14.
Bisognerebbe vivere le cose che capitano con meno trasporto, almeno all’inizio. Io invece mi lasciavo prendere dall’entusiasmo. Da ragazzino ero facilmente incline all’illusione e quindi alla conseguente delusione. Solo che non ero capace di fare in altra maniera. Crescendo sono cambiato e negli ultimi anni ho cercato di farmi scivolare tutto addosso. Non ne vale la pena, mi dicevo, volevo vivere in pace. Le preoccupazioni, i problemi, sono tali solo se gli diamo importanza. Se invece ce ne freghiamo, allora non esistono. In questo modo cercavo di ragionare, ecco, e credevo anche di riuscirci. Evidentemente mi sbagliavo. Con mia moglie, con i miei suoceri, non era facile per niente farsi scivolare tutto addosso. Io ce l’ho fatta fino al momento in cui li ho ammazzati. Sarebbe stato meglio ribellarmi un po’ alla volta, invece di tenere dentro la rabbia fingendo indifferenza. Per quieto vivere ho sopportato – passerà, mi dicevo – fino a rimanere schiacciato. Pazienza, non c’è modo di rimediare.
Quando l’ho conosciuta, mia moglie era una ragazza in carne. Non era bella, no, ma nemmeno io ero un adone. Solo che io sono rimasto sempre uguale, mentre lei ha iniziato un lento declino, fino a diventare obesa. Prima non era magra, ma stava bene: aveva le tette grandi, le cosce grosse, il sederone. A me piaceva, non mi è mai interessato granché dell’aspetto fisico, me la facevo andare bene. Certo, il mio ideale di donna era un altro, ma sono sempre stato un tipo piuttosto pragmatico, soprattutto in amore. Quello era il periodo in cui andava di moda Elisabetta Canalis – quanto era bella – e se proprio avessi dovuto scegliere una fidanzata ideale, lei sarebbe stata al primo posto. Mia moglie non somigliava per niente alla Canalis.
Un giorno – eravamo ancora fidanzati – fece una scenata assurda in un negozio di scarpe. Voleva un paio di stivali, di quelli con la cerniera che si chiude sul polpaccio, e non riusciva a trovarli. Gli strati deformi di grasso erano ancora di là da venire, ma di certo le sue caviglie non potevano definirsi affusolate. Io le stavo appresso, annuivo quando si lamentava, mi dispiaceva per lei. Non erano cose importanti, almeno per me, ma vedevo che lei soffriva e di riflesso stavo male anche io.
Quel giorno avevamo girato almeno cinque o sei negozi. I commessi cercavano di consolarla spiegandole con parole educate e cortesi, come sanno fare loro, che il modello che cercava difficilmente si sarebbe potuto adattare alla sua gamba. Ho sempre ammirato chi riesce a comunicare in modo garbato un concetto che potrebbe offendere l’interlocutore. Io non sono capace, preferisco stare zitto. Un commesso ci disse che avremmo potuto acquistare gli stivali e poi portarli da un calzolaio – era pronto a suggerirci un paio di nomi – in modo tale da adeguarli alla caviglia. Era davvero bravo, quel ragazzo: riusciva a venire incontro alle richieste sopportando l’arroganza di mia moglie, senza mai scivolare nella maleducazione. Io facevo spallucce e le stavo appresso. Negozio dopo negozio, ascoltavo recriminazioni e lamenti. Davvero, all’epoca mi dispiaceva per lei. Ripensandoci adesso, è proprio quel giorno che l’avrei dovuta lasciare. Via, lei a vivere la sua vita e io la mia, da un’altra parte, lontani per sempre. Magari adesso starei con un’altra donna, avrei dei bambini, e oggi sarebbe un normale sabato da passare in famiglia. Invece no, invece sono in galera e aspetto che spengano le luci per uccidermi. Se l’avessi lasciata lì, in giro per i negozi a cercare stivali, non sarebbe successo niente.
