26.

La notte che hanno seppellito mia madre sono andato a puttane per la prima e ultima volta nella mia vita. Non avevo più rapporti con mia moglie e di certo non mi mancava. Quel che è strano è che non solo non mi mancava lei, ma non sentivo nemmeno bisogno di un’altra donna. Stavo bene da solo. Cioè, avevo imparato ad accettare lo stato di cose in cui ero precipitato, bene non stavo sicuramente. L’ultima volta che ci avevo provato, con mia moglie, era stato più che altro per dovere: non c’ero riuscito e lei mi aveva insultato.

“Sei un frocio di merda, ecco cosa sei. Dillo che sei un frocio di merda. Non ti diventa nemmeno duro. Frocio!”

Io la lasciavo sfogare. Mi dava fastidio quel linguaggio. Non sono una persona volgare, tutto il contrario di mia moglie. Anzi, se devo essere sincero, credo di essere diventato così proprio grazie a lei. Diceva ‘frocio di merda’ e io, che non avevo mai avuto opinioni sugli omosessuali, parteggiavo per loro. Oppure se la prendeva con gli zingari – facevano certe tirate assieme al padre, soprattutto durante il pranzo della domenica – e io iniziavo ad apprezzarli.

Il fatto che non mi venisse duro penso che avesse a che fare con lei. Ingrassata senza limiti, era diventata brutta, antipatica e arrogante. Non aveva un pregio, non c’era nulla che potessi desiderare in lei. Mi faceva schifo e, se anche avessi potuto sorvolare sull’aspetto fisico, di certo non potevo lasciar perdere il suo carattere.

Prima è morto mio padre, dopo lunga malattia, come si dice. Una settimana dopo è toccato a mia madre: infarto. Nel giro di pochi giorni ho perso i miei genitori, anche se in realtà li avevo persi ormai da anni. Non ci frequentavamo più, anche se abitavamo nello stesso paese, nemmeno tanto lontani. Ho iniziato a staccarmi da loro quando mi sono fidanzato ufficialmente. Prima mancando di casa pomeriggi interi, poi anche le mattine, saltavo pranzi e cene, fino a non dormire nemmeno più in cameretta. Se ci penso osservandola con distacco, la mia non è stata una traiettoria eccezionale: dovrebbe essere normale che i ragazzi si allontanino dai genitori, in modo da crescere e rendersi indipendenti. Io però non avevo niente di normale. Sono fuggito, credendo di trovare in casa d’altri ciò che mancava in casa mia, affidandomi completamente alla mia futura moglie e alla sua famiglia. Non ho mai avuto un gran rapporto con i miei genitori, parlavano poco, sembravano sopravvivere, non si godevano nulla. Per dire, non hanno mai fatto un viaggio, un’esperienza che non fosse lavorare, pulire casa e cucinare. Unico diversivo, da giugno a settembre, andare al mare ogni mattina: si alzavano all’alba, prima delle undici erano già a casa. Quella per me non era vita. Sognavo Salvador Dalì e i Metallica e ho pensato di ribellarmi entrando in un’altra casa, ma sono caduto dalla padella alla brace. Anzi, dal bordo del camino al fuoco vivo.

Da fidanzati, la mia futura signora cercava di costruire un rapporto con i miei genitori, soprattutto con mia madre. Solo che avevano caratteri inconciliabili: mia moglie era chiacchierona e pettegola, mia madre silenziosa e riservata. Mia moglie conosceva tutti a Sinnai e aveva una storia su ognuno, mia madre era arrivata ormai adulta e non aveva instaurato rapporti con nessuno, a parte fugaci buongiorno e buonasera con i vicini di casa.

“Certo che i tuoi sono proprio strani” diceva mia moglie.

Aveva ragione, pensavo io, i miei genitori erano grigi e noiosi, ma lei avrebbe dovuto guardarsi in casa: meglio due persone banali che un esaltato imbecille come il padre e una schiava sottomessa come la madre. Solo che non ribattevo, tenevo per me le opinioni. Inconsciamente, forse neppure troppo, avevo deciso di affidarmi a lei, di mollare i miei e trasferire quel poco che avevo – materiale e no – in un altro posto. Lo stesso aveva fatto mia sorella, qualche anno prima, anche se la sua era stata una decisione più netta.

Una domenica pomeriggio intorno alle diciannove scoprii che mio padre si era ammalato: il giorno e l’ora erano quelli prestabiliti per l’incontro quindicinale che avevo con i miei. Mia moglie non voleva venire e tuttavia sosteneva che stava male che io andassi da solo. Ci teneva all’etichetta, la signora. Meno male che è morta, altrimenti morirebbe di vergogna se si sapesse in giro che il marito l’ha ammazzata assieme a tutta la famiglia.

“Non sto tanto bene, mi devo curare.”

“Che cos’ha, signor Masala?” chiese mia moglie.

Non gliene fregava nulla, cercava solo di raccogliere elementi per spettegolare.

Con tanta fatica, mio padre e mia madre riuscirono a spiegarsi. Soffrivano, e si capiva, ma non chiedevano nulla. Erano abituati ad avere pochissimo e a sbrigarsela da soli, avrebbero fatto così anche questa volta.

“Signor Masala, mi raccomando, se serve qualcosa chieda pure, tutto quello che possiamo fare lo faremo.”

Subito dopo che mio padre si ammalò, anche la signora scoprì di non godere di ottima salute. Lui stava morendo mangiato dal tumore, lei si prodigò per fissare appuntamenti dal medico, dal dietologo, dal cardiologo, dal dermatologo, dal nutrizionista, dallo pneumologo e il responso era uno e soltanto uno: era sana, fatto abbastanza strano visto il sovrappeso, ma si sarebbe di certo ammalata se non fosse dimagrita al più presto.

“Io sto male e tu pensi solo a tuo padre. – mi diceva – Certo, lui sta male, poverino, non dico di no, ma non è che è l’unico a stare male”.

E io cosa facevo? Andavo a lavorare, tornavo a casa e mi mettevo al suo servizio. Mia madre mi chiedeva se potevo accompagnare papà in ospedale per una visita e io non potevo, dovevo correre in erboristeria per la signora. È morto da solo, all’hospice, dopo essere stato accompagnato dai volontari della Misericordia. Addirittura mia sorella è stata più presente di me, pur avendo il mare da attraversare per tornare a casa. Ha preso ferie, permessi, congedi, si è sbattuta pur di stare vicino a quel padre che non aveva mai capito e, forse, nemmeno mai amato. Io intanto scarrozzavo la cicciona dall’omeopata.

Una settimana dopo è morta mia madre e forse è stato meglio così. Nel frattempo che mio padre stava male, la vicina che abita sopra casa dei miei genitori aveva deciso di diventare la migliore amica di mia madre. Andava mattino e sera, faceva piccole commissioni e mi rimproverava con gli occhi. Una mattina è andata, ha suonato, l’ha chiamata al cellulare, ha bussato più forte. Nessuna risposta. Mi ha contattato, era preoccupata, ho chiesto di uscire un’ora prima da lavoro e sono arrivato a casa: mia madre era ancora a letto. Morta. Se potessi, morirei come lei: mi metterei a letto, rimboccherei le coperte e via, tutto finito. Invece niente. Per quanto mi concentri, ogni volta riapro gli occhi. Non stanotte, però, non stanotte, anche se mi devo arrangiare con un lenzuolo.

Due giorni dopo la seppellimmo e io stetti da solo dopo il funerale. Litigai con mia moglie o, meglio, fu lei a litigare con me, accusandomi di non so quali mancanze nei suoi confronti. Ce l’ho ancora presente, eravamo in cucina, nella cucina dei suoi, mia madre appena tumulata. Mi diceva qualcosa e i genitori annuivano con aria grave, come se avessi compiuto chissà quale gesto irreparabile. Ecco, il gesto irreparabile l’ho compiuto poi, e dov’era il suo faccione del cazzo a rimproverarmi?

Presi la Panda accampando una scusa e girai a vuoto, fino a ritrovarmi nella zona delle prostitute, verso la Città Mercato di Santa Gilla. Camminavo piano, sovrappensiero, e non avevo intenzione di caricarne una, anche se mi sembrava che quelle donne potessero darmi un po’ di affetto, faceva niente se a pagamento.

“Hai una faccia triste, io ti posso rendere felice.”

Non risposi, ma mi allungai per aprire lo sportello.

“Bello, cosa vuoi fare?”

Non sapevo cosa dire, mi sentivo inadeguato.

“Quanto costa?” chiesi.

Mi elencò prestazioni e relative tariffe, spiegandomi che ci saremmo appartati solo in posti indicati da lei. Per me non c’erano problemi. Arrivammo in uno spiazzo, un terreno incolto tra i capannoni in disuso, in mezzo ad altre macchine i cui occupanti erano indaffarati a consumare una mezz’ora d’amore.

Sollevò la gonna e mi fece vedere che non portava le mutande. Io guardai, era in là con gli anni, ma non era per quello che non la trovavo eccitante. Mi toccò e subito capì che là sotto non c’era – né ci sarebbe stato – alcun movimento.

“Stai bene?”

Per niente, mi venne da rispondere, ma non parlai. Poggiai la testa sul sedile, chiusi gli occhi e iniziai a piangere. Piangevo per mia madre, per mio padre, per mia sorella. Piangevo per l’infanzia a Portoscuso e per il trasferimento a Sinnai. Piangevo per gli amici che avevo lasciato e per quelli che non avevo avuto. Piangevo per la solitudine e per la tristezza. Piangevo per mia moglie e per la vita che mi faceva fare. Piangevo per mio suocero e per quella maledetta uva da raccogliere. Piangevo per il lavoro che facevo e per le aspirazioni che avevo avuto, ormai andate. Piangevo, piangevo, piangevo.

“Uso sempre un sacco di fazzoletti, ma mai per asciugare le lacrime.”

Aprii gli occhi e mi accorsi che mi stava pulendo il viso. Aveva un volto bellissimo, dolce e comprensivo: tante volte ho pensato di andare a cercarla, ma non mi sono mai azzardato. Presi il portafoglio, le diedi tutto quello che avevo e lei mi baciò su una guancia.