35.

Sto guidando pensando alle cose da fare che ho lasciato in ufficio, quando Scandellari mi dice di fermarmi al bar di Kal’e Moru.

“Voglio un bitter.”

“No, tu non vuoi un bitter, tu non hai voglia di tornare in Commissariato.”

Mi ha fatto perdere tutta la mattina per andare a Muravera a far firmare delle carte inutili a Gianni Corda, quando avremmo potuto benissimo convocarlo da noi, lui e quella simpaticona della moglie. Solo che Scandellari si è svegliato con poca voglia di lavorare e molta di fare un giro, per cui mi ha obbligato ad accompagnarlo. Insomma, non è che io muoia dalla voglia di stare dietro alla scrivania, però se non mi do una mossa accumulo tanta di quella carta che poi mi tocca stare in ufficio fino a notte fonda, come faceva Pira ai bei tempi.

Verso lo zucchero nel caffè e mi arriva un messaggio da Floris.

“Contattatemi al più presto, urgentissimo.”

“A te non è arrivato niente?” chiedo a Scandellari.

“Che cosa mi deve arrivare?”

“Non hai il telefono?”

“Sì, in tasca.”

“Va a quel paese” dico mostrandogli il messaggio.

Scandellari sbuffa e scuote la testa. È fatto così, fa finta che non gli importi nulla, gli piace interpretare la parte dell’indifferente. Però intanto butta giù il bitter con un sorso e lascia dieci euro sul bancone, senza preoccuparsi di aspettare il resto.

“Chissà cosa è successo…”

“Ora entriamo in macchina, chiamiamo e lo scopri.”

Non bisogna azzardarsi a fare domande retoriche né riflessioni che saranno anche frasi fatte, ma ogni tanto servono per dire qualcosa. Quando sto con lui – a volte stiamo assieme anche otto ore di seguito – dopo un po’ non lo sopporto più e mi invento qualunque cosa pur di far passare il tempo, di parlare, ma lui niente, risponde in modo sarcastico, fa finta di non capire. Allora mi incazzo e gli rispondo male, non sono mica Pira io, che pende dalle sue labbra e gli dà ancora del lei.

“Sono Scandellari, Floris, dimmi” dice con il vivavoce inserito.

“Ci hanno segnalato un uomo a terra, probabilmente deceduto, nelle campagne di Torre delle Stelle, in zona Mrexaneddu.”

“Dov’è?”

“Ha presente la nuova strada che va a Muravera?”

“Sì, siamo proprio qua.”

“Come mai?”

“Preveggenza.”

Floris sta zitto, non è abituato come me e Pira: crede ancora che il Commissario sia una persona seria.

“Allora, dov’è questo morto?” lo incalza Scandellari.

“Ha presente l’entrata per Baccu Mandara?”

“Sì, Floris, – intervengo io, altrimenti il Commissario avrebbe risposto con altre sciocchezze – forse so anche dov’è Mrexaneddu. È quella strada bianca che poi torna verso i Sette Fratelli?”

“Sì, ma non quella dove c’è la rotonda.”

“Ho capito, quella dopo.”

Scandellari sta zitto e Floris riesce a spiegarci per bene dov’è il posto, ma io già lo conosco. Una mia compagna delle superiori aveva una casa in quella zona e c’ero andata per una festa di compleanno.

“Guida tu, allora, dato che sai dov’è” mi dice.

“Ma se guido sempre io!”

Saliamo in macchina e parto, vado veloce, prendo una rotonda troppo forte e Scandellari si regge alla portiera.

“È inutile che corri.”

“Meglio arrivare presto.”

“Tanto è morto. E ci saranno già i carabinieri.”

“Dici?”

“Non li hai visti prima? Ci hanno superato sul cavalcavia.”

Ha ragione, ma non mi va di dargliela, né mi va che io non abbia notato i carabinieri. Voglio dire, li ho visti, ma mi sono dimenticata subito, non ho collegato.

Continuo a correre fino all’imbocco della strada bianca, poi rallento, ci sono un sacco di buche e non voglio alzare polvere. E se il morto è morto davvero, inutile arrivare un minuto prima, accidenti a Scandellari che continua a guardare fuori dal finestrino e non parla.

“Ecco.”

La macchina dei carabinieri è parcheggiata con due ruote sulla cunetta, ma ne resta oltre metà sulla strada. Parcheggio dietro e scendiamo. Ci guardiamo attorno, non si vede nessuno. C’è un cancello malmesso, tenuto su dal fil di ferro. È chiuso, ma non è un problema: lo oltrepassiamo girando attorno al pilastro ed evitando le foglie dei fichi d’India. Percorriamo una stradina, saltiamo una pozzanghera e finalmente vediamo i due carabinieri. Accanto a loro c’è un uomo che gesticola. Ci facciamo notare e Scandellari affretta il passo.

“Buongiorno” diciamo da lontano mostrando il tesserino.

I carabinieri ci guardano e l’uomo che è con loro smette di gesticolare. Ci avviciniamo e noto il cadavere.

“Buongiorno, sono il commissario Francesco Scandellari del Commissariato della Marina di Cagliari. Lei è l’ispettore capo Enrica Tolu” dice indicandomi.

