33.
Non ho mai avuto un buon rapporto con mio fratello. Anzi, a dire il vero non ho mai avuto nessun rapporto con lui, nemmeno cattivo. Siamo capitati nella stessa casa, figli della stessa madre e dello stesso padre. Io sono più grande e non abbiamo mai avuto niente in comune, un interesse, una passione, qualcosa che ci facesse stare vicini. Non dico questo dopo che ha ammazzato la moglie e i suoceri: per quanto male abbia fatto, non lo sto disconoscendo. Se me lo aveste chiesto prima che uccidesse tutti, avrei detto le stesse identiche parole.
Suona inverosimile, ma eravamo due estranei. Non solo nell’ultimo periodo – può anche essere normale, quello: si cresce, ci si trasferisce, si vive una nuova vita – ma anche prima, quando ancora vivevamo nella stessa casa. La mia era una famiglia strana. Intendiamoci, nessuna storia terribile dietro, nessuna violenza: no, solo noia e grigiore. Poco affetto, nessun entusiasmo. Vivevamo con la stessa gioia che ha un impiegato il lunedì mattina, quando torna in ufficio. Vivevamo perché andava fatto e stavamo assieme perché era capitato.
I nostri genitori ci volevano bene, ma si sono sempre accontentati e non ci hanno mai spronato a desiderare una vita migliore. Non ci hanno negato nulla né fatto mancare quanto era nelle loro possibilità, ma, per dire, non hanno mai dato impulso affinché coltivassimo delle passioni. E poi hanno complicato tutto con la decisione di trasferirci a Sinnai. Credo che il trasferimento sia stato un colpo mortale per mio fratello. Se prima, a Portoscuso, compensavamo il grigiore di casa nostra con le uscite con gli amici, dopo, a Sinnai, non è stato più possibile: non conoscevamo nessuno e se non hai il carattere giusto è difficile farsi degli amici quando si è già grandi. Loro, i miei genitori, lo avevano fatto per noi: avevano deciso di avvicinarsi a Cagliari per permetterci di frequentare l’università, dato che non sarebbero riusciti a mantenerci come fuori sede. Nel loro mondo, un’ottima scelta. Nel mio, una scelta indifferente. In quello di mio fratello, una scelta devastante. Io non avevo nessuna intenzione di frequentare l’università a Cagliari e infatti sono scappata via, qui a Firenze, dove mi sono sposata.
Mio fratello no. Mio fratello è rimasto a casa con loro, con gli amici lontani e senza riuscire a farsene di nuovi. Quando tornavo a casa, in vacanza, lo trovavo sempre da solo, rincoglionito con la musica e il PC. Stava delle ore con quel giochino di calcio, quello che nemmeno giochi con gli omini ma fai solo la formazione, segui la tattica, sciocchezze simili. Non usciva praticamente mai: stava alla scrivania e si alzava per andare in bagno, oppure per uscire nel balcone di un metro quadro, dove fumava osservando il muro della casa di fronte. Pensandoci adesso, forse avrei dovuto parlargli. È brutto da dire, ma non mi interessava molto di lui. Era mio fratello, è vero, ma io avevo la mia vita, mica potevo metterlo in valigia e portarlo con me a Firenze. L’avrei potuto spronare, forse, ma non rientra nelle mie corde spronare nessuno: qualcosa ho ereditato anche io da mamma e papà. Lo vedo con i miei figli, mi impongo di essere presente, quasi pressante, ma preferirei che facessero da soli. Tornando a mio fratello, io ho avuto la forza e il coraggio di andare via, nessuno mi aveva spiegato come avrei dovuto fare. Lo poteva fare anche lui, ecco cosa pensavo, bastava averne voglia.
Ha preferito fuggire in altra maniera. Non so come abbia conosciuto mia cognata, né mi interessa saperlo. Non ho mai legato con lei e al matrimonio ci sono andata per dovere: mi ero portata dietro un mio amico gay presentandolo come fidanzato, era da un sacco di tempo che mi chiedeva di visitare la Sardegna. Che pagliacciata che è stata, il matrimonio intendo. Provo i brividi al ricordo. In quel periodo sentivo spesso mamma – spesso per i canoni della mia famiglia – anche due o tre volte alla settimana. Capivo che non era contenta che io me ne fossi andata, ma soprattutto con le sue parole – più con quelle non dette – lasciava emergere una certa tristezza per la scelta di mio fratello. Aveva conosciuto questa ragazza qua e nel giro di pochissimo tempo era andato a stare da lei. A casa non tornava più, se non per dormire, raramente per mangiare. Si allontanava dalla famiglia, dai genitori, e allontanandosene li disprezzava. Mia madre ci soffriva, ne sono sicura, anche se non me l’ha mai detto chiaramente. Di mio padre non saprei, ha sempre vissuto in un mondo tutto suo e penso di non avergli mai sentito esprimere un parere personale. Parlava poco e quel poco che diceva lo diceva con frasi fatte e generiche, senza schierarsi mai.
Volevo bene ai miei genitori e anche loro ce ne volevano. Sono andata via per vivere la mia vita, per uscire dai binari della noia in cui capivo che mi avrebbero costretta, di certo non con la forza fisica, altrettanto certamente con quella dell’abitudine. Da lontano ho imparato a capirli. Ora, quando litigo con mio marito, non posso che pensare a loro: mai un urlo, mai un bisticcio, mai uno scatto di nervi. Mi chiedo come facessero e la risposta che mi do non è per niente lusinghiera: avevano rinunciato a vivere. Andavano avanti, sopravvivevano, esistevano, ma avevano eliminato la passione dalle loro vite.
Io e mio fratello invece, a modo nostro, la cercavamo. I primi anni a Firenze ho avuto un’esistenza sregolata. Lavoravo in un pub, ero diventata l’amante del proprietario – conoscevo anche la moglie – ed era più la birra che bevevo di quella che versavo ai clienti. Non stavo mai in casa, cambiavo coinquiline senza nemmeno ricordarmi i loro nomi e lo stesso capitava con i ragazzi: ne ho avuti a decine, a stare stretti. Mi vergogno per molte delle cose che ho fatto – da quante feste sono stata cacciata via perché ero molesta? – ma in qualche modo, riflettendoci adesso, era quella la strada da percorrere. Poi ho conosciuto quello che sarebbe diventato mio marito e sono cambiata: addirittura mi sono iscritta all’università e mi sono laureata in Biologia. Magari sarei cambiata lo stesso, a un certo punto diventa ridicolo volersi divertire a tutti i costi, oppure è davvero merito suo, non saprei dire. Il risultato, a oggi, è che ho un ottimo marito, due figli stupendi e una vita regolare. Mio fratello credo che aspirasse allo stesso risultato, ma si ritrova in carcere dopo aver ammazzato tre persone. Non ho ancora avuto il coraggio di andarlo a trovare, vorrei farlo ma non so come reagirebbe. Gli ho scritto una volta, non mi ha mai risposto.
Mia cognata, la moglie di mio fratello, praticamente non la conoscevo. Non abbiamo mai legato, né abbiamo cercato le occasioni per farlo. Io abito a Firenze, loro stavano a Sinnai. Anche volendo, avremmo avuto problemi pratici a frequentarci con continuità. Mi ha sempre dato l’impressione di essere falsa, ritenevo che dietro quel sorriso di circostanza celasse sentimenti di inferiorità, rabbia e invidia nei confronti degli altri. Era impostata, ecco, al sorriso esteriore non corrispondeva un animo altrettanto sorridente. Al contrario di mio fratello, direi, che è tutto tranne che una persona cattiva. Ogni tanto, penso, le persone buone perdono il senno e reagiscono in modo sconsiderato, soprattutto quando vengono provocate. Con ciò non voglio dire che abbia fatto bene a fare quello che ha fatto ma, se ho compreso l’ambiente in cui sono maturati gli omicidi, ecco, posso dire che mia cognata se la sia cercata. Cercata, non meritata: è diverso. Nessuno si merita quella fine. Le poche volte che ci incontravamo, mio fratello sembrava mio padre. Zitto, silenzioso, per lui niente era degno di polemica, gli andava bene tutto. Ora capisco che rabbia covasse, ma in quei momenti era identico a papà. Qualunque cose mia cognata dicesse – e di sciocchezze ne diceva tante – lui non parlava. Come papà, insomma, solo che papà ha avuto la fortuna – o il merito? – di sposare mia madre e non una donna cattiva. La differenza sta tutta là. E chi lo sa, magari se mia cognata avesse sposato un altro e non mio fratello, non sarebbe finita così male. È impossibile da dire e una via alternativa a quella tracciata dal destino si può solo immaginare, tuttavia resta il fatto che mio fratello in questa storia è soprattutto una vittima. È diventato carnefice per mezz’ora, forse un’ora, poi è tornato la vittima che è sempre stato.
Quando mio padre si è ammalato, mio fratello si è comportato malissimo. È stato in quel periodo che mio marito ha perso definitivamente la poca stima che aveva di lui. Io cercavo di difenderlo, gli spiegavo che era in balia della moglie, dei suoceri, ma lui niente, non capiva. E in fondo aveva ragione. Andavo più spesso a trovare i miei genitori io che sto a Firenze che mio fratello che abitava vicino, nello stesso paese. Secondo me non capiva più quello che faceva, aveva perso di vista le cose importanti. È capitato anche a me, appena andata via di casa. In una di quelle sere in cui bevevo, fumavo, pippavo e andavo a letto con chiunque, mi avrebbero potuto avvisare della morte di tutta la mia famiglia e non me ne sarebbe importato nulla.
Ogni tanto provavo a chiamarlo, quando papà stava male. Gli chiedevo se lo aveva visto, se gli sembrava che nostra madre stesse bene e fosse in grado di prendersi cura di lui. Volevo fargli capire che toccava a lui occuparsi di papà, non alla mamma, ma ottenevo solo risposte generiche, evasive. Allora mi arrabbiavo, chiudevo il telefono e prenotavo un biglietto per Cagliari. Non sapeva niente della nostra famiglia, ma sono pronta a scommettere che sui suoceri avrebbe potuto raccontare ogni particolare. Mi faceva venire una gran tristezza, ero arrabbiata con lui, eppure lo difendevo quando ne parlavo con mio marito.
“Ma invece di fare tutti questi viaggi in Sardegna, non ci potrebbe andare tuo fratello da tuo padre?” mi diceva.
Cosa gli avrei dovuto rispondere? Mio fratello non è che ci sarebbe potuto andare, ci sarebbe dovuto andare. Ma non lo faceva e quindi toccava a me.
Il sabato della strage eravamo a casa, io e mio marito, mentre i bambini stavano dai nonni. Non avevo notizie di mio fratello dal giorno in cui avevamo venduto l’appartamento dei nostri genitori. Mi avevano fatto schifo, lui e mia cognata. Capivo che lui non agiva in modo autonomo, ma era guidato dalla mano sapiente e soprattutto avida della donna che aveva sposato. Immagino che quei soldi siano andati dritti a soddisfare un desiderio della moglie e ora sorrido amaramente a pensare che tutta la loro eredità toccherà a me e ai miei bambini.
Cagliari, strage familiare.
Come tutti i sardi che abitano in continente, sto attenta quando sento parlare della mia terra. Non soffro di nostalgia particolare né frequento i vari circoli di emigrati, che pure qua in Toscana non mancano, però vado sul sito de “L’Unione Sarda” più volte al giorno e riservo sempre un po’ di attenzione ai fatti della Sardegna. Quando su Sky TG24 è apparsa la scritta in sovraimpressione, eravamo seduti a tavola e stavamo finendo di pranzare. Ho lasciato accesa la TV mentre riordinavamo la cucina, curiosa di avere ulteriori informazioni. Non ce n’è stato bisogno.
Quando mio padre è morto, ho lasciato il numero di cellulare a una signora che abita nello stesso palazzo dei miei genitori. Volevo che mi avvisasse, se fosse successo qualcosa a mia madre.
“È vero quello che dicono di tuo fratello?” mi ha chiesto.
“Cosa dicono di mio fratello?” ho ribattuto. Non ho collegato, non ho pensato minimamente che potesse avere a che fare con la notizia che avevo letto su Sky.
“Allora non è vero, se non lo sai.”
“Non la capisco, mi scusi.”
“No, è che qua dicono che sia stato lui.”
“A fare cosa? Non la capisco!”
Sapevo che era una signora in là con gli anni, ma la ricordavo lucida e in gamba. Ho pensato che stesse perdendo colpi.
“Non hai sentito il telegiornale? Se metti su Videolina ne stanno ancora parlando. Ce l’avete Videolina a Firenze?”
In quel momento ho immaginato il collegamento. Ho chiuso la telefonata e sono andata in internet. Ho solo vaghi ricordi del resto. I carabinieri che mi chiamano, poi vengono a casa. Prenoto un biglietto per Cagliari e parto con mio marito. Arriviamo a Elmas e noleggiamo una macchina. Stiamo in un bed and breakfast a Sinnai. Un’enorme tristezza. Un’enorme tristezza per una vita che poteva essere diversa: bastava un particolare differente e tutto ciò non sarebbe successo. Mio fratello avrebbe potuto avere una vita grigia e banale come tante, invece ha avuto una vita di merda e ha pensato bene di risolvere i problemi nel peggiore dei modi.
Mi dispiace tanto.