzo infarto – un quarto di infarto, a essere larghi – una sorta di affaticamento che lo aveva quasi fatto svenire. Si era impaurito parecchio e il medico gli aveva spiegato che la colpa, tra le altre cose, era anche delle sigarette. Be’, lui con le altre cose aveva continuato – vita sedentaria intervallata da eroiche giornate di fatica senza senso, vino a pranzo e cena, quel vino schifoso che faceva lui – e si era fermato solo con le sigarette. Erano quelle la causa di tutto e, siccome non fumava più lui, allora nessun altro avrebbe dovuto farlo. Cretino chi avesse continuato, io per primo.

“E poi costa un sacco di soldi.”

Cosa avrei dovuto dire? Che le sigarette me le pagavo con il lavoro che facevo? No, meglio lasciar perdere. Meglio godermi quelle poche sigarette della giornata e sperare che mia moglie giacesse sul divano, in modo tale da fumarne un’altra prima di andare a dormire.

“Hai fumato ancora?”

Io scrollavo le spalle, mugugnando qualcosa di incomprensibile.

“Si sente la puzza, fammi sentire.”

Non riusciva ad avvicinarsi a me. Ero io che mi dovevo chinare su di lei, trattenendo il fiato il più possibile per non dare adito a ulteriori recriminazioni.

“Puzzi. Perché fumi? Perché non smetti come ho fatto io?”

Io continuavo a mugugnare e a non dire niente, di solito a lei andava bene così. Le bastava cogliermi in fallo, si accontentava di avere ragione e mostrarmelo, soprattutto se là attorno c’erano il padre e la madre. A volte però si accaniva.

“Rispondi, cazzo! Perché non rispondi? Perché fumi?”

“Solo una”, dicevo io.

“Ma solo una cosa? Che cosa stai dicendo? Sento la puzza tutti i giorni, quando torni, e la sento anche sulla roba che ti lavo.”

Era una balla, lo sapevo benissimo: mai fatta una lavatrice in vita sua.

Io, quando aveva smesso lei, avevo provato a imitarla. Era il periodo in cui cercavamo di avere il bambino e rispettavamo ossequiosamente i dettami dei medici che interpellavamo. Il fumo era causa di infertilità, ne eravamo coscienti, e perciò cercammo di eliminarlo. Lei ci riuscì subito, io invece faticai tantissimo e alla fine capitolai, riaccendendomi una sigaretta. La forza di volontà di mia moglie mi sorprese e anche adesso, se penso a quei momenti, capisco quanto si fosse intestardita per restare incinta. Se avesse messo un centesimo dell’abnegazione che ha dedicato alla ricerca della maternità al rispetto di una dieta, avrebbe pesato sì e no quaranta chili. Anche io volevo un bambino, ma allo stesso tempo ero consapevole di non essere il problema. Prendevo gli insulti, incassavo le accuse, deridevo interiormente le gite a San Giovanni Rotondo e le scopate a lume di candela, e non credevo minimamente che quelle dieci sigarette scarse che fumavo ogni giorno avessero effetto sul mio apparato riproduttivo. Avevo ragione.

Smisi di fumare per diciotto giorni. Il diciannovesimo era quello del responso dell’urologo. Il mio sperma era a posto, nessun problema. La mia signora, sconvolta dalla notizia, – non poteva accusarmi, non di quello almeno – la prese malissimo e mi lanciò tanti di quegli insulti da farmi venire le lacrime agli occhi anche ora che ci ripenso. Ero seduto in cucina e incassavo gli improperi. Ma non l’ascoltavo con attenzione, nella mia testa c’era solo un’idea: fumare, fumare, fumare. Mi alzai, uscii di casa e andai al tabacchino. Diana Blu, come sempre, e che i tentativi di procreare andassero pure a quel paese, io non avrei di certo smesso per favorire la nascita di un povero bambino.

Se ripenso agli ultimi anni della mia vita, prima di entrare qua dentro, i migliori momenti sono quelli con una sigaretta in mano. Non ho la fortuna di saper apprezzare un piatto ben cucinato, né tanto meno un vino, anzi, il fatto che mio suocero lo facesse me li faceva odiare tutti. Avevo smesso di leggere e non ascoltavo più musica. Per fidanzarmi – e poi sposarmi – ho messo da parte i pochi interessi che avevo e ho disimparato ad apprezzare l’idea di fare cose nuove. Accendere una sigaretta, aspirare con forza, sentire il fumo che inonda la bocca, poi i polmoni, ecco l’unica gioia che sono riuscito a coltivare. Non capivo perché me ne dovessi privare: non avrei avuto niente in cambio, né in salute né in benessere psichico. Alcuni colleghi hanno smesso e li ho ascoltati quando parlavano tra di loro. C’è chi lo ha fatto per i figli, chi per la moglie, chi per motivi di salute. Ero invidioso: quanto avrei voluto una moglie che si meritasse uno sforzo per renderla contenta. Con un’altra donna avrei smesso immediatamente. Con la mia, invece, mi veniva voglia di fumarne tre di seguito.

Quando smise lei, era tutto un fiorire di teorie strampalate. Manco aveva spento l’ultima che già raccontava gli inestimabili benefici che il suo organismo stava avendo. Faceva le scale più agilmente, diceva, e di sicuro lo aveva letto in uno di quei giornali che sfogliava di continuo. Sebbene abbia mangiato sempre con gusto, è in quel periodo che intraprese il percorso verso la trasformazione definitiva. Però, ecco, secondo me sarebbe diventava obesa lo stesso, anche se avesse fumato tre pacchetti al giorno. Intanto però poteva accusare le sigarette anche del peso di troppo, seppure con un ragionamento contorto.

“Fumare ti modifica il metabolismo – spiegava dall’alto dei suoi studi medici – e dopo non ti torna più come prima. Per cui, anche se smetti, ormai è modificato”.

Che cosa volesse dire, nessuno lo sa, e io mi guardavo bene dal porle domande in merito. Annuivo nei pochi momenti in cui andavamo d’accordo, oppure stavo zitto, quando le dotte disquisizioni arrivavano a coronamento di un litigio.

Il giorno che li ho ammazzati ero nervoso anche per via delle sigarette. Ne avevo due pacchetti nuovi e non potevo fumare. Sarei dovuto salire dove c’è la riserva, nascondermi dietro e fumare là, avendo poi cura di mangiare qualcosa per profumare l’alito. Invece è andata come è andata e ho potuto fumare in pace, nell’attesa che venissero a prendermi.