Non fuggii, nonostante ci fosse solo un motivo che mi teneva legato a lei: il sesso. All’epoca non lo pensavo e ammantavo gli istinti animaleschi con sentimenti da quattro soldi ma, ripensandoci, posso dire che stavo con la mia futura moglie esclusivamente per il sesso. D’altronde, cosa avevamo da spartire? Io ho fatto il liceo senza essere mai bocciato, lei era riuscita a diplomarsi dopo aver ripetuto la prima superiore due volte e aver recuperato gli anni persi in una scuola privata. Io avevo iniziato Giurisprudenza, lei al massimo avrebbe potuto iniziare un corso professionale per parrucchiera e anche in quello avrebbe avuto notevoli difficoltà. Io leggevo, ascoltavo musica, mi piaceva la pittura: da ragazzino ero innamorato dei quadri di Salvador Dalì. A me sarebbe piaciuto passeggiare con lei, visitare Cagliari, andare al mare, fare lunghe camminate nei boschi. A lei piaceva solo stare seduta in casa, comprare vestiti e chiacchierare senza sosta con la madre, con le vicine, con chiunque avesse avuto qualcosa di cui spettegolare. Io non mi ritrovavo per niente in quel mondo, ma mi dicevo che sarebbe cambiato tutto. Non cambiò nulla, ovviamente.
In realtà, oltre al sesso, c’era un altro elemento che mi accomunava alla mia futura moglie: la solitudine. E se la voglia di scopare passò quasi subito, la solitudine è aumentata senza sosta, fino all’epilogo odierno. Eravamo soli, molto soli, e abbiamo visto nell’altro, palesemente sbagliando, tutto ciò che desideravamo. Sarei dovuto scappare, invece di accontentarmi, ma l’alternativa, in quei vent’anni, era stare da solo e ammazzarmi di seghe, come avevo sempre fatto da quando Andrea Putzu, dietro la palestra di pallavolo, mi aveva spiegato quelle due o tre cose fondamentali sul sesso. Non potevo lasciarla, non dopo aver provato quelle sensazioni così strane e così belle. Ogni tanto mi venne l’idea: Adesso le dico che non voglio più uscire con lei, ma non trovai mai il coraggio di farlo. Stavo bene. Non era il massimo, ma l’alternativa sarebbe stata quella di tornare in cameretta, ascoltare musica e cercare di vincere l’ennesima Champions League con l’Inter a Football Manager. Quanto sono stato stupido! Avrei potuto lasciarla, trovarne un’altra, farmi degli amici, uscire, divertirmi. Niente di tutto ciò. Uscivo con lei, scopavamo a casa sua – nell’appartamento che sarebbe diventato il nostro, ma in cui io mi sono sempre sentito un estraneo – e a me andava bene così.
All’ultimo negozio andò fuori di testa. Nel corso del tempo avrei imparato a conoscere quel miscuglio di vittimismo e aggressività che la contraddistingueva – lei come il padre – ma quella era la prima volta che la vedevo in azione. Piangeva e insultava i commessi, io mi vergognavo e mi dispiacevo. Guardavo altrove, come se non fossi stato con lei, poi tentavo di calmarla. Perché fare scenate simili? Che colpa aveva il commesso se la zip non veniva su? Io stavo zitto, lei urlava, sbraitava, accusava e lacrimava. Se la prendeva anche con me. C’è una parola tedesca, ora non mi viene, che esprime bene ciò che provavo, una sola parola che spiega la sensazione di sentirsi in imbarazzo per qualcosa che fa qualcun altro. L’avevo imparata al liceo, una vita fa, poi mi sono dimenticato.
“Che negozio di merda, non mi rivedranno più qua dentro!” diceva.
Ero sicuro che i commessi se lo stessero sinceramente augurando.
Non era finita, la accompagnai a casa e raccontò ai suoi genitori ciò che le era capitato. La ascoltarono a bocca aperta, pendendo dalle sue labbra – pendevano sempre dalle sue labbra, anche quando, a centoquaranta chili, spalmando crackers di maionese, sosteneva che, sì, era il metabolismo lento che la fregava – e le diedero ragione annuendo con un moto incessante del capo. Se non ero scappato dal negozio, sarei dovuto scappare in quel momento. Invece rimasi e probabilmente annuii anche io.
Quel giorno nemmeno scopammo.