I carabinieri si rilassano, secondo me hanno avuto paura di dover essere costretti a cacciare via due tizi venuti a curiosare.

“Stanno arrivando i colleghi” dice quello più alto.

“Si sa chi è? – chiede Scandellari indicando l’uomo a terra – È morto?”

Certo che anche lui in quanto a domande retoriche… Mi devo ricordare di prenderlo in giro una volta che torniamo in ufficio.

“Nessun battito.”

“Chi è?”

“Severino Cruccu, il proprietario del terreno.”

Io e Scandellari guardiamo verso l’uomo che sta con i carabinieri. Ha un braccio sporco di sangue e l’aria molto spaventata.

“E lei invece chi è?” gli chiede il Commissario.

“Cubeddu Augusto.”

“Cosa fa qua?”

“Niente, io stavo… ecco, ho visto per terra… ero nel mio terreno e stavo… ho chiamato Severino, Severino, mi sono avvicinato… niente, niente… mio fratello così è morto… in terra l’ho trovato… ho chiamato il 113 e basta, che disgrazia!”

“Era da solo qua?”

“Io?”

“No, non lei.”

Mi aspettavo che Scandellari gli rispondesse male, invece si limita a indicare il corpo con un cenno del capo.

“No… non lo so… non era solo. Stamattina li ho visti arrivare tutti.”

“Tutti chi?”

“Severino, la moglie, la figlia e il genero, vengono sempre assieme qua… che disgrazia.”

“Sa dove sono?”

“Dove sono… dove sono… no, non lo so. Il genero lavora sempre nell’orto… non lo so dove sono.”

“Dove possono essere?”

“Non lo so, non lo so… la casa è su… questa stradina, ecco… la casa è su, in fondo, da qua non si vede.”

Scandellari si avvicina a un carabiniere e gli mormora qualcosa all’orecchio. Non sento cosa dice, mentre mi arriva chiara la risposta.

“Stanno arrivando i rinforzi, l’ambulanza, abbiamo allertato tutti.”

“Bene, aspettateli qua allora, noi saliamo.”

Poi si volta verso di me: “Andiamo”.

Iniziamo a percorrere la stradina e il Commissario si ferma dopo una ventina di metri.

“Guarda” dice chinandosi.

Mi chino anche io.

“Sangue?” chiedo.

“Sembra.”

“Avverto i carabinieri?”

“Lascia stare.”

“Pensi che non sia stato quell’uomo?”

“Quello che penso io è poco importante.”

“Che palle che sei!”

“Mai detto di essere divertente.”

“Figurati, non mi era mai venuto il dubbio.”

“Comunque non credo che abbia ammazzato il vicino, sia salito qua a pulirsi e poi abbia chiamato i carabinieri. Non ha senso.”

“Ma come? Non sei tu quello che dici che gli omicidi difficilmente hanno un senso?”

“Ce l’hanno sempre, invece, e di solito è molto stupido.”

“Fino all’altro giorno non dicevi così.”

“Probabile.”

Continuiamo a camminare finché vediamo la casa. Sotto il portico c’è un uomo, seduto su un gradino. Sta fumando una sigaretta.

“Stai ferma. – mi dice Scandellari – Fammi avvicinare da solo”.

“E non fare l’eroe!” dico andandogli appresso.

L’uomo ci nota.

“Chi è lei?” chiede il Commissario.

L’uomo solleva la testa e ci guarda.

“Come si chiama?”

“Daniele Masala.”

“Si tiri su e mostri le mani, lentamente.”

L’uomo si alza e allarga le braccia. È tutto sporco di sangue. Io ho la mano sulla fondina. Scandellari non gira mai armato – i texani, ci chiama, a noi che lo facciamo – ma comunque non gli dispiace troppo che possiamo proteggerlo, anche se non lo ammetterà mai.

“Chi è?” chiedo a Scandellari.

“Il genero, presumo, – dice sottovoce – e, sempre presumendo, direi che è l’assassino”, poi si rivolge all’uomo.

“Sono il commissario Francesco Scandellari del Commissariato della Marina di Cagliari, lei è l’ispettore capo Enrica Tolu. Come sta?”

“Bene.”

“Continui a stare fermo là dov’è. È ferito?”

“No.”

“È sicuro? Se ha bisogno di cure sta arrivando l’ambulanza.”

“Vorrei accendermi una sigaretta. Posso?”

Scandellari annuisce e l’uomo infila una mano in tasca. Stringo forte la pistola, ma l’uomo tira fuori solo l’accendino e il pacchetto di sigarette.

“Cosa è successo?”

“Non l’ho fatto apposta.”

“Cosa è successo?”

“Non li volevo ammazzare.”

Come sento il plurale mi sale il cuore in bocca.

“Chi?”

“Loro, non volevo.”

“Chi altro c’è?”

“Mio suocero, mia suocera e mia moglie.”

“Oltre a lei?”

“Sì.”

“Nessun altro?”

“No.”

“Non ha figli?” chiedo.

So che Scandellari non glielo chiederebbe mai. Pur di non avere una brutta notizia, lui preferisce stare zitto.

“No.”

Per fortuna, penso.

Poi prendo il cellulare e chiamo in Commissariato per informare i colleghi.