36.
Dopo che ho fatto scivolare a terra il cadavere di mia suocera, è stato il turno di mia moglie. Dovevo ammazzarla al più presto. Non restava mai più di qualche minuto senza chiamare la madre. Finiva l’aranciata e urlava. Finiva le patatine e urlava. Le serviva aiuto per alzarsi e andare in bagno e urlava. Urlava sempre. Mia suocera accorreva veloce, così le urla finivano subito. Le poche volte che si attardava, la signora iniziava a recriminare, con quel tono solito a metà tra l’accusa e il piagnucolio. Non la sopportavo, ma per fortuna la maggior parte delle volte ero lontano. Non si vergognava nemmeno di lamentarsi perché le arrivavano in ritardo i salatini.
Bisognava fare in fretta, perché se avesse chiamato senza ottenere risposta avrebbe iniziato a urlare sempre più forte. Ho tenuto stretto il cavo con la mano destra e sono andato verso il salone. Dalla finestra riuscivo a vedere mia moglie. Mi dava le spalle, era seduta in poltrona, con la testa piegata sul cellulare. Avrei potuto aprire la finestra e prenderla da dietro, ma mi avrebbe sentito e si sarebbe girata. L’alternativa era uscire sotto il portico, in quel caso mi avrebbe visto: non avevo altre soluzioni, dovevo ammazzarla e pazienza se se ne fosse resa conto.
La rabbia con cui avevo colpito mio suocero mi stava passando, volevo fare in fretta e accendermi una sigaretta. Queste cose non le ho dette a nessuno, nemmeno durante il processo. Ho preferito tacere. Avevo iniziato una cosa e la dovevo finire. Il Pubblico Ministero mi aveva incalzato, secondo lui, e io gli avevo risposto a monosillabi. L’avvocato aveva provato a difendermi, ottenendo scarsi risultati. La verità è che quando i fatti sono così chiari, non si dovrebbe nemmeno perdere tempo a fare un processo. È solo una perdita di tempo e una tortura ulteriore per chi è ancora vivo e soffre per ciò che è accaduto. Io ero colpevole, – sono colpevole – perché continuare a fare tutte quelle domande? Tanto non rispondevo, non ne avevo voglia, non c’era niente da spiegare né, tanto meno, da capire.
La porta che dava sul portico era socchiusa, per cui ho potuto aprirla del tutto senza fare rumore. Sono sceso dal gradino e ho guardato verso mia moglie: non si era accorta di nulla. Saranno cinque, sei passi, dalla porta alla poltrona. Ho stretto ancora di più il cavo nella destra e mi sono avvicinato.
Ha urlato.
Ho dato un colpo al cellulare, facendolo volare via.
“Che cazzo stai facendo? – ha continuato a urlare – Perché sei sporco di sangue?”
Non mi sono scomposto, non ho perso la pazienza. Ho continuato a stare zitto e ho afferrato il cavo anche con la mano sinistra. Ho fatto come con la madre: gliel’ho fatto passare dietro la testa e ho stretto più forte che potevo.
Ce l’avevo di fronte. Provava a divincolarsi, a bloccarmi le braccia con le mani, ma non ci riusciva. Continuavo a stringere. Aveva gli occhi spalancati e tentava di aprire la bocca per trovare aria. Solo che io stringevo e dalla gola non passava nulla. Muoveva i piedi a scatti, irrigidiva le gambe, ma non riusciva a liberarsi.
Ogni tanto sogno che la sto ammazzando, ma invece degli spasmi e dei sospiri sento la sua voce. Mi rimprovera, urla, mi dice che sono un coglione incapace. Mi sveglio con i pugni serrati e ho bisogno di qualche istante per capire dove sono e cosa mi sta succedendo. Poi, appena realizzo che sono in carcere, mi sento sollevato. Una volta – credo la prima che l’ho sognata – ho aperto gli occhi e mi sono trovato Matteo a fianco, mi guardava preoccupato.
“Tutto bene?” mi ha chiesto.
“Sì, grazie, scusa se ti ho svegliato.”
Ho bevuto un sorso d’acqua e ho cercato di riaddormentarmi, ma non è stato facile.
