20.

Se vostra moglie vi sembra una balena spiaggiata, ci sono buone probabilità che non l’amiate più. E di certo lei è sovrappeso. Ci vogliono anni per diventare obesi eppure, vivendo fianco a fianco ogni giorno, è difficile rendersene conto. Io ero appena tornato da lavoro, un pomeriggio di qualche anno fa. Avevo poggiato le chiavi all’ingresso ed ero entrato in cucina. Lei era là, enorme, tutta dentro il divano. Si voleva alzare e non ci riusciva. La madre cercava di tirarla su, ma lo sforzo era vano. Il volume della TV era alto, come al solito. Quelle due riuscivano a parlare, guardare la TV e fare altre faccende, ovviamente rumorose, senza perdere il filo o avere mal di testa. Le immagini sullo schermo immortalavano una balena arenata su una spiaggia. Non era un documentario, figuriamoci, ma una di quelle trasmissioni del pomeriggio. Gattini abbandonati, bambini malati, disoccupati: quella volta era il turno della balena spiaggiata. Mi veniva da ridere e non potevo. Non riuscivo a trattenermi e la bocca si distorceva nel tentativo di soffocare la risata.

“Che cazzo ti ridi, coglione?”

Non era un esempio di buona educazione e soprattutto con me aveva preso gusto a utilizzare un linguaggio volgare, anche se dubito che conoscesse altri registri.

“Aiutami, invece di ridere, coglione.”

Io mi ero abituato. Non è che non mi desse fastidio, anzi, ma riuscivo a farmi scivolare via gli insulti. Come tutti, avrei preferito parole dolci, una carezza, un po’ di affetto, ma mia moglie era in grado solo di comportarsi in maniera maleducata e arrogante. Sognavo di vivere bene con una donna, con un’altra donna, ma non mi era possibile. Ero allo stesso tempo arrabbiato e rassegnato: di solito il secondo stato d’animo prevaleva sul primo. Quel pomeriggio accadde così. Quando li ho ammazzati ha prevalso la rabbia, invece.

“Aiutami! – urlò – Non lo capisci che sono malata?”

Era malata, senza dubbio. Dentro e fuori. Però tutta quella ciccia che aveva messo su non è che fosse sfortuna o colpa di qualcun altro, credo. Anzi, se devo essere sincero, sono abbastanza sicuro che ci fosse un rapporto causale tra tutto ciò che ingurgitava e i chili che le si piazzavano sui fianchi, sulle cosce, sulle braccia, sul collo, sui piedi: aveva grasso persino tra le dita dei piedi. Io sono la persona meno indicata per parlare di obesità, proprio non riesco a concepire come si possa mangiare più del necessario. Sono sempre stato magro, non ho mai avuto un grammo di troppo, e tutto ciò senza fare diete, né seguire un particolare regime alimentare. Mangio per necessità, senza strafare. Mi accontento. E se per caso salto il pranzo, quasi non me ne accorgo. Mia moglie, il contrario. Aveva sempre qualcosa tra le mani da sgranocchiare. C’erano dei mobili, in cucina e in salotto, pieni di merendine: crackers, pizzette, salatini, patatine, pane, grissini. E poi dolci, dolci di ogni tipo: mi mandava a comprare interi carrelli di dolci al discount. Una volta ho provato ad assaggiarne uno, sapeva solo di zucchero. Mia moglie ne mangiava di continuo. Mangiava tutto. Mangiava sempre.

Io per esempio fumo, ma di certo non mi verrà un tumore ai polmoni, né un ictus o una bella malattia cardiovascolare, come si preoccupano di annunciare i pacchetti di sigarette. Non gliene darò il tempo, morirò prima. Ma se vivessi abbastanza a lungo da ammalarmi, ecco, avrei un po’ di pudore a definirmi sfortunato. Ho fumato, sapendo che fa male, e se mi ammalassi non me la potrei certo prendere con il destino. Mia moglie no. Si ingozzava dal mattino fino a tarda notte, masticava di continuo, e poi aveva il coraggio di lamentarsi.

“Aiutiamola, dai” diceva mia suocera.

Non so di preciso quanto pesasse. Un periodo teneva persino un diario, un diario alimentare, lo chiamava così, con il cibo mandato giù, le calorie ingerite e quelle consumate. Un giorno che ero solo a casa l’avevo sfogliato: era disonesta persino con sé stessa. Mancavano i grissini, il pane e la nutella che aveva mangiato direttamente dal barattolo la sera prima, con il cucchiaio. Magari pensava che quei cibi non si sarebbero trasformati in grasso se non li avesse scritti. Quando ho mollato il cavo con cui le ho stretto il collo, si è accasciata sulla poltrona, una specie di trono tutto suo rinforzato a dovere per reggerne il peso. Secondo me aveva superato i centocinquanta chili, che su un metro e mezzo di altezza…

“Tira!”

“Spingi!”

“Solleva!”

“Tira!”

Io ero andato dietro al divano e la sollevavo, mentre mia suocera la tirava per le braccia. Lei faceva forza con le gambe e con la schiena, tentando di alzarsi. Intanto piangeva. In teoria la situazione mi avrebbe dovuto spingere a provare pietà. Una donna giovane, in evidente stato di difficoltà, soffriva e si disperava. Detto da fuori, è facile. Solo che io c’ero dentro fino al collo e la pietà era l’ultimo dei sentimenti che provavo in quel momento. Godevo, ecco, di un sottile e sadico piacere. La cicciona non riusciva ad alzarsi dal divano e io mi rallegravo, per un attimo dimentico che quell’ammasso informe fosse anche mia moglie, oltre che la mia aguzzina.

Se credete che da quel momento siano cambiate le cose, be’, avete ragione. Ma solo in parte. Mia moglie continuava a mangiare come prima – anzi, più di prima, visto che dallo spiaggiamento in poi era cresciuta ancora – ma con la consapevolezza di essere obesa. Malata, diceva lei. Malata, annuivano pensosi i miei suoceri. Ordinò un macchinario infernale visto in TV, una trappola che l’avrebbe fatta dimagrire. Comprò una cyclette, un tapis roulant, elettrostimolatori, polverine da sciogliere nell’acqua, pasticche, beveroni dal colore poco invitante. Diventò un’esperta nutrizionista, conosceva alla perfezione l’effetto di qualunque cibo sull’organismo, ignorando comunque la cosa più elementare: se mangi tanto, troppo, e non ti muovi, ingrassi.

Sotto la sua supervisione, feci io parecchio esercizio fisico. Andai a comprare gli strumenti, sgomberai una stanza di casa, la trasformai in palestra, montai i macchinari, li provai e addirittura imparai a usarli. Quando non ne potevo più, salivo sulla cyclette, impostavo la resistenza al massimo e pedalavo. Le gambe doloranti mi facevano stare bene. Appena si accorse che la usavo, mi proibì di farlo, dicendo che gliela rovinavo. Prese tanta di quella polvere, poi, assieme agli altri attrezzi, che mi dispiacque per i soldi buttati. La signora si annoiava a fare esercizio, diceva. Mi costrinse a montare uno stereo, poi la TV. Ma niente, l’unica fatica che contemplava era quella necessaria a portare il cibo alla bocca. E la TV era molto più interessante vista dal divano. Un bel giorno mi ordinò di smontare tutto quanto: la palestra diventò la stanza per il patchwork, poi per il decoupage, fino a completare la metamorfosi e trasformarsi definitivamente in ripostiglio.

I macchinari da palestra vagarono in casa per un po’: solaio, garage, scantinato, fino a che mio suocero decise di portarli in montagna. Come al solito, lui decise e io li portai. Stavano nello stanzino degli attrezzi, in mezzo a roncole scassate, motoseghe che non partivano, zappe senza manico e bidoni per la benzina.

Qualche tempo prima che l’ammazzassi, mia moglie aveva cominciato a informarsi per l’intervento di riduzione dello stomaco. Diceva che era quella la vera soluzione per chi, come lei, era malata. L’aveva detto a cena, spiegandoci che a Caserta erano davvero bravi. Io continuavo a mangiare, i miei suoceri annuivano.