32.
Lui l’ho ammazzato con un sasso. Eravamo giù all’orto, stavo lavorando e mi guardava. Niente di nuovo, faceva come sempre. Mia moglie e mia suocera erano su, in casa. La signora stava seduta sotto il portico perché diceva che l’aria fresca della mattina faceva bene: le apriva i polmoni e le migliorava la circolazione. La madre stava ai fornelli, intenta a preparare un pranzo normale in quella cucina improvvisata. Ecco un’altra cosa che mi faceva schifo di loro. Non erano ricchi, certo, ma non avevano nemmeno l’ombra di un problema economico. Eppure stavano sempre ad arrabattarsi: i fornelli me li aveva fatti recuperare mio suocero da una vecchia cucina a gas, poi li avevo fissati a un tavolone piallato male; dal rubinetto scendeva solo acqua fredda, senza pressione. Non c’erano mobili integri e il frigorifero era isolato con il nastro adesivo e il fil di ferro.
Una volta che avevo provato a ripararlo, l’aguzzino mi aveva chiesto: “Cosa c’è che non va?”
Tutto, pensai io, ma lo tenni per me.
Intendeva ogni momento passato a sistemare la cucina come un momento sottratto all’orto e alla vigna. Meglio non indisporlo.
Mio suocero si annoiava a stare in casa, ma non aveva nemmeno voglia di lavorare. C’ero io che lo facevo per lui offrendogli anche il suo spettacolo preferito, tanto gradito da portarsi quel suo maledetto sgabello da campeggio per stare comodo mentre mi osservava. Visto che le ginocchia ormai non lo reggevano, né aveva più la necessaria agilità per sedersi e rialzarsi da una pietra o da un tronco, aveva sfoderato una di quelle seggioline da campeggio, quelle con la seduta in tela e il telaio in tubi di alluminio: la ripiegava in un attimo e ce l’aveva sempre appresso.
Mi dava fastidio.
Erano anni che lo faceva e non so perché quella mattina io abbia reagito così male. Anzi, lo so benissimo: ho reagito così proprio perché erano anni che avrei voluto farlo.
Io ero là che zappavo, e lui a qualche metro con lo sgabello. Mi arrampicavo su un albero, e lui sempre là. Scendevo al ruscello, e lui seduto accanto a me, con lo sgabello poggiato sui sassolini che sceglieva personalmente, in modo da non traballare. Andavo nel canneto e mi seguiva, intrufolandosi dietro di me e finalmente posandosi sullo sgabello.
Se non avesse avuto lo sgabello forse non sarebbe successo niente.
Io mi innervosivo: con lui attorno non potevo fumare perché altrimenti l’avrebbe detto a mia moglie. E inoltre sentirmi sempre osservato – continuamente in balia del suo giudizio e dei suoi rimproveri – mi faceva venire l’ansia. Se apriva bocca, erano dolori. Un commento, un’idea, un consiglio: non si tratteneva. Non ho mai sentito un complimento, per dire, né un bravo. Avesse detto buon lavoro, una volta ogni tanto, forse non sarebbe successo quello che è successo.
Ma peggio di tutto era quando non parlava: guardava e storceva il muso. Quella mattina era taciturno e lo storceva più del solito, fino a che gliel’ho sistemato per sempre. Osservava una pianta che avevo appena finito di potare e storceva il muso. Ora, io non credo di essere capace di potare una pianta. Ho imparato da lui, si fa così: bisogna prendere una pianta a caso, in un periodo a caso dell’anno, scegliere i rami che ci stanno più antipatici e tagliarli via. Può essere quel ramo là, oppure questo qui, il taglio può avvenire in primavera o in autunno, può essere lungo cinque centimetri o un metro e mezzo e il risultato è sempre e comunque lo stesso: se lo facevo io, muso storto; se lo faceva lui, giardiniere provetto.
