34.
Il braccio destro era sporco di sangue, la mano mi gocciolava e l’ho pulita per terra, chinandomi su un ciuffo d’erba. Salendo verso la casa ho provato a chiudere il pugno: mi facevano male le giunture delle dita. Camminavo lentamente, ogni due o tre passi mi voltavo indietro a guardare il cadavere di mio suocero. Era sempre là. L’avevo ammazzato davvero e non mi dispiaceva per niente. L’avvocato, durante il processo, mi ha consigliato di dire che non mi ricordavo nulla di quei momenti, come se ad agire non fossi stato io. Pretendeva che dicessi di avere perso la memoria e che avessi pian piano ripreso coscienza solo all’arrivo dei poliziotti. Non l’ho fatto, che senso avrebbe avuto mentire? E poi io mi ricordavo tutto, alla perfezione.
Guardavo le piante, i muretti, i cespugli, la riserva dell’acqua, le bucce dei fichi d’India accumulate dietro un vecchio bidone di latta. Fanno letame buono, diceva mio suocero, per quello non le aveva volute dare a Claudino Merdona che aveva un maiale e le avrebbe prese volentieri. Le conservava per usarle chissà quando. Se avesse avuto forza, ripeteva, il maiale l’avrebbe preso lui, o almeno le galline, ma già tribolava a stare dietro all’orto e alla vigna, che fatica sarebbe stata a correre dietro persino alle bestie! Moglie e figlia annuivano quando si esibiva a pranzo, intanto quello con i calli alle mani ero io.
A metà della salita il corpo di mio suocero non si vedeva più. Sono tornato indietro, con il dubbio di non averlo ammazzato davvero: era sempre là, il corpo buttato a terra, non stavo sognando. Mi restava di entrare in casa e ammazzare madre e figlia, non ho mai avuto dubbi che l’avrei fatto. Certo, avessi sentito le urla di Augusto dieci minuti prima, forse mi sarei spaventato e non avrei portato a termine ciò che avevo iniziato. Oppure avrei ammazzato anche lui, ma non credo, non riesco a prendermela con qualcuno senza motivo. E anche quando ho le motivazioni, mi viene difficile cedere alla violenza. In carcere, ad esempio, i motivi per litigare non mancherebbero, ma per fortuna ho un compagno di cella come Matteo e gli altri detenuti li frequento poco. Appena vedo che ci sono problemi, mi giro e vado via: non ne vale la pena.
Mia moglie era seduta sotto il portico e aveva la testa china sul cellulare. Se avesse alzato lo sguardo mi avrebbe notato, ma era troppo presa dagli affari suoi. E poi non si aspettava di vedermi a quell’ora: io a metà mattina stavo nell’orto e non tornavo fino all’ora di pranzo. Solo mio suocero dopo un po’ si stufava – di certo dopo essersi sincerato di avermi dato più ordini possibile – e saliva a casa: quando finivo il mio turno da servo della gleba li trovavo vicini, padre e figlia, seduti a guardare le colline di fronte.
Invece di andare direttamente a casa, ho deviato dalla stradina e sono passato in mezzo alla vigna. Ho continuato a camminare, ho superato il portico, poi la baracca degli attrezzi e sono andato sul retro. Ho pensato di accendermi una sigaretta, ma l’odore di fumo avrebbe destato la signora. Ho lasciato perdere e ho proseguito il giro, finché sono arrivato dietro la cucina.
La porta era aperta; la tenda, che avrebbe dovuto impedire il passaggio alle mosche, era sbrindellata, per cui potevo vederle svolazzare tranquille attorno al tavolo. E potevo vedere anche mia suocera: stava cucinando e non si era accorta di me. Era un po’ sorda e, tra il rubinetto che ogni tanto apriva e lo sfrigolio di ciò che aveva in pentola, mi avrebbe sentito solo se mi fossi messo a urlare. Mi guardai attorno, alla ricerca di un’arma. Avevo l’imbarazzo della scelta. Mia moglie guardava sempre i programmi sui matti di ogni tipo – dopo che aveva finito di vedere quelli sugli obesi – e prestava particolare attenzione agli accumulatori seriali, forse perché ne aveva uno in casa. Mio suocero non raggiungeva i livelli di quei tizi che riempiono la casa di ogni porcheria, più che altro perché per non buttare nulla bisognerebbe prima di tutto comprare. Lui non comprava niente, raccattava e basta, e riempiva la casa, la baracca, il terreno, di oggetti rotti che non avrebbe mai adoperato.
Per terra c’erano un paio di vecchie tenaglie che non funzionavano più, una sega senza manico, una decina di bottiglie d’acqua tagliate a metà in modo da ricavarne dei recipienti, alcuni chiodi, pezzi di fil di ferro, assi di legno spezzate, e soprattutto un cavo elettrico. Era un avanzo della prolunga che avevo costruito l’estate prima in modo tale che la mia signora e i suoi genitori potessero godere della compagnia della televisione anche quando prendevano il fresco sotto il portico. Fosse stato per me, finito il lavoro lo avrei raccolto e mi sarei messo a riordinare, ma in quella casa non aveva senso farlo.
Il cavo era lungo poco meno di un metro. L’ho preso per le estremità e ho provato a tirare: resisteva ancora, nonostante fosse rimasto esposto all’acqua, al freddo e al sole.
Mi sono accostato verso la porta della cucina. Mia suocera era sempre girata, dal movimento del braccio e della spalla intuivo che stava mescolando qualcosa. Sentivo odore di soffritto, ma non avevo idea di cosa stesse cucinando: il soffritto era la base di qualunque sua ricetta, non c’era piatto senza quel sapore acre e dolciastro di cipolla bruciacchiata. Era brava a cucinare, comunque, di quello non mi posso lamentare.
Ho lanciato il cavo oltre la sua testa, tenendolo ben saldo con le mani. Non si è accorta di nulla, nemmeno si è voltata. Ho incrociato i lembi e ho stretto.
Ha provato a divincolarsi, ma non è riuscita a farlo; ha solo spinto più in là la pentola del soffritto. Ho continuato a stringere e nel frattempo guardavo verso l’altra porta, quella che collegava la cucina con il salone. Era difficile che arrivasse mia moglie, ma controllavo lo stesso: ormai faceva non più di tre o quattro spostamenti al giorno: dal letto al bagno, poi alla poltrona sotto al portico, bagno, poltrona e via, di nuovo a letto. Su ordine suo, e supervisione di mio suocero, avevo montato quattro ruote al suo trono, per cui riusciva persino a venire a pranzo senza alzarsi.
Mia suocera mi dava calci sugli stinchi, ma nemmeno li sentivo. Stringevo, stringevo, stringevo, finché non ho sentito il corpo afflosciarsi, con la faccia verso la pentola.
Era morta.
Ho mollato il cavo e spento il fornello. Il corpo è scivolato di lato e l’ho accompagnato a terra, non volevo che cadesse male. L’ho ammazzata, è vero, ma ho cercato comunque di portarle rispetto.
Oppure, come ha detto il Pubblico Ministero durante il processo, stavo semplicemente facendo silenzio per evitare che mia moglie, seduta a pochi metri di distanza – ci separavano solo due pareti di mattoni, di cui una nemmeno intonacata – mi sentisse.