27.

Io non li conoscevo, non ne parlava mai, per cui non posso dire di essere dispiaciuto. Nemmeno per lui so cosa provare, in fondo non sapevo niente. Mi dispiace, ecco, come quando si sente una brutta notizia alla televisione: tanta tristezza, ma quando inizia la pubblicità è già passata. Eravamo colleghi, è vero, ma non avevamo nessun rapporto. Lavorava nella nostra ditta di spedizioni da una dozzina d’anni, forse anche qualcosa di più, e ha sempre ricoperto lo stesso ruolo: addetto ai documenti di trasporto della merce in arrivo. Non è mai migliorato, non ha mai avuto una promozione: lo hanno assunto per fare quello e quello ancora faceva, quando lo hanno arrestato. Credo sia un caso unico in tutta la storia dell’azienda: di solito chi fa i lavori più umili e noiosi o dura poco, nel senso che si licenzia per cercare altro, oppure migliora e nel giro di un semestre, massimo un anno, cambia posizione.

A lui evidentemente andava bene ciò che faceva. Non l’ho mai sentito lamentarsi per un ritardo nel pagamento dello stipendio, né recriminare per una busta paga più leggera del solito. Anzi, se devo essere sincero, non l’ho mai sentito lamentarsi di niente. Era così, lui, era lì, e se fossi cattivo direi che faceva parte dell’arredamento degli uffici. Di là la macchinetta del caffè, di qua l’archivio dei documenti fiscali, di là il dispenser dell’acqua fredda, di qua l’ufficio spedizioni, di là i bidoni della differenziata e di qua Daniele Masala, seduto davanti al computer. Che io sappia, nessuno ha mai avuto da ridire con lui e sì che l’ambiente non è dei più tranquilli, anzi. Arrivano camion, furgoni, corrieri, pony express, – siamo stati i primi a consegnare in bicicletta a Cagliari e hinterland – c’è sempre un via vai velocissimo di persone, merci e documenti. Litigare è un attimo: basta una bolla non pronta, un pacco non ancora imballato, un indirizzo scritto male. Se qualcuno si alza storto, da noi trova terreno fertile per sfogarsi. Eppure con lui non succedeva mai niente. Era diligente, accomodante, stava sulle sue, parlava il necessario e non disturbava. Faceva solo due cose: lavorare e fumare, ovviamente nelle pause stabilite dalla direzione. Non avrebbe mai avuto l’intraprendenza necessaria per trasgredire a una regola.

Sono stato assunto qualche anno dopo di lui, con la sua stessa mansione, e ora coordino le consegne con le biciclette. Non è un lavoro divertente, lo ammetto, e la soddisfazione più grande è lo stipendio. Non guadagniamo tanto e Daniele Masala era uno di quelli che guadagnava meno di tutti. Fossi stato in lui, avrei cercato di progredire, mi sarei adoperato per trovare qualcosa di meglio, ma credo che a lui non interessasse. Ora, riflettendo su quello che ha fatto, immagino come fosse a casa. Magari era come al lavoro: docile, diligente, educato, silenzioso e in fondo assente. Poi è esploso. Chissà, magari come è esploso a casa sarebbe potuto esplodere in ufficio e ammazzarci tutti. Mi vengono i brividi solo a pensarci.

Oppure a casa era vittima di angherie: ha subito per anni finché non si è ribellato. In azienda, sebbene l’ambiente non sia culturalmente dei più elevati, non ammettiamo soprusi. Si litiga, certo, e anche tanto, ma solo per questioni attinenti al lavoro: nessuno si permette prepotenze sui colleghi. In questo, Daniele Masala era fortunato. Se fosse capitato in un altro posto – dove lavora mio cognato ne succedono di ogni genere – sarebbe diventato lo zimbello della situazione.

Non è mai uscito con noi, non è mai venuto a una cena aziendale, non sapevamo niente di lui. Era molto riservato, ecco, e ogni tanto davanti alla macchinetta del caffè qualcuno, tra quelli meno timidi, cercava di scucirgli una battuta sulla vita privata. Io ci avevo provato, appena assunto, ma, dato che non rispondeva in modo chiaro, avevo lasciato perdere. Penso che qua dentro passasse per altezzoso e antipatico. Ovvio, non era simpatico, né allegro, né di compagnia, né sembrava in grado di stare bene in mezzo agli altri. Però antipatico no, mi sembra eccessivo. Non litigava, non disturbava, non dava fastidio, si faceva gli affari suoi. Sapevamo che abitava a Sinnai, veniva a lavoro in corriera, era sposato e non aveva figli. Nient’altro. Queste sono le informazioni che avevamo su Daniele Masala.

In azienda non abbiamo una gran vita sociale in comune, al di fuori dell’ufficio. Però, devo dire, ogni tanto capita che andiamo a farci una pizza assieme, oppure ci ritroviamo per una partita di calcetto. Lo abbiamo chiesto anche a lui, se voleva venire a giocare, ma date le risposte evasive, abbiamo lasciato perdere. Ricordo che non diceva chiaramente di no, piuttosto sorrideva e piegava il capo di lato, sollevando una spalla, come se lo stessimo invitando a scalare l’Everest.

Insomma, Daniele Masala stava in ufficio con noi, conoscevamo la sua faccia, ma nessun’altra cosa di lui ci era nota. Per dire, quando un lutto colpisce qualcuno di noi, facciamo una piccola raccolta e pubblichiamo il necrologio. Quando è morto il fratello di Fabrizietto, il capo magazziniere, – aveva quindici anni, un vecchietto l’ha investito in viale Bonaria – abbiamo deciso di partecipare anche con una corona di fiori: un necrologio ci era sembrato troppo poco per quella disgrazia. Della morte dei genitori di Daniele Masala lo abbiamo saputo solo un anno dopo, e non direttamente da lui. Un corriere che abita a Sinnai li conosceva – mi pare che fossero vicini di casa – e aveva raccontato la strana storia di quei due coniugi nemmeno troppo anziani morti a distanza di una settimana l’una dall’altro: lui di tumore, lei di infarto. Se fosse stato per Daniele Masala non l’avremmo saputo mai: non disse nulla e se prese un’ora di permesso non raccontò che era per i funerali.

A proposito di necrologi, eravamo imbarazzati, non sapevamo come comportarci. Qualcuno ha provato a sostenere che almeno un piccolo annuncio lo avremmo dovuto mettere, dal momento che eravamo a conoscenza di ciò che era successo. Ma cosa scrivere? I colleghi piangono con Daniele la scomparsa dell’amata moglie? Ma se l’ha ammazzata lui! Io ero tra quelli che avrebbero evitato volentieri e alla fine abbiamo soprasseduto: nessuno ha scritto niente su “L’Unione Sarda”.

Ogni tanto mi capita di pensare a lui: chissà se anche in carcere se ne sta nel suo angolino, in disparte, senza creare problemi a nessuno.