Era seduto su quello sgabello e storceva il muso. Io ho lasciato la pianta e mi sono spostato verso il ruscello, appena qualche passo più giù. Lui è stato fermo, poteva continuare a guardarmi. Ho deciso di raccogliere alcuni sassi e costruire un muretto attorno alle piantine di pomodori, senza un motivo preciso. Non serviva a nulla, il muretto, ma ho pensato che se l’avessi annoiato se ne sarebbe tornato su a casa, lui e quello sgabello di merda.
Stava sempre fermo. Sapevo che mi guardava, anche se non mi voltavo verso di lui. Mi sentivo gli occhi addosso, sulla schiena, sulla testa, sulle mani. Volevo fumare. Immaginavo i commenti, a tavola.
“Vi siete perso l’architetto, stamattina. – diceva sempre stronzate del genere – Ha fatto la casetta ai pomodori, poverini, gli ha fatto il riparo se no hanno freddo”.
Iniziava a ridere da solo, poi lo seguiva la figlia e mia suocera andava appresso, perché alle battute – alle sue battute – c’era sempre da scompisciarsi.
Mi sono girato e ha fatto il musetto. Ho raccolto un sasso che sembrava fatto apposta. Una specie di piramide con la base larga quanto il mio palmo e la punta leggermente tondeggiante. Adesso mi giro, ho pensato, e se storce il muso gli spacco la faccia.
Mi sono girato.
Ha storto il muso.
Ci ho messo niente ad arrivargli addosso. Gli ho frantumato la faccia con la pietra. Non ha nemmeno fatto in tempo ad aprire bocca. È caduto e io ho continuato a dare colpi. Uno, due, tre, dieci, venti.
Ha finito di storcere il muso.
Gliene ho dati tanti, tanti, tanti, finché ho sentito qualcosa di diverso sotto, più duro. Non un osso, no, era un’altra pietra sul terreno. Gli ho sfondato la testa da parte a parte. Mi sono fermato e non c’era più niente, la faccia non esisteva più. Ero sporco di sangue, il sasso era rosso, grigio, appiccicoso.
Ogni colpo che gli ho dato aveva un senso. Questo è per la vigna. Questo è per lo sgabello. Questo è per le battutine del cazzo. Questo è per il musetto. Davo i colpi ed ero felice. Mi rendevo perfettamente conto di quello che stavo facendo e non provavo nessuna pietà. Se potessi, lo rifarei ancora e, anzi, il mio unico cruccio è quello di non averlo fatto prima. Spaccandogli la faccia stavo risolvendo i miei problemi ed ero contento. L’ho devastato, come lui ha devastato la mia vita.
Ho guardato il sasso e l’ho scagliato verso il ruscello. Ho dato una pedata allo sgabello, poi l’ho acchiappato e l’ho lanciato in mezzo al canneto.
Ho lasciato mio suocero e mi sono spostato di qualche metro, in direzione della casa. Cosa avrei potuto fare? Nonostante l’avvocato mi abbia consigliato il contrario, al processo ho dichiarato di essere sempre stato lucido. La mia signora guardava su Sky i canali con assassini efferati, violenze gratuite, sangue a gogò. Avesse sollevato le chiappe, ne avrebbe visto uno in diretta, di omicidio cruento. In quei programmi tutti uguali parlavano sempre di assassini in preda al raptus. Ecco, io non so cosa sia il raptus, ma di certo non ero preda di niente, se non di un’enorme incazzatura.
Guardavo il cadavere, come a sincerarmi di averlo ammazzato davvero. Mi sono avvicinato di nuovo: morto era morto, c’era poco da fare. L’ho voltato spingendolo con la scarpa, lasciando il sedere per aria e la faccia – quella poltiglia che aveva attaccata al collo – rivolta verso il terreno.
Ho guardato in alto, verso la casa.
Dovevo andare da mia moglie e da sua madre.
Non c’era altra soluzione.
Non c’è stata altra soluzione.