22.

La mia vita è sempre stata triste, ma nonostante la tristezza consueta, ogni tanto riuscivo a toccare picchi di tristezza che in confronto la routine era entusiasmante. Il Natale era uno di quei picchi, anzi, era il picco più alto di tutti. La tortura iniziava l’otto dicembre, quando stavo a casa da lavoro per l’Immacolata.

“Usciamo gli scatoloni degli addobbi, appena possiamo, così facciamo l’albero” diceva mia moglie a tavola.

Mio suocero annuiva entusiasta, mia suocera pure. Io stavo zitto.

“Sì, bisogna prendere anche il muschio per il presepe” aggiungeva lui.

“E quest’anno l’albero lo compriamo dai cinesi, – precisava mia suocera – ho visto che ce li hanno già in offerta, quelli bianchi finti, sono bellini”.

“Sì, e poi non ne vale la pena di andare a tagliare un albero davvero, sta là un mese e poi tocca buttarlo, manco per il fuoco vanno bene quelli.”

Diceva così, certo, ma io me lo ricordo quando qualche anno prima eravamo andati assieme alla Pineta. Conosceva un posto dove la Forestale non passava mai, diceva. Così, mentre io riempivo le cassette di muschio, lui poteva tagliare un pino piccolino da portare a casa. Ci eravamo fermati davanti alla sbarra, dove inizia la strada bianca che entra nel bosco. Aveva visto che non c’era il lucchetto e l’aveva aperta.

“Lo sapevo! – aveva esultato – Me l’ha detto Tarcisio Seu”.

Eravamo entrati, guidando a passo d’uomo e spegnendo la macchina nelle discese. Mi sembrava fuori dal mondo che stessimo commettendo non so quante infrazioni per un albero di Natale. Finalmente, avevamo raggiunto le vecchie sorgenti – dove anni prima lo avevo accompagnato pieno di entusiasmo a cercare funghi, la prima volta nella mia vita che andavo a funghi – e aveva parcheggiato la Panda. Si era guardato intorno, mi aveva indicato una zona con un bel po’ di muschio e si era raccomandato di tagliarlo per bene, prendendo anche il terriccio. Io avevo iniziato a lavorare e lui aveva puntato un pino giovane, verde brillante, diceva che a casa ci sarebbe stato benissimo. Aveva aperto il bagagliaio e preso la sega, quella che usavo io per tagliare la legna in montagna. Appena affondata la lama sulla corteccia, era arrivata una macchina.

“Ma cosa state facendo?”

Non erano gli agenti della Forestale, erano gli operai. Non credo che possano fare multe, loro, ma comunque se ti dicono di smetterla non è che ti puoi ribellare.

“Niente, scusate, – aveva detto mio suocero – pensavamo che potevamo prendere due cose per Natale. Volevamo fare l’albero”.

“Il muschio lo potete prendere, se non riempite il bagagliaio, ovviamente, ma gli alberi non si toccano.”

“No, scusi, è che mio genero non è di qua, non lo sapevamo.”

“Rimetta via quella sega e andate via, non si può entrare con la macchina.”

“Ma io glielo dicevo, infatti, solo che lui non ha visto il lucchetto e ha pensato che potevamo scendere.”

Aveva chiesto scusa e salutato gli operai, poi si era avvicinato alla macchina, ma dal lato del passeggero, mica da quello del guidatore, come a sottolineare che lui, con la decisione di entrare in macchina alla Pineta, non c’entrava proprio niente.

Prendere gli scatoloni, andare dai cinesi a comprare l’albero, recuperare le luminarie, andare a raccogliere il muschio, addobbare, costruire il presepe… tutte incombenze che toccavano a me. Loro dirigevano e io agivo. Cominciavo a odiare il Natale fin da un mese prima e non vedevo l’ora che arrivasse il sei di gennaio per richiudere tutto fino all’anno successivo. I re magi erano i miei personaggi preferiti.

Prima di iniziare ad addobbare dovevo fare spazio: l’albero infatti doveva essere messo all’ingresso, tra una poltrona e una vecchia credenza, solo che lì non ci stava. Allora bisognava spostare la poltrona e spingere la credenza verso l’altro muro. Era pesantissima, piena di cianfrusaglie che secondo quei pazzi valevano oro: dovevo stare attentissimo a non far cadere una sola bomboniera, sarebbero volate le urla. Il primo anno, quando ancora credevo che la mia parola valesse qualcosa, avevo provato a dire che forse era il caso di non piazzarlo proprio là, l’albero, ma che sarebbe andato bene anche da un’altra parte.

“In questa casa l’abbiamo sempre fatto qua” aveva detto mia moglie, dopo aver scambiato uno sguardo con i genitori: cosa mai avrei potuto capire, io, delle loro usanze? E infatti non le capivo, e mi sottomettevo, cretino che non ero altro.

Se tutto andava bene, per fare l’albero bastava la giornata dell’otto dicembre. Solo che non andava mai bene niente, non di quello che facevo io. I festoni erano pochi, oppure erano rovinati, e anche quando andavano bene ero io che li piazzavo male. Mi toccava metterli, poi toglierli, poi rimetterli, poi ritoglierli… Finito con i festoni toccava alle luminarie. Ne avevano un paio storiche, che di certo risalivano a quando mia moglie era bambina, con le lampadine quasi tutte fulminate. Se non funzionavano, però, la colpa era la mia. Allora bisognava cercare le altre, quelle che mio suocero aveva comprato dal signor Ferramenta – così si ricordava – ma non saltavano fuori. Ogni cosa che non funzionava come previsto si tramutava in uno sguardo d’accusa nei miei confronti, come se durante l’anno io mi fossi divertito ad aprire gli scatoloni e manomettere le decorazioni. Risolti i problemi e accomodati gli addobbi alla bell’e meglio, l’atto finale spettava a mia moglie: mostrando un’agilità imprevedibile si arrampicava su una sedia e infilava la stella cometa sulla punta dell’albero. Poi scendeva, goffa e incattivita per la fatica, e ricominciava a dirigere i lavori per la costruzione del presepe. Sembrava un urbanista folle a cui avessero dato carta bianca per costruire una città dal niente.

“Là mettiamo il laghetto.”

“Qua il ponte.”

“Piega la carta stellata.”

“Fai la strada con il sughero.”

“Gira quelle casette!”

Più si avvicinava la sera e più gli ordini diventavano incomprensibili, contraddittori e confusi. Io non ci capivo niente e cercavo di concentrarmi solo sulle sue parole, senza opporre alcuna resistenza e accondiscendendo ad ogni proposta.

Sempre il primo anno, convinto di avere qualcosa da dire, mentre lanciavo la farina sul muschio badando di imbiancare bene il villaggio, mi ero lasciato andare a considerazioni su quanto fosse improbabile una nevicata a Betlemme, seppure a fine dicembre. Mi avevano guardato male, come uno che non riflette bene su quello che dice e che avrebbe fatto meglio a stare zitto.

“Metti anche quel pastorello con il cestino dei pesci” diceva mia moglie.

Ogni volta si ricordava di un personaggio mai esistito, una figura che aveva immaginato nella sua fantasia e che io avrei dovuto recuperare nello scatolone. Non lo trovavo, ovviamente, e lei urlava.

“Non è possibile, me lo ricordo, c’era. Questo perché non metti mai bene a posto le cose, ecco perché.”

Io stavo zitto.

“Me lo ricordo anche io, – diceva il padre – era quello con il cappello rosso”.

“Non mi ricordo se era rosso, di certo c’era. Lo mettevamo sempre vicino al laghetto, ci stava benissimo. È impossibile che non ci sia più.”

Sarei dovuto scappare: una bella pedata al presepe e vaffanculo al pastorello con il cestino dei pesci. Invece no, rimanevo, continuavo a prendere ordini e insulti, all’inizio perché ero convinto che un momento di stress potesse capitare a tutti e in seguito perché ci avevo fatto l’abitudine. Era normale, per me, venire trattato in quella maniera.

A casa mia non festeggiavamo il Natale con grande sfarzo ma, rinchiuso assieme a quei matti, riuscivo a rimpiangere persino la banalità della mia vita precedente. I miei genitori non facevano l’albero e si accontentavano di piazzare solo un piccolo presepe sul mobile del salotto. La cena della Vigilia non era prevista e il menù del pranzo del venticinque era di certo più ricco di quello di un giorno normale, ma sempre improntato alla semplicità.

Dai miei suoceri invece era il trionfo dell’opulenza. Mangiavano tanto tutti i giorni della settimana, ma per Natale non esistevano limiti. Mia suocera cominciava a cucinare una settimana prima e ne avremmo avuto da offrire a cinquanta persone, se solo avessimo avuto qualcuno da invitare. Quello che non spendevamo in regali – per farli a chi? – lo spendevamo in cibo. Sebbene ottimo, era impossibile godersi tutto. Mia moglie cominciava a lamentarsi che i grassi – tutti quei grassi! – le avrebbero fatto male, salvo dimenticarsene quando si sedeva a tavola. Spendeva un patrimonio in beveroni dietetici – polverine che pagava carissime, scioglieva nell’acqua e mandava giù schifata – e poi si strafogava di pandoro tagliato in orizzontale e riempito di crema al mascarpone arricchita da scaglie di cioccolato. Mangiava, mangiava di nuovo, mangiava ancora e commentava ogni boccone con frasi che se avessero avuto il potere di farla dimagrire ci saremmo dovuti preoccupare per il deperimento.

“Io di questo non ne posso mangiare perché è pieno di grassi.”

“I carboidrati qua sono tanti.”

“Ma lo sai quante chilocalorie è quella roba?”

Ovviamente si riempiva il piatto e poi faceva il bis non disdegnando, quando era possibile, di fare persino la scarpetta.

Ogni Natale che veniva in Terra, finito di pranzare, dovevamo scambiarci i regali. La mia signora riceveva un cellulare appena uscito, oppure un tablet, oppure una smart TV, oppure qualunque altra cosa, l’importante è che costasse tanto e non la sapesse usare. Per me invece si volava più basso: dal momento che avevo fatto il liceo classico e mi ero iscritto all’università, erano convinti che fossi una specie di intellettuale – nel senso dispregiativo del termine che avevano loro quando parlavano di laureati, professori e persone colte in genere – e per questo si sentivano in dovere di regalarmi dei libri. Credo che andassero in cartoleria a chiedere quale fosse il libro che vendeva di più in quel momento e me lo compravano. Non facevano nemmeno la fatica di chiedermi cosa avrei voluto.

Sepúlveda, Luciana Littizzetto, Fabio Volo, Michela Murgia, Margaret Mazzantini, L’infanzia di Gesù, robe del genere, ogni anno era una tortura, libri che nemmeno mi sognavo di aprire. Il massimo lo toccarono quando mi regalarono È facile smettere di fumare se sai come farlo. Ebbene, io non lo sapevo, né avevo intenzione di apprenderlo, l’unica cosa che sapevo fare e che avevo voglia di fare era accendermi una sigaretta.