Ho continuato a stringerle il collo finché non ha smesso di muoversi. Le braccia sono scivolate lungo il corpo e i piedi si sono rilassati, fermandosi sul pavimento. Ho smesso di stringere e ho buttato il cavo per terra: la testa è caduta sul petto.
Era morta. L’avevo ammazzata.
Mi sono acceso una sigaretta.
Fumavo e camminavo sotto il portico. Non mi sentivo in colpa. Mi giravo a guardarla e provavo piacere: aveva smesso di rompermi i coglioni. Non ho rimpianti per quello che ho fatto, tanto meno rimorsi, né per lei né per suo padre. Ho agito per legittima difesa, ma è inutile che mi metta a spiegare. Certo, tornassi indietro non lo rifarei, non rifarei niente di ciò che ho fatto nella mia vita, ma rimorsi no, non ne provo. Non l’avrei conosciuta, non avrei messaggiato con lei, non mi ci sarei fidanzato, né sposato. Stringendo quel cavo attorno al collo di mia moglie e pestando il sasso sulla faccia di mio suocero mi sono liberato. Non dico di essere orgoglioso di ciò che ho fatto, ma non soffro per loro. Soffro per me, è diverso. Dopo anni passati a soffrire per causa d’altri, quella mattina in montagna ho cominciato a soffrire per causa mia. Durerà ancora per poco, fino a stanotte, poi sarò morto.
Mia moglie mi ha guardato negli occhi e non ho avuto pietà. Come il padre, è morta consapevole di ciò che le stava accadendo. Meno male che mia suocera non si è accorta di me: forse, se mi avesse visto, non avrei avuto il coraggio di ammazzarla. Di lei sì, un po’ mi dispiace, ma che altro potevo fare? Quei tre erano una cosa sola e io ero il corpo estraneo.
Ho acceso un’altra sigaretta e mi sono guardato intorno. Mi faceva schifo quella casa, quel terreno, mi facevano schifo i filari di viti, mi faceva schifo tutto. Come avevo fatto a ridurmi in quel modo? Perché mi ero impelagato in quella situazione? Non sarebbe stato più semplice avere una vita normale? Oppure, al primo problema, perché non ho mandato tutti affanculo? Mi sarebbe bastato passare dalla segretaria, a fine turno, e chiedere un anticipo del TFR. Molti miei colleghi lo facevano, ce lo davano senza problemi, l’avrei potuto fare anche io. Sarei andato in aeroporto, avrei preso un biglietto per il Brasile o per la Thailandia e sarei scomparso per sempre.
Invece no. Per me la soluzione non poteva essere facile. Avrei dovuto pensare, prevedere, organizzare, progettare. Non ero in grado di farlo. Ero solo in grado di subire vessazioni, non credevo nemmeno di essere capace di ribattere. Se ci penso, ho solo reagito a un sopruso. A una vita di soprusi. Quando mio suocero ha storto il muso, ha rimestato anni e anni di prepotenze. Quando ha posato il culo su quello sgabello di merda, assiso in trono come un re che valuta l’operato dei sudditi, stava dicendo che ero il suo schiavo.
Io, per conto mio, non avrei mai ammazzato nessuno. Prendevo una boccata dalla sigaretta e chiudevo gli occhi. Trattenevo il fumo, poi lo buttavo e li riaprivo: mia moglie era sempre là, accasciata sulla poltrona. Non riuscivo a credere di averla ammazzata davvero. Anche adesso mi sembra impossibile di averlo fatto. Continuavo a fumare e a camminare. Sono tornato in cucina, passando dentro la casa con la sigaretta accesa, mia suocera ancora a terra. Avevo ammazzato davvero anche lei. Non mi restava che uscire dalla casa e tornare verso l’orto, per controllare ancora una volta che mio suocero fosse morto realmente. Non ne ero mica convinto, nonostante il sangue sul braccio.
Poi ho sentito le urla di Augusto, la conferma che cercavo: non serviva più a niente scendere nell’orto.
Mi sono seduto sotto il portico a fumare.
Ho aspettato che venissero a prendermi.