2.

Ho sentito Augusto Ucchemeli chiamare mio suocero: “Severinu! Severinu! Severinu!” e ho avuto la conferma di quello che avevo fatto. Tre urla, il nome scandito per l’ultima volta, poi silenzio. C’è una scaletta che porta sul tetto della casa, sono salito per guardare verso l’orto, ma gli alberi di arancio mi coprivano la visuale. Sono tornato giù, mi sono seduto sotto il portico e ho acceso una sigaretta. Era da quando eravamo fidanzati che non fumavo là sotto. Avrei dovuto fumare, spegnere la sigaretta e ammazzarmi, ma non ne avevo la forza. Ero spossato, non riuscivo a fare altri movimenti che non fossero quello di portare la sigaretta alle labbra. Immaginavo che Augusto fosse andato a chiamare la polizia, i carabinieri, un’ambulanza, chiunque bisogna chiamare in casi del genere. Per un attimo ho pensato di scappare, ma non aveva senso: dove sarei potuto andare? Se proprio fossi dovuto scappare, l’avrei dovuto fare quindici anni prima. Intanto stavo seduto, fumavo e aspettavo che mi venissero a prendere.

Sono state le sigarette più belle della mia vita. In Tribunale poi hanno detto che non ho avuto sensibilità, che ho mancato di rispetto ai morti, dal momento che ho fumato con i cadaveri poco lontano. Come se ci fosse un contegno da mantenere dopo avere ammazzato qualcuno. Comunque non li guardavo. Guardavo i filari di viti, oppure tenevo gli occhi chiusi. Non pensavo a quello che avevo fatto, ero svuotato. Ci sono tanti modi per risolvere un problema e io ho scelto quello più stupido. A dire il vero non ho scelto proprio niente, è successo, non l’ho fatto apposta. Non mi sono alzato con l’intenzione di ammazzare tutti, né la sera prima sono andato a letto riflettendo sui dettagli del piano, come hanno scritto i giornali: per me era un giorno come un altro. Triste, schifoso, doloroso, ma come gli altri. Avrei voluto spiegarlo, in Tribunale, ma cosa sarebbe cambiato? L’avvocato mi spingeva a raccontare di me, credo con la speranza di uno sconto di pena, ma non gli ho dato retta. Ho cercato di stare in silenzio il più possibile, con lui e con quegli altri che pretendevano spiegazioni, discolpe, parole. Ecco perché dico che mi sarei dovuto ammazzare in quel momento. Solo che avrei dovuto averne la forza e invece ero stanco, molto stanco, anche se sollevato. Fumavo e pensavo a ciò che era stato, felice di esserne finalmente uscito: ero libero, dopo tanto tempo ero libero, e lo sarei stato finché non fossero arrivati a prendermi. Mi avrebbero messo le manette e portato in galera, ma nessun compagno di cella sarebbe stato più tiranno degli aguzzini che avevo appena ammazzato.

Se fossi stato una persona diversa, non sarei arrivato a quel punto. Se avessi avuto coraggio, non mi sarei imbarcato nella storia che mi ha rovinato la vita, non mi sarei sposato e non avrei sopportato ogni giorno successivo al matrimonio, convinto che le cose sarebbero cambiate prima o poi. Invece non cambiava mai niente, se non in peggio. Se avessi avuto orgoglio, mi sarei fatto sentire, invece di accettare tutto quello che succedeva, addirittura con il sorriso sulle labbra, i primi tempi. Ero contento ed è la cosa che mi fa più rabbia. Seduto sotto quel portico, con la sigaretta in mano, pensavo a quanto ero stato cretino. Perché ero arrivato a quel punto? Quante persone hanno problemi? Quante famiglie nascono storte e poi si raddrizzano? Quante altre invece si sfasciano? Eppure sopravvivono, nessuno stermina la famiglia. Sarebbe bastato mandare tutti a quel paese quindici anni prima, comportarmi male, essere meno accomodante. Invece no, io ero contento che la mia futura moglie mi considerasse. Ero contento di avere la ragazza. Ma sarebbe bastato anche dire basta qualche mese dopo, qualche anno dopo. Addirittura, sarebbe stato possibile rifiutarsi di andare in montagna, la sera prima. Invece no. Invece io annuivo e non parlavo, mi andava bene tutto. E quelle serpi se ne approfittavano. Più io ero buono, più loro erano cattivi. Più io dicevo sì, più loro mi caricavano di cose da fare. Non ero più una persona, ero il loro schiavo.

Continuavo a fumare e avevo perso la cognizione del tempo. Dopo le urla di Augusto non avevo sentito più nulla. Stavo seduto sotto il portico, sul primo gradino della scala che porta al passo carraio. L’avevo costruita io, quella scala, e mio suocero non faceva che rinfacciarmelo.

“È storta, – diceva – e non è nemmeno appoggiata bene ai pilastrini. Un giorno o l’altro si stacca”.

Gli avrei dovuto dire di costruirsela lui, quella scala di merda. Invece stavo zitto, sempre. Con lui ho imparato a fare il muratore, il fabbro, l’elettricista, il carpentiere, l’idraulico, il contadino, l’imbianchino, persino il meccanico. E pensare che prima di conoscere la mia futura moglie non avevo mai fatto un lavoro manuale. Ho frequentato il liceo classico e passato l’adolescenza ad ascoltare musica, leggere libri e giocare a Football Manager al computer. Mai smontato, non dico un motorino, nemmeno una bicicletta. Con mio suocero ho dovuto imparare. E all’inizio ho imparato con entusiasmo: c’era da fare qualcosa e io mi lanciavo. Se solo avessi saputo, povero coglione, altro che entusiasmo, mi sarei dovuto rifiutare.

“Chi è lei?”

Ho sentito chiamare e ho aperto gli occhi. Dalla stradina che dall’orto porta alla casa stavano salendo un uomo e una donna.

“Come si chiama?”

“Daniele Masala.”

“Si tiri su e mostri le mani, lentamente.”

Mi sono alzato e ho allargato le braccia, facendo vedere i palmi.

L’uomo ha preso un cellulare dalla tasca e ha detto qualcosa, ma non ho capito cosa. Poi si è rivolto di nuovo a me, presentandosi come il commissario Francesco Scandellari. Mi ha detto di stare fermo e poi mi ha chiesto come stavo e se avevo bisogno di cure.

La donna ha confabulato con quello che mi aveva parlato e insieme hanno continuato a fissarmi. Non si avvicinavano, ero sicuro che non mi avrebbero permesso alcun movimento. La ragazza ha parlato anche lei al cellulare, senza togliermi gli occhi di dosso. Sono rimasto zitto. Non avevo niente da dire, né da fare. Sono arrivati altri poliziotti, o forse carabinieri: erano armati. Uno di loro voleva mettermi le manette, ma il Commissario, il primo che era arrivato, gli ha fatto un cenno e non me le hanno messe. Mi hanno accompagnato giù, fino alla strada. Il corpo di mio suocero era coperto da un lenzuolo